La lunga transizione egiziana

Di Stefano Rizzo Venerdì 01 Giugno 2012 11:27 Stampa
La lunga transizione egiziana Foto: UN Women Arab States

Il 23 e 24 maggio si è tenuto in Egitto il primo turno delle elezioni presidenziali dell’era post Mubarak. Sebbene le elezioni siano state dichiarate regolari, la situazione del paese – ancora scosso dagli scontri di piazza e da attacchi contro i copti – rimane critica, sia per la mancanza di una nuova Carta costituzionale, sia per le incertezze sul ruolo che i partiti islamisti e l’esercito giocheranno in futuro.


La lunga transizione egiziana non è finita, ma con le elezioni presidenziali della scorsa settimana (23-24 maggio) ha compiuto un ulteriore passo avanti verso la definizione di un nuovo Egitto.

È passato più di un anno dalle grandi manifestazioni di protesta che hanno percorso tutto il mondo arabo, dal Maghreb al Mashreq, mobilitando milioni di persone, soprattutto giovani delle città, che chiedevano più democrazia e rispetto dei diritti umani, ma che protestavano anche contro la stagnazione economica, la povertà e la disoccupazione e contro la corruzione dei regimi al potere. Cominciò tutto in Tunisia il 17 dicembre del 2010 quando un giovane venditore ambulante, di fronte all’ennesimo sopruso, si dette fuoco, morendone. Dalla Tunisia ondate successive di manifestazioni si propagarono in poche settimane verso ovest, al Marocco, verso est, alla Libia e all’Egitto, verso sud, allo Yemen e, seguendo verso nord l’arco della Mezzaluna fertile all’Arabia Saudita, al Bahrein e alla Siria, lambendo anche l’Iran sciita.

A distanza di un anno e mezzo i risultati di questi imponenti moti di popolo, inizialmente pacifici, a volte violenti, ma sempre repressi nel sangue, sono diseguali. In Marocco hanno condotto alla promulgazione di una nuova Costituzione e a nuove elezioni (novembre 2011), nelle ultime settimane, però, sono riprese le manifestazioni contro il nuovo governo di Abdelilah Benkirane.

In Tunisia le dimostrazioni di massa hanno portato al rovesciamento del regime di Zine El Abidine Ben Alì e all’avvio di un robusto processo di democratizzazione. In Algeria i peraltro sporadici moti di protesta non hanno avuto risultati significativi e anzi le elezioni del 10 maggio scorso hanno visto la vittoria dei due partiti filogovernativi. In Libia, la feroce repressione del dittatore Gheddafi ha scatenato la guerra civile che, grazie all’intervento delle potenze occidentali, ha portato alla vittoria degli insorti, tuttavia in una situazione di grande incertezza per il futuro del paese. In Yemen, dopo mesi di scontri sanguinosi, il presidente Abdullah Saleh è stato costretto dalle pressioni saudite e americane a dimettersi e a lasciare il paese, ma è stato sostituito dal suo vice. In Arabia Saudita i modesti moti di protesta sono stati rapidamente repressi dalle forze di sicurezza del regime. In Bahrein la popolazione, a larga maggioranza sciita, è insorta contro la monarchia dominata dalla casa regnante sunnita, ma la protesta è stata schiacciata dalle truppe dell’Arabia Saudita intervenute per riportare l’ordine sotto la bandiera del Consiglio di  cooperazione del Golfo (CCG). Infine, in Siria la protesta della maggioranza sunnita ha incontrato la resistenza del regime alawita di Bashar al-Assad che ha contrattaccato con una feroce repressione militare contro la popolazione civile, portando ormai il paese sull’orlo della guerra civile generalizzata.

A oggi soltanto la Tunisia, l’Egitto e – con molte riserve – la Libia, possono essere considerati altrettante storie di successo, nel senso che in essi sembrano avviati processi di democratizzazione e di riforma dello Stato. Tra questi l’Egitto, che per numero di abitanti, per estensione, per influenza storica e culturale costituisce – assieme alla Turchia, all’Arabia Saudita e all’Iran – il quartetto di potenze medio-grandi della regione, rappresenta il caso più emblematico per comprendere il senso e prevedere gli esiti dei sommovimenti che hanno investito il Medio Oriente.

Dopo le settimane di protesta in piazza Tahrir al Cairo e in molti altri centri del paese, la situazione è rimasta a lungo incerta, pericolosamente in bilico tra repressione violenta e riforme. L’azione repressiva delle forze di sicurezza fedeli al regime ha provocato centinaia di morti e migliaia di feriti, fino a quando l’esercito non ha deciso di scendere in campo ponendosi a garanzia dell’incolumità fisica dei cittadini. Sulla posizione assunta dall’esercito hanno sicuramente pesato le pressioni e gli inviti alla moderazione dei paesi europei e, soprattutto, degli Stati Uniti – il principale finanziatore e addestratore delle forze armate egiziane. Ma ha anche pesato il ruolo che in passato le forze armate hanno svolto nella società egiziana fin dall’indipendenza e sotto il regime carismatico di Gamal Abdel Nasser, un ruolo in parte defilato rispetto agli elementi più repressivi del regime e che gli è valso, se non l’appoggio, almeno la non ostilità dei manifestanti.

È stato l’esercito a imporre l’uscita di scena di Hosni Mubarak, investendosi, come Consiglio supremo delle forze armate, dei pieni poteri per realizzare la transizione. Tuttavia il seguito è stato incerto e tumultuoso: per mesi si sono ripetute le manifestazioni di protesta e, all’apparenza, la giunta militare ha consentito che squadracce di ex sostenitori del regime imperversassero liberamente con pestaggi e uccisioni di manifestanti. Fino alla fine del 2011, quando sono state indette le prime elezioni legislative libere: un processo complesso, durato diverse settimane, che ha riguardato prima le città e poi le zone rurali. L’esito di queste elezioni, così come già quelle in Tunisia e in Marocco, è stato uno shock per le forze armate e per le componenti laiche della protesta popolare. A vincere con una maggioranza relativa del 38% è stato il partito Libertà e giustizia, espressione dei Fratelli Musulmani, i cui esponenti erano stati a lungo perseguitati dal regime di Mubarak; secondo, con un risultato di tutto rispetto (27%), è stato il partito Nour (Partito della Luce) che raggruppa vari movimenti integralisti di ispirazione salafita, mentre i vari partiti laici che erano stati, almeno inizialmente, l’anima della protesta hanno raccolto risultati assolutamente deludenti.

Dopo l’elezione del nuovo Parlamento, tuttavia, la giunta militare ha continuato a esercitare il potere dichiarandosi garante delle tappe successive del rinnovamento dello Stato – l’emanazione di una nuova Costituzione e l’elezione di un nuovo presidente – e promettendo di lasciare il potere ai civili non appena queste due tappe fossero state raggiunte. La commissione per la stesura della nuova Costituzione, però, si è bloccata nei veti reciproci, mentre aumentava il clima di sospetto sulle motivazioni segrete dei vari protagonisti in campo: da un lato il timore che la vittoria dei Fratelli Musulmani e il buon piazzamento dei salafiti potesse portare all’instaurazione di un regime integralista basato sulla legge coranica; dall’altro il sospetto che i generali intendessero continuare a condizionare il processo di transizione per preservare gli ingenti interessi che hanno nell’economia, oltre a una certa misura di potere politico.

In questo clima confuso vi sono stati negli ultimi mesi nuovi scontri di piazza, con morti e feriti e – cosa ancora più preoccupante – attacchi contro la minoranza copta del paese condotti da “provocatori” non meglio identificati. Non solo, mentre i partiti laici chiedevano un rinvio delle elezioni presidenziali per potere meglio organizzarsi, i partiti religiosi, che nei decenni di repressione hanno saputo costruire una capillare organizzazione in tutto il paese, insistevano perché si svolgessero nei tempi previsti, ingenerando il sospetto di un accordo sottobanco con la giunta militare.

Così si è arrivati alla prima tornata delle elezioni presidenziali del 23-24 maggio, che sono certamente state un successo dal punto di vista del loro svolgimento (non ci sono stati significativi episodi di violenza e gli osservatori internazionali le hanno giudicate – nonostante le denunce di brogli – complessivamente regolari), ma non della partecipazione, dal momento che ha votato meno del 45% degli aventi diritto. A piazzarsi meglio tra la dozzina di candidati sono stati due figure all’apparenza antitetica, ma che insieme preconizzano l’articolazione del potere del futuro Egitto: Mohammed Morsi, candidato dei Fratelli Musulmani, cui il partito Nour ha già promesso il suo sostegno, e Ahmed Shafik, un generale esponente del vecchio regime che si è presentato con un programma di “ritorno all’ordine”. Sono loro che andranno al ballottaggio del 16-17 giugno, in cui i partiti laici, avendo raccolto una minoranza del voto popolare, non saranno rappresentati.

Dopodiché si tratterà di vedere se, come ha promesso, la giunta militare farà il passo indietro e cederà il potere. Se Morsi sarà eletto, com’è probabile, ciò non potrà che aumentare le preoccupazioni del mondo occidentale (e dei laici interni), perché a quel punto sia il Parlamento che la presidenza saranno controllati dai Fratelli Musulmani, per di più con l’appoggio dei salafiti, e il pericolo di una deriva integralista si approfondirebbe. Ad accrescere l’incertezza c’è poi il fatto che, a prescindere di chi sarà eletto, non si sa quali saranno esattamente i suoi poteri, dal momento che non esiste ancora una Costituzione che li determini. E ciò lascia un vuoto pericoloso che potrebbe essere riempito in senso potenzialmente antidemocratico sia che a vincere sia il candidato delle forze armate sia quello dei Fratelli Musulmani. Gli esiti di questa lunga transizione egiziana sono dunque ancora tutti da definire.


Foto: UN Women Arab States

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