Il salvataggio dell’Irlanda non ferma la crisi dell’euro

Di Paolo Guerrieri Venerdì 10 Dicembre 2010 12:51 Stampa

Il pacchetto di salvataggio dell’Irlanda della settimana scorsa non è riuscito a fermare il contagio sui mercati dei titoli, che rischia così di estendersi anche ad economie più solide. Cosa è necessario fare per impedire che la crisi si estenda ulteriormente fino a determinare la drammatica fine dell’intera area euro?

Com’era largamente previsto la scorsa settimana è stato varato il pacchetto di sostegno e salvataggio a favore dell’Irlanda, con un intervento da 85 miliardi di euro finalizzato ad arginare una situazione interna del paese gravemente compromessa da un  debito pubblico in continua ascesa e da un sistema bancario da troppo tempo totalmente dipendente dalla liquidità della Banca centrale europea. Ma non è servito a fermare il contagio sui mercati dei titoli, che si è esteso rapidamente dall’Irlanda ad altri paesi europei come il Portogallo e la Spagna e ha fatto lievitare i differenziali (spread) dei titoli di debito sovrano come mai era accaduto durante questi primi undici anni di vita dell’euro.
In una situazione come l’attuale non c’è più una linea di demarcazione netta tra le economie in difficoltà e le altre. Anche paesi come l’Italia e il Belgio potrebbero essere rapidamente e pesantemente coinvolti. La crisi è in effetti divenuta sistemica e ciò che più preoccupa i mercati finanziari è il tentativo confuso dei paesi dell’area euro di continuare ad intervenire caso per caso, cercando di trasferire parte del rischio sovrano dai governi agli investitori.
La domanda chiave a questo punto è cosa si possa fare per scongiurare l’estendersi del contagio, e soprattutto per evitare il rischio di un vero e proprio tracollo di molti paesi europei in difficoltà e con esso di una drammatica crisi finale dell’intera area euro.
Da una parte c’è la risposta decisa di alcuni – e tra questi vi è il governo tedesco – che imputando la crisi in corso alle sregolatezze delle politiche economiche messe in atto dai singoli paesi membri, in particolare in campo fiscale, vogliono riversare gli oneri di aggiustamento sui singoli paesi in difficoltà. Di qui l’austerità fiscale da imporre con particolare intensità ai paesi più indebitati e a rischio, unitamente a maggiori controlli e sanzioni – anch’essi in larga parte incentrati sulle politiche fiscali e di bilancio dei singoli paesi. Ma è una risposta sbagliata e in larga misura velleitaria perché il ripristino della disciplina fiscale e di bilancio, per quanto necessaria, non sarà certo in grado di assicurare dinamiche di crescita adeguate a garantire la stessa sostenibilità dei debiti sovrani dell’area euro.
All’altro estremo vi è chi afferma che per la sopravvivenza dell’euro sia necessario un passaggio obbligato, consistente nel mettere in comune il debito e le politiche fiscali dei paesi membri, rafforzando l’unione politica. È un’affermazione giusta, in questo caso, ma che può rappresentare solo un obiettivo a medio e lungo termine, dal momento che non figura per ora nell’agenda di nessun grande paese europeo.
La strada percorribile sembra allora un’altra: un sentiero intermedio tra le due posizioni estreme sopra ricordate, caratterizzato da un processo di aggiustamento che sia finalizzato a fermare il contagio nel breve termine e possa risultare compatibile – a medio e lungo termine – con il raggiungimento dell’unione fiscale tra i paesi membri, un obiettivo essenziale all’esistenza dell’Unione monetaria europea. In questa prospettiva i nodi essenziali da sciogliere sono soprattutto tre.
Innanzitutto è necessario affrontare le crisi dei debiti sovrani con piani severi di risanamento nazionale ma mettendo a disposizione tutta la liquidità necessaria perché il ripianamento del debito non venga impedito e alla fine soffocato da processi deflazionistici degli stessi paesi. A questo riguardo i fondi di intervento oggi a disposizione sono giudicati insufficienti dai mercati e sarebbe quindi importante da un lato aumentarli e dall’altro che la Banca centrale europea continui ad offrire la liquidità necessaria all’economia europea, anche attraverso l’acquisto di titoli di Stato, nell’ipotesi – oggi pressoché scontata – che i mercati non siano disposti a fornire le risorse liquide richieste.
In secondo luogo va attuata la separazione tra crisi bancaria e crisi dei conti pubblici – oggi strettamente correlate attraverso i salvataggi bancari operati con denaro pubblico – approntando meccanismi di risanamento dei sistemi bancari di alcuni paesi tra cui in prima fila Irlanda, Portogallo e Spagna, così da isolare le banche di fatto fallite – e da chiudere – dal resto del sistema che può essere invece ristrutturato e risanato.
In ultimo va prospettato un meccanismo permanente di gestione delle crisi sovrane – destinato a prendere il posto dell’attuale EFSF – che a differenza di quanto prospettato dal governo tedesco sia una sorta di Fondo monetario europeo, in grado di contemperare l’assistenza finanziaria ai paesi in difficoltà con una condizionalità adeguata a stimolare le necessarie riforme dei singoli paesi. Le risorse per farlo funzionare potrebbero essere reperite in parte dagli stessi paesi con debiti in eccesso e in parte dall’emissione di eurobond con partecipazione e costi differenziati dei singoli paesi membri. Proposte interessanti in tale direzione non mancano – si veda la recente proposta di Junker e Tremonti sulla costituzione dell’Agenzia europea del debito – e con le dovute mediazioni possono essere rese operative.
Il problema è che le proposte di riforma della governance economica europea in corso di approvazione in queste settimane rispondono solo in minima parte a queste esigenze. Offrono novità importanti sul piano della prevenzione e correzione degli squilibri di bilancio dei paesi ma presentano forti carenze sul piano del coordinamento delle politiche macroeconomiche e di aggiustamento. Più in generale trascurano il problema della crescita dell’area europea nel suo complesso. E non vi è dubbio che una bassa crescita finirà per rendere assai più gravosi, se non addirittura impossibili in taluni casi, i risanamenti fiscali da attuare da parte dei singoli paesi in difficoltà. E tra questi ultimi figura anche il nostro paese a causa del suo alto indebitamento, della sua scarsa competitività e della sua modesta capacità di crescita.
Per riassumere, l’area dell’euro si trova in questa fase di fronte a un fondamentale crocevia. La sua stabilità finanziaria e macroeconomica si deve fondare certamente sulla stabilità dei prezzi e la disciplina di bilancio, ma ha altrettanto bisogno di un terzo pilastro che è quello dell’integrazione e della crescita economica. O l’area dell’euro trova i modi per gestire la sua integrazione e tornare a crescere o l’intero disegno di integrazione europea rischia il fallimento.

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