La Tunisia alla prova della politica

Di Lapo Pistelli Giovedì 10 Novembre 2011 19:03 Stampa
La Tunisia alla prova della politica Foto: European Parliament

Il voto per eleggere i membri dell’Assemblea costituente tunisina si è svolto, secondo tutti gli osservatori internazionali, nel pieno rispetto delle regole democratiche. La Tunisia, dunque, ha  finora dato un segnale positivo, anche se rimane da vedere come riuscirà a coniugare la tradizione islamica e l’indispensabile modernizzazione del paese.


Sono trascorse due settimane dal voto per l’Assemblea costituente della nuova Tunisia, un tempo utile per tirare alcune provvisorie indicazioni nell’attesa che, da qui a un mese, anche il Marocco e l’Egitto si rechino alle urne.

Tutti gli osservatori internazionali, di qualsiasi istituzione fossero rappresentanti e indifferentemente dalla durata della missione di osservazione, hanno espresso valutazioni lusinghiere sulla capacità di organizzare e condurre sia la campagna elettorale che il processo di voto e di scrutinio da parte delle autorità. Si tratta di una prima scommessa vinta dalla neonata democrazia che ha aperto senza esitazioni le proprie porte, a differenza del fratello maggior egiziano che si ostina a negare ogni possibilità di monitoraggio e verifica a paesi e organizzazioni terze.

Nonostante un’offerta politica terribilmente frammentata fra vecchi e nuovi partiti e liste indipendenti – oltre centodieci le liste in competizione – i tunisini si sono coagulati attorno a non più di dieci soggetti politici, alcuni tradizionali, altri nuovi, dando una ulteriore prova di maturità politica.

Nel complesso, le forze politiche di dichiarata ispirazione islamista e quelle che, appartenenza religiosa dei singoli a parte, hanno privilegiato un approccio laico al confronto politico sono in una posizione di equilibrio sostanziale, il fronte islamista concentrato essenzialmente sul partito di Rashid Ghannouchi – Ennhada – che ha conquistato il 40% dei voti e il 45% dei seggi, il fronte laico articolato invece su una gamma più ampia di partiti e movimenti.

Chi ha vinto le elezioni ha avuto buona cura di non dare mai il messaggio di chi sente di avere stravinto.  Chi ha ottenuto un risultato inferiore alle aspettative ha prontamente riconosciuto il risultato delle urne e ha avviato subito percorsi di verifica politica interna, annunciando congressi o ricambi di leadership. La ricaduta istituzionale di un tale bon ton politico si tradurrà a breve in un accordo in base al quale Ennhada rivendica la guida del governo provvisorio cedendo alle seconde due forze politiche la presidenza della Repubblica provvisoria e la presidenza dell’Assemblea costituente. Il gioco politico pieno si dispiegherà ovviamente con il prossimo passaggio elettorale, a valle dell’approvazione di una nuova Carta costituzionale.

Davanti alla tentazione, legittima ma sbagliata, da parte di chi ha perso le elezioni di lasciare tutta intera la responsabilità politica nelle mani del primo partito, per poter poi lucrare un vantaggio eventuale nelle prevedibili difficoltà di gestione del paese nei primi due anni della sua nuova vita, non abbiamo avuto dubbi – negli incontri tenuti con tutti i leader delle forze politiche rappresentate in Assemblea due giorni dopo il voto – a ricordare le buone lezioni della nostra storia nazionale, capace di distinguere nel secondo dopoguerra fra la comune scrittura delle regole costituzionali e la durezza dello scontro politico in un tempo di guerra fredda incombente. Tanto più che il confronto interno al partito di maggioranza relativa – che vede la presenza di una componente di impronta salafita, più sorda al dialogo e alle istanze di una società aperta – verrebbe assai avvantaggiato da un gioco di sponda con le forze laiche.

La Tunisia manda dunque un segnale positivo a quanti hanno espresso, in pubblico o in privato, una preoccupazione sulla composizione possibile fra Islam e democrazia. Senza necessariamente evocare il modello turco, la maggioranza dei tunisini si è riconosciuta in una proposta politica che ci ha ricordato come la Primavera araba fosse inesorabilmente anche una “Primavera islamica”. La parola e la penna passano oggi a coloro che dovranno tradurre questa rinnovata appartenenza culturale, religiosa, nazionale in norme costituzionali capaci di accogliere tutte le diversità della società tunisina.

Il voto ci consegna anche una lezione che è stata probabilmente fin qui trascurata. Nel ritorno ad una tradizione islamica – segnalata già in Egitto, diversi anni fa, tramite i comportamenti della buona borghesia cairota –  vi è il rifiuto della storia recente che ha visto gli autocrati oggi deposti (Ben Alì e Mubarak) farsi scudo della parola d’ordine della “modernizzazione” per instaurare pratiche familistiche e corrotte. Se l’Islam può riconciliarsi più rapidamente del previsto con la democrazia, ora c’è da interrogarsi su come riconciliarlo con una modernizzazione tuttora indispensabile in quei paesi.

Un’ultima nota. È sembrata una stonatura la notizia degli scontri dopo il voto a Sidi Bouzid, il villaggio da cui la Primavera araba è partita e che ha reagito duramente alla cancellazione dei voti di una lista di un imprenditore televisivo che trasmetteva da Londra e che, nativo di quelle parti, avrebbe reclutato membri del disciolto RCD per una campagna elettorale “in contumacia”. La coerenza della narrazione “romantica” avrebbe richiesto che proprio lì, a Sidi Bouzid, in omaggio al giovane contestatore suicida, la democrazia doveva essere salutata con gioia, eppure – nonostante le coincidenze geografiche – la neonata democrazia si è trovata d’accordo, islamici e laici, nel non consentire che la partita politica iniziasse, proprio lì, a carte truccate.

 

 


Foto: European Parliament