L’autunno amaro di Israele

Di Maria Grazia Enardu Venerdì 14 Dicembre 2012 19:16 Stampa

Lo scorso 29 novembre l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato, con una maggioranza quasi plebiscitaria, la richiesta dell’Autorità palestinese di essere ammessa come Stato osservatore non membro dell’ONU. Il voto dell’Assemblea non sorprende, ma mette in luce il crescente isolamento di Israele.


Il voto sulla Palestina

Il voto dello scorso 29 novembre sull’ammissione della Palestina alle Nazioni Unite come Stato osservatore non membro è un passo avanti rispetto a quel che la Palestina era: semplice osservatore senza la parola Stato. Ma non è quello che i palestinesi volevano l’anno scorso, ovvero una partecipazione piena, da Stato membro. Nel 2011, l’opposizione degli Stati Uniti in sede di Consiglio di Sicurezza l’aveva impedito, anche se la soglia dei nove voti necessari era stata praticamente raggiunta.

All’Assemblea generale tutti i membri votano sullo stesso piano (rimangono esclusi solo gli osservatori, come il Vaticano e la stessa Autorità palestinese) e quindi era chiaro che la risoluzione sarebbe passata. La domanda, semmai, era con quale testo e con quali voti. Israele sperava che si formasse un fronte di 20-30 paesi, tra cui diverse democrazie occidentali, una sorta di “maggioranza morale”, che si opponesse a quella reale che avrebbe inevitabilmente approvato la risoluzione. Ma questo blocco di protezione a Israele non si è materializzato: a causa della politica di Gerusalemme degli ultimi anni, con i governi di destra che si sono susseguiti dal 2001 a oggi.[1]

La risoluzione è quindi passata con 138 voti favorevoli, 41 astenuti, 9 contrari e 5 assenti. È l'analisi degli schieramenti che rivela fratture e continuità in sede di Assemblea. Non si tratta di un voto inconsueto, anzi, salvo alcuni mutamenti secondari, è la riproposizione praticamente sovrapponibile di quanto accadde nel 2006, quando l’Assemblea generale discusse e approvò o respinse ben sei risoluzioni che avevano per oggetto la questione israelo-palestinese. Anche allora Israele e Stati Uniti si ritrovarono praticamente soli con una pattuglia di volenterosi arcipelaghi del Pacifico, che votano, ma hanno una caratteristica che andrebbe ricordata: le Isole Marshall, la Micronesia e Palau sono microstati che dal 1947 al 1986 facevano parte del Trust Territory of the Pacific Islands (TTPI), cioè territori affidati dall’ONU in amministrazione fiduciaria agli Stati Uniti. Nauru invece, è un sasso di fosfati in mezzo al Pacifico, è stato anch’esso amministrato fino al 1966 per conto delle Nazioni Unite dall’Australia e ora è indipendente e poverissimo.

Gli altri Stati contrari alla risoluzione dello scorso novembre sono stati: il Canada, paese che ha una tradizionale politica di amicizia verso Israele[2] e che forse, in questa particolare circostanza, non voleva lasciare solo il vicino statunitense; Panama, per le ovvie ragioni, e la Repubblica Ceca, unico paese dell’Unione europea, e unico paese europeo in generale, che ha motivato la sua scelta con l’amicizia verso Israele, argomento che potevano usare molti astenuti e non pochi favorevoli. La scelta di Praga probabilmente è stata mossa da motivazioni che affondano nella storia di una piccola regione di Europa con una forte tradizione di indipendenza, anche intellettuale. Inoltre, il peso della Repubblica Ceca negli equilibri europei e internazionali è talmente ridotto che il suo voto può essere considerato come una mossa isolata.[3]

Vecchi amici di Israele, come l’Australia, si sono astenuti all’ultimo momento: il primo ministro laburista Julia Gillard ha dovuto infatti prendere atto dell’opposto orientamento del proprio partito.

Il testo

Il risultato del voto ha destato sensazione, ma minore attenzione è stata prestata al testo della risoluzione, che per settimane gli americani e altri hanno cercato di ammorbidire, soprattutto per impedire alla Palestina di agire in sede di Corte internazionale di giustizia.[4] Certo, il risultato finale è durissimo ed è questo che brucia in Israele, oltre che la conta dei voti.

La risoluzione cita, una dopo l’altra, una serie di documenti ONU (Consiglio di Sicurezza e Assemblea generale) dal 1947 in poi. Riafferma che secondo la Carta delle Nazioni Unite è inammissibile acquisire territori tramite l’uso della forza. Cita per ben sei volte la linea ante 1967, che diventa quindi un riferimento assoluto, e altre sei volte parla di occupazione e territori occupati, anzi di occupazione militare. I 138 paesi che hanno approvato il documento bocciano quindi la tesi di Israele che si tratta di territori disputati. Ricorrente è il riferimento a Gerusalemme Est come zona la cui annessione non è riconosciuta dalla comunità internazionale.[5] Il testo, molto articolato, ricorda anche che ben 132 stati membri delle Nazioni Unite hanno riconosciuto la Palestina, ma va sottolineato che da questa lista manca quasi tutta l’Europa, Unione e non, e ovviamente il Nord America.[6]


L’Europa

La spaccatura europea tra favorevoli e astenuti è, in realtà, molto sfaccettata, almeno tra i grandi paesi: la Germania ha mutato atteggiamento, passando dal voto pro Israele all’astensione non perché sia venuta meno la sua amicizia ma perché vuole vedere politiche concrete verso la pace e si oppone alla crescita degli insediamenti. Anche la Gran Bretagna si è astenuta, ma ha espresso forti critiche a Israele, specie per la crisi di Gaza appena conclusa.

Nel gruppo dell’Unione europea favorevole all’ingresso della Palestina ci sono paesi di spicco, come la Polonia (che pure da anni ha avviato una politica di amicizia verso Israele), la Danimarca e l’Olanda, paesi con tradizionali, ma a volte ridiscussi, legami con Israele. L’Italia, alla vigilia data o per l'astensione o per il voto contrario alla risoluzione, ha infine votato a favore, dopo rassicurazioni al governo israeliano che hanno comunque suscitato grande delusione.

La fila dei grandi paesi europei appare guidata dalla Francia di Hollande: dopo il suo annuncio pro Palestina, in un modo o nell’altro, gli altri grandi paesi hanno cambiato o ridefinito la decisione di voto. Come ha detto amaramente un anonimo alto funzionario di Israele alla vigilia del voto: «abbiamo perso l’Europa».

Un segnale vago e molto preoccupante era emerso circa due settimane prima, quando gli israeliani si erano sentiti dire che la Germania stava cambiando.[7] Si è avverata cioè, nel corso di sei anni, l’amara profezia dello stesso ministero degli Esteri di Israele, che nel 2004 aveva avvertito il governo, allora guidato da Sharon, che Israele stava diventando un paese paria. Un vero movimento tellurico, lo scivolamento di un gruppo di Stati europei verso una scelta pro palestinese, che inevitabilmente accomuna anche gli astenuti.

I delegati che hanno espresso i voti sono peraltro gli stessi che a fine settembre avevano ascoltato Netanyahu spiegare che l’Iran aveva quasi completato la bomba da usare contro Israele. Nella modulazione dei voti ha inoltre indubbiamente pesato non tanto la questione in sé, Palestina sì o Palestina no, ma una valutazione complessiva della politica di Israele. In tema di palestinesi, occupazione, insediamenti e così via, ma anche della sua politica estera, che evidentemente preoccupa.


Le motivazioni

Le ragioni che hanno portato 138 paesi a votare la risoluzione e 41 ad astenersi, passando in alcuni clamorosi casi dal no all’astensione, sono note e si possono generalmente riassumere con la ferma volontà di spingere Israele verso seri negoziati e appoggiare la Palestina di Abu Mazen nel difficile rapporto con Hamas. Ovviamente anche la crisi di Gaza di novembre ha avuto il suo peso, ma vanno anche sottolineati due fattori.

Uno è la bocciatura della politica di Israele che rimuove la questione palestinese e insiste sul pericolo iraniano. Pericolo ben noto a tutti gli stati membri, che però non basta a rinviare sine die una questione aperta dal 1948, che ha provocato diverse guerre di vario livello e che mina la stabilità della regione. Anche in funzione anti Iran, poiché l’ampio fronte sunnita che si oppone a Teheran non riesce a compiere passi avanti riguardo alla Palestina. Ma in Israele, sia a destra sia in quel che rimane della sinistra, si preferisce pensare alla gestione dell’occupazione piuttosto che alla sua cessazione.

L’altro fattore, che ha caratterizzato i giorni immediatamente precedenti la sessione dell’Assemblea generale, riguarda la situazione interna di Israele, che si avvia verso le elezioni che avranno luogo il 23 gennaio. Netanyahu ha un governo di destra ed estrema destra, con il frammento dei laburisti intorno al ministro della Difesa Ehud Barak.

Ha quindi influito molto la notizia che Likud e Israel Beyteinu, il partito guidato dal ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, hanno deciso di presentare liste comuni. A poche ore dalla sessione ONU, tutti i governi interessati sapevano che Netanyahu si avvia a rivincere le elezioni, come prevedono vari sondaggi, e con un fianco destro rafforzato, mentre i partiti di centro o di sinistra hanno grosse difficoltà, sia in termini di definizione di programmi e leadership sia di prospettive elettorali. Quindi la decisione sul come votare all’ONU è stata presa anche in considerazione della quasi certa eventualità che Netanyahu vincerà le elezioni e che probabilmente formerà un governo spostato ancora più a destra. Bisognava in qualche modo fare arrivare non solo al primo ministro ma anche all’elettore israeliano il messaggio che occorre cambiare politica, che l’occupazione è illegale, che la crescita degli insediamenti va fermata, che urge negoziare sul serio, perlomeno con Abu Mazen.


La reazione

La risposta di Israele è stata durissima, anzi punitiva. Nel giro di pochi giorni ha annunciato di non riconoscere la risoluzione ONU, di non voler trasferire all’Autorità palestinese somme percepite come tasse, e soprattutto di aver intenzione di costruire tremila nuove unità abitative nel delicatissimo settore E1, a est di Gerusalemme. Nel cerchio di insediamenti che a oriente separa la città da quel che dovrebbe diventare lo Stato di Palestina, con un minimo di continuità territoriale tra Palestina e con parte di Gerusalemme Est come capitale, il settore E1 è letteralmente l’ultimo tassello che chiuderebbe la città dentro quartieri interamente ebraici, separandola dal West Bank.

Quest’ultima decisione è stata subito vista come uno schiaffo alla presidenza Obama, che pure aveva votato a sostegno di Israele, e ha suscitato durissime reazioni di diversi Sati dell’UE. Francia, Germania, Gran Bretagna, Olanda, Svezia e Danimarca hanno riaffermato la loro netta opposizione alla politica degli insediamenti e preannunciato iniziative. Questo induce a vedere in luce positiva, e non negativa, quel che è stata ritenuta come una spaccatura dell’Unione, tra paesi pro Palestina e paesi astenuti. La Francia aveva appena votato sì, gli altri si erano astenuti, quindi non è stata una vera spaccatura ma una diversa modulazione di una linea comune (sempre con l’eccezione di Praga) e questo dovrebbe costringere Israele, se lo comprenderà, a qualche sforzo per evitare che anche “astenuti” come Germania e Gran Bretagna possano passare nel campo di chi vota contro Israele nelle varie sedi internazionali. Secondo gli israeliani, gli europei hanno concordato la loro protesta con gli americani, il che sembra improbabile, con l’eccezione forse di Londra, ma è un preciso segnale di un clima avvelenato.


Le altre risoluzioni

Nei giorni immediatamente successivi, sempre in sede di Assemblea generale, sono state votate altre risoluzioni. Un gruppo di sei, del 30 novembre, riguarda vari aspetti della questione israelo-palestinese e in particolare Gerusalemme. Quest’ultima risoluzione condanna l’annessione di fatto di Gerusalemme Est e lo schieramento dei fedelissimi di Israele pronti a respingerla si è ridotto visibilmente, senza Panama e la Repubblica Ceca. Infatti, il documento è passato con ben 162 voti (compresa la Repubblica Ceca), 7 contro (Stati Uniti, Canada, Israele e pezzetti di Pacifico), 6 astenuti (tra cui Panama) e 18 assenti, quasi tutti africani.

Infine, il 3 dicembre, l’Assemblea ha votato una lunga lista di risoluzioni sulle armi nucleari, comprese varie limitazioni e l’adesione al Trattato di non-proliferazione, che Israele non ha mai firmato. Non ha mai neanche ammesso di avere armi nucleari, solo nel 2006 l’allora primo ministro Olmert se lo fece sfuggire in un’intervista a un’emittente televisiva tedesca.

Una politica di ambiguità nucleare che, a volte, mostra strappi. Come ora in sede ONU, dove Israele si è vista chiedere, con una valanga di 174 voti, di firmare il Trattato. Contro hanno votato solo in 6 (Israele, USA, Canada, Isole Marshall, Micronesia e Palau) e 6 si sono astenuti (Australia, Camerun, Costa d’Avorio, Etiopia, India, Panama).

Inoltre, due paragrafi della risoluzione sono stati sottoposti a votazione separata, quello sull’adesione universale al Trattato di non-proliferazione e quello sui controlli dell’AIEA. A questo punto gli unici due voti contrari sono stati di Israele e India, con Butan e Pakistan astenuti, a fronte della quasi unanimità di 180 voti. Molto interessante anche la risoluzione sulle armi a uranio impoverito, che ha visto quattro contro tutti: Francia, Gran Bretagna, Israele e Stati Uniti.

La 67a sessione dell’Assemblea generale è stata quindi una cartina di tornasole dei vari aspetti della politica di Israele e di come la comunità internazionale li considera. Ci sono temi su cui Israele è isolato, a parte gli Stati Uniti e forse il Canada, e altri in cui è davvero solo. Su certi aspetti, l’Europa è molto più importante del Nord America, in quanto è il maggior partner commerciale di Israele, grazie a una fitta rete di accordi. Gli europei, quindi, possono fare molte cose, e nel tempo le faranno. Angela Merkel, che pochi giorni fa ha incontrato a Berlino Netanyahu per un franco colloquio,[8] avrà accennato alle prospettive. L’Europa, a causa dei suoi meccanismi, non è veloce, e l’eventuale resistenza di Praga può ritardare o mascherare decisioni comuni, ma il trend è definito e, proprio perché lenta, l’UE è anche a modo suo inesorabile.


Gli Stati Uniti

Ma per Israele quel che conta è soprattutto l’atteggiamento degli Stati Uniti, e su questo punto Netanyahu, che auspicava una vittoria di Romney alle presidenziali, compie – da tempo – un doppio errore di valutazione.

Molte volte, troppe secondo alcuni, gli Stati Uniti hanno assicurato pieno sostegno a Israele, sia pure nel quadro di una ricerca di pace e stabilità. Ma l’appoggio americano, nella sua unicità, è desolante. Avere un unico e potente amico, con un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza, non è rassicurante e si risolve in un rapporto di dipendenza, più o meno mascherata. L’unica superpotenza ancora in circolazione ha letteralmente vietato a Israele un attacco all’Iran, invia consistenti aiuti e ha mille modi di modulare il suo dispiacere: gli aiuti, lo scambio di intelligence, il ricorso a crediti, visite e corsi di aggiornamento ecc. [9] Figuriamoci poi se il presidente è un Obama al suo secondo mandato, mentre le voci di contrasti si moltiplicano, vengono deliberatamente fatte filtrare.[10]

La presidenza Obama ha alcune caratteristiche che vanno sottolineate. A torto o a ragione, è opinione consolidata che Obama e Netanyahu si trovino antipatici, da sempre. Ma questa presidenza è blindata sul lato ebraico, di tutto può essere accusata ma non di non capire la storia, la politica, la logica di Israele. A Obama non si può attribuire un grammo di antisionismo né, men che meno, di antisemitismo. Il presidente ha praticamente avuto sempre un capo di gabinetto ebreo[11] e vanta uno stuolo di collaboratori e consiglieri ebrei di altissimo livello. Di Clinton, si disse che era il presidente più nero che gli Stati Uniti avessero mai avuto. Di Obama, che celebra la Pasqua ebraica e altre feste da prima della sua elezione, si può dire che è il primo presidente ebreo alla Casa Bianca. Tatticismi e manovre di Israele che avevano un senso con altri presidenti, qui sono completamente sprecati.

E questo conduce al nocciolo della sottovalutazione: il rapporto tra Israele Stato e la diaspora, e in particolare la grande comunità americana. Che da sempre, in mille modi, ha dimostrato sostegno, affetto, solidarietà, quasi sempre acritica, verso la terra di Israele divenuta di nuovo Stato dopo un’attesa millenaria. Ma gli ebrei americani sono americani, punto. Pensare che possano adoperarsi in politiche filoisraeliane che siano in contrasto con gli interessi degli Stati Uniti è un errore colossale. Per decenni gli ebrei americani, sionisti e non, hanno cercato in ogni modo di trovare punti di incontro tra politiche, interessi, contrasti, di individuare il minimo comune denominatore utile agli Stati Uniti, per primi, e a Israele, per ricaduta. Lo hanno fatto con passione e qualche volta con grande ansia. Ma quando sono stati sollecitati a scegliere tra Stati Uniti e Israele, com’è in qualche modo accaduto nelle due ultime elezioni presidenziali, hanno scelto il proprio paese, le questioni politiche interne, le priorità di chi vuole un’America di colore democratico e non repubblicano. I dati sono certi: circa il 70% degli ebrei americani ha rivotato Obama nonostante le sollecitazioni che arrivavano da Israele. E chi ha votato repubblicano lo ha fatto per ragioni personali o anche, nel caso degli ultraortodossi, per motivi che non sono esattamente in sintonia con i governi di Israele, siano essi di destra o di sinistra.

La Casa Bianca ha inoltre un’opzione di cui filtrano notizie da tempo e di cui ora si parla apertamente: il benign neglect. Sostenere Israele, in sede ONU e con aiuti alla difesa, ma lasciare che sia l’isolamento internazionale, soprattutto dell’Europa, a persuadere i governi israeliani a cambiare politica, soprattutto sulla questione degli insediamenti, e tornare a un tavolo di trattative vere. Si tratta di una strategia lenta che ha vari pregi, ma che potrebbe rafforzare proprio quella destra isolazionista che vede il mondo come un nemico. Le conseguenze, sul piano interno oltre che internazionale, potrebbero essere un boomerang. Ma va anche ricordato che, in assenza di concrete prospettive e di partner volenterosi, Obama non ha alcun interesse, visto il poco tempo del secondo mandato a disposizione, a compiere sforzi diplomatici che corrono quasi certamente il rischio di essere inutili.


Israele non vede alternative

Ma Israele, sotto shock per la risoluzione ONU (che peraltro era attesa, anzi scontata se non altro per la lista esatta dei votanti), sa reagire solo promettendo, come ha appena fatto, altre iniziative per dimostrare ai palestinesi che hanno commesso un errore con la richiesta unilaterale di ammissione all’ONU e che devono essere puniti per questo. Gli accordi di Oslo sono stati violati e ignorati, molte volte anche da Israele, e con decisioni unilaterali, ma è appunto questo termine, “punizione”, che lascia perplessi. Perché una decisione unilaterale palestinese, poi condivisa da 138 paesi, che la sanciscono con uno status che dà accesso a varie organizzazioni internazionali, non è esattamente un gesto solitario, e punire i palestinesi di Abu Mazen, che da tempo garantisce la tranquillità del West Bank, è controproducente.

È vero che il governo Netanyahu sta per affrontare le elezioni e che le prepara curando il versante di destra, ma è anche ragionevole prevedere che il prossimo governo sarà simile, o forse ancora più duro, visto che dopo l’accordo elettorale con Lieberman, il primo ministro israeliano ha estromesso dalle sue liste i pochi moderati ancora presenti e inserito esponenti del movimento dei coloni, tra cui Moshe Feiglin.

Tutte mosse che i 138 paesi a favore, i 41 astenuti e anche Washington, valutano negativamente. Perché alla fine quel che preoccupa il governo di Israele è questo: che il fronte è unico, che il veto americano in sede di Consiglio di Sicurezza non è più così niente scontato o può essere affiancato da altre misure, e che il mondo è cambiato.

In un discorso all’Università Bar-Ilan di tre anni fa, Netanyahu disse di accettare il concetto di due Stati, ciononostante non ha compiuto passi in questa direzione, anche perché un governo Likud che prepari un ritiro dei coloni, anche limitato, è quasi una contraddizione in termini. Ha detto più volte che Israele vuole un negoziato senza precondizioni, il che è un modo per rifiutare il piano palestinese e della Lega araba per un negoziato che parta dalle posizioni ante 1967 – la stessa cosa che ha detto l’Assemblea generale. Ma poi ha posto, e più volte, una sua precisa precondizione: che i palestinesi accettino il principio che Israele è uno Stato ebraico. Condizione posta all’Autorità palestinese di Abu Mazen, firmataria degli accordi di Oslo del 1993, non certo ad Hamas che non ha firmato nulla e che semmai potrebbe porre la pari condizione che Israele accetti, entro le linee ante 1967, uno Stato musulmano. Non arabo, proprio musulmano. Israele, che ha una minoranza di arabi palestinesi del 20% circa, non vuole essere riconosciuto come Stato israeliano, come è, ma come Stato ebraico, cosa che lascerebbe perplessi anche molti cittadini ebrei laici, che temono la confusione tra concetti religiosi, etnici, politici.

Al momento, tutto è congelato in attesa delle prossime elezioni israeliane e anche di una scelta da parte di Hamas, che ritiene di aver vinto il confronto con Israele dell’ultima guerra di Gaza, e che ha celebrato il proprio venticinquennale con la prima visita a Gaza del suo capo, Khalid Meshaal, tra folle entusiaste. Quello stesso Meshaal che, fuggito da Damasco, aveva annunziato a gennaio il suo ritiro dalla politica e che ora si propone come leader di tutti i palestinesi.

Abu Mazen è tornato da New York vittorioso, ma la sua presidenza è scaduta da quattro anni, non intende ripresentarsi a elezioni – peraltro perennemente rimandate – e non è chiaro chi tra gli uomini di Fatah possa ambire a prenderne in posto e porsi in concorrenza o cooperazione con Hamas. Certamente, i palestinesi hanno bisogno di unità per trattare con Israele, ma è anche vero che Hamas non ha mai negoziato[12] con Israele e una sua inclusione in eventuali trattative complicherebbe molto la situazione.

Gli anni persi non sono recuperabili e i prossimi vedono tutti i soggetti coinvolti, compresi gli Stati Uniti e gli europei, con priorità, interessi e visioni diverse. Tutto fa temere che si perda altro tempo in crisi irreversibili. Ma la parola, al momento, passa agli elettori di Israele: che scelgano dove andare.



[1] Quasi sempre governi guidati dal Likud, salvo il governo Olmert (Kadima), dal maggio 2006 al marzo 2009, di cui però faceva anche parte il partito Israel Beytenu, guidato da Avigdor Lieberman. Kadima intendeva essere un partito di centro, formato dalla parte moderata del Likud e da una parte dei laburisti.

[2] Amicizia che ebbe un momento di crisi quando il Canada, con il governo conservatore guidato da Harper (2006-oggi) richiamò in patria “per consultazioni” il proprio ambasciatore in Israele. Si era infatti scoperto che l’assassinio di un capo militare di Hamas, Mahmoud Al-Mabhouh, a Dubai il 19 gennaio 2010, era stato compiuto da un gruppo di agenti del Mossad che avevano usato vari passaporti occidentali (Canada, Australia, Nuova Zelanda, Irlanda). Il governo canadese fece tornare l’ambasciatore in Israele solo in cambio della precisa promessa che l’incidente non si sarebbe mai più ripetuto.

[3] Il voto di Praga può essere invece determinante in sede UE, per evitare che si prendano decisioni contro Israele.

[4] E. Bronner, U.N. Will Vote on Status for Palestinians, Defying U.S., in “The New York Times”, 29 novembre 2012.

[5] La legge su Gerusalemme, approvata dalla Knesset nel luglio 1980 (governo Begin), non parla di annessione, ma di Gerusalemme capitale unica e indivisibile e di giurisdizione israeliana. Questo non vanifica l’annessione di fatto ma certo non lo è di diritto, infatti gli abitanti arabi di Gerusalemme Est sono ancora teoricamente cittadini giordani e votano solo alle elezioni municipali.

[6] Va sottolineato che praticamente tutti i paesi del mondo hanno rapporti con l’Autorità palestinese. Il riconoscimento dei 132 paesi prescinde ovviamente da questioni come la definizione dei confini. Questo fatto ha un precedente interessante: a poche ore dalla proclamazione dello Stato di Israele, gli Stati Uniti lo riconobbero de facto e l’Unione Sovietica addirittura de jure il 18 maggio, nonostante l'assoluta mancanza di qualunque linea, nemmeno riguardo al cessate il fuoco.

[7] Ne parla, in termini vaghi, un breve articolo di I. Eichner, Israel's Special Relations with Germany Won't Last Forever. L’articolo riporta indiscrezioni: un funzionario tedesco avrebbe avuto un incontro con funzionari israeliani e li avrebbe avvertiti che la Germania stava per mutare atteggiamento verso Israele perché l’opinione pubblica così voleva. L’aspetto curioso, e forse voluto ad arte da chi parlava o da chi riferiva, è che secondo il funzionario tedesco tale cambiamento avrebbe avuto luogo entro venti anni. Sono bastate due settimane.

[9] Sull'esistenza di una “lobby americana” in Israele, tra gli alti gradi delle forze armate e dei servizi segreti, si veda M. G. Enardu, La lobby americana in Israele

[10] Sulle aspre critiche a Israele di Rahm Emanuel, sindaco di Chicago ed ex capo di gabinetto alla Casa Bianca, si veda: H. Keinon, Analysis: Rahm Emanuel and Electoral Interference. Emanuel parlava al Saban Forum, dedicato quest’anno a “U.S.-Israeli Relations in a Changing Environment”, con la partecipazione tra gli altri di Hillary Clinton, Tzipi Livni, Ehud Olmert. Sulla tensione tra i due governi si è scritto molto, ad esempio: B. Burston, Netanyahu Finally Has His Ground War: Not Hamas, But Obama.

[11] Rahm Emanuel, di genitori israeliani, dal gennaio 2009 al settembre 2010, e Jacob Lew, dal gennaio 2012 a oggi.

[12] Solo trattative segrete, su tregue temporanee, e ovviamente la liberazione di Gilad Shalit.

 

 


UN Photo/Mark Garten