Il ritorno della politica di potenza nel Mediterraneo. L’Italia stretta tra Francia e Turchia

Di Giuliano Francesco Lunedì 10 Ottobre 2011 15:01 Stampa
 Il ritorno della politica di potenza nel Mediterraneo. L’Italia stretta tra Francia e Turchia Foto: Number 10

La primavera araba, il relativo ritiro americano dal Mediterraneo, le rinnovate ambizioni francesi e il risveglio turco stanno inevitabilmente cambiando gli equilibri di potere nel Mediterraneo. L’Italia sarà costretta a giocare in difesa.


Non è soltanto l’onda lunga della primavera araba ad agitare le acque del Mediterraneo. Alla spinta nella direzione del cambiamento che è affiorata sulla “sponda sud” si sono infatti sovrapposti gli effetti del cambio di paradigma strategico attuato dall’Amministrazione Obama nella direzione del cosiddetto smart power.

L’America ha deciso sostanzialmente di risparmiare le risorse materiali e morali di cui dispone, per perseguire i propri interessi nazionali in modo differente e più indiretto, selezionando rigorosamente gli impegni militari e cercando di trasferire sugli alleati e un certo numero di paesi competitori o rivali l’onere di mantenere la stabilità internazionale. In realtà, il presidente statunitense aveva già enunciato questi orientamenti sin dal suo primo intervento presso l’Assemblea generale delle Nazioni Unite due anni fa, ma la svolta è diventata evidente soltanto negli ultimi dieci mesi, con la pubblicazione del calendario del ritiro americano dall’Afghanistan e il profilo insolitamente basso tenuto nel conflitto libico.

Dove possibile, Washington rimetterà la stabilizzazione al gioco del balance of power. Negli altri casi, accetterà un’instabilità che è ora ritenuta più svantaggiosa per i probabili challengers globali degli Stati Uniti che non per l’America.

Il Mediterraneo è precisamente uno degli scacchieri in cui il ripiegamento statunitense ha già iniziato a prendere forma, determinando un vuoto di potenza che le nazioni di maggiori ambizioni stanno adesso cercando di riempire. Per l’Italia, questa circostanza rappresenta una sicura fonte di serie difficoltà, giacché nel calcolo geopolitico del nostro paese la carta americana è stata negli ultimi decenni uno strumento di decisiva importanza per contenere le aspirazioni regionali di Francia e Gran Bretagna. Si è del resto cercato di giocare questa carta anche nelle convulse giornate del marzo scorso, quando si è invocata l’attribuzione alla NATO del compito di guidare la guerra a Gheddafi proprio nell’intento di sottrarre la leadership delle operazioni a Londra e Parigi, che ne avevano promosso l’avvio.

È però andata maluccio, perché all’ingresso dell’Alleanza sulla scena non ha fatto seguito un accrescimento del coinvolgimento statunitense nel conflitto, ma il suo ulteriore affievolimento.

Il risultato è che mentre il futuro della Libia permane tuttora incerto, appare invece ormai sicura la crescita del prestigio e dell’influenza francesi nel Mediterraneo occidentale. Parigi ha acquisito un saldo ancoraggio a Tripoli, sta investendo nel Marocco e si prepara a sfruttare l’eventuale propagazione all’Algeria dello scontento che ha travolto Ben Ali, Mubarak e Gheddafi. È bene comprendere la portata rivoluzionaria di questo mutamento, che vede in questa fase Parigi elevare il proprio status in perfetto accordo con la Casa Bianca, anziché in contrapposizione con gli interessi americani.

Novità grosse si sono peraltro prodotte anche nella parte orientale del bacino, dove all’indebolimento della presenza statunitense si è sovrapposto il risveglio dei turchi. Questi ultimi hanno visto nel ridimensionamento del ruolo giocato da Washington e Mosca nel Mediterraneo un’opportunità storica per ricostituire una propria sfera d’influenza esclusiva nella zona d’insistenza del vecchio impero ottomano, base territoriale indispensabile per affermare la Turchia come potenza di rango mondiale. Di qui le mosse che hanno contraddistinto le più recenti iniziative di Ankara sulla scena internazionale, a partire dalla rottura dell’asse militare stretto con Israele, divenuto un’intollerabile passività nell’ambito di questo complesso disegno.

In questo senso, sembra ormai stucchevole chiedersi chi abbia perso la Turchia. In realtà, infatti, i turchi pensano più semplicemente di aver ritrovato se stessi e la propria vocazione imperiale.

In questi presupposti risiede anche la spiegazione di alcune loro scelte che parrebbero altrimenti contraddittorie. Le nuove ambizioni mediterranee della Turchia non negano infatti né l’aspirazione ad entrare nell’Unione europea né la volontà di Ankara di rimanere ancorata all’Alleanza atlantica. Ma danno loro una valenza diversa: l’Europa serve per non farsi separare dai Balcani, parte essenziale dell’estero vicino turco, mentre la NATO permette alla Turchia di differire alcuni costosi investimenti che s’imporrebbero altrimenti per fronteggiare la superiorità militare israeliana e la potenziale minaccia del nucleare iraniano. Si pensi a questo proposito alla disponibilità turca ad accogliere parte delle difese antimissilistiche alleate.

I piani di Parigi e di Ankara presentano naturalmente alcune zone di sovrapposizione, come hanno evidenziato, da un lato, il recente viaggio del premier Recep Tayyp Erdogan al Cairo, Bengasi e Tunisi e, dall’altro, il tentativo di Nicolas Sarkozy di inserirsi nel panorama mediorientale con la propria proposta di riconoscimento alla Palestina dello status di Stato osservatore presso le Nazioni Unite.

In questo scenario, i margini a disposizione dell’Italia si sono sensibilmente ridotti. Il nostro paese è stretto in una pericolosa tenaglia, in balìa di Francia e Turchia, privo del tradizionale riferimento americano e con pochissimo leverage nel mondo arabo.

In assenza di risorse e di una nuova visione strategica, ciò implica una sola conclusione: per un tempo di durata al momento imprevedibile, il nostro paese sarà costretto a navigare a vista, condannato ad una postura reattiva rispetto ad eventi che non potrà in alcuna maniera sperare di controllare o indirizzare verso risultati in qualche modo funzionali ai propri interessi.

 

 


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