Non ricordo in che anno, né su quale giornale lessi la recensione. Era uno spettacolo francese che si svolgeva invece che in un teatro in un vecchio liceo. Nell’atrio, dov’erano riuniti gli spettatori, arrivava una custode arcigna in grembiule nero che li metteva in fila per due. Inquieti e disorientati obbedivano e la seguivano, in ordine, lungo il corridoio male illuminato fino a un’aula dove venivano invitati a disporsi nei banchi.
Lì, nella luce stenta delle scuole di sera cominciava, anzi continuava, lo spettacolo, vale a dire entrava il preside che faceva una lunga tirata vagellante, poi a turno i professori... Su quello che dicevano i professori finisce il ricordo della recensione, ma il senso dello spettacolo doveva essere proprio l’atmosfera tra il sogno e l’incubo.
«Oh, qui... ci si va!» esclamai battendo il dito sull’articolo davanti a quel grande estintore di entusiasmi che è mio marito. «Ci vado io» mi corressi subito con viva approvazione del cane, a cui intanto mostravo il guinzaglio per portarlo ad alzare la gamba lungo il muro del giardino delle monache. Fu là, fra i manifesti da cui è sempre coperto, che colsi la sagoma nera della bidella sfuggitami i giorni precedenti e messa a fuoco ora dalla recensione. Dal piccolo manifesto si veniva a sapere che lo spettacolo, durato pochissimo, era all’ultimo giorno. Lo persi. Eppure è come se lo avessi visto, fuso com’è con sogni sulla scuola al limite dell’incubo che lo avevano preceduto e con quelli che via via l’hanno seguito.
Perché questi sogni se a scuola, pur sgranando le ore in attesa della campanella, i giorni in attesa del sabato, i mesi in attesa delle vacanze, ho vissuto i momenti più belli della prima giovinezza?
Perché se è là che ho stretto le amicizie della vita, quelle per cui si resta le stesse e si può ridere, a sceme, anche sotto la macina degli anni?
Perché se a scuola, pur continuando a sgranare le ore in attesa della campanella, i giorni in attesa del sabato, i mesi in attesa delle vacanze, ho passato il resto della vita a insegnare fruendo di una sbrigativa confidenza con gli alunni e di una complice intesa con i colleghi più affini?
Il perché, in fondo, lo so. È nella sensazione inconfessabile di avere studiato da avventuriera, dedicandomi ad alcune materie, arronzando le altre, scopiazzando, barando.
E quando in sogno, in un’aula un po’ scura come se fuori piovesse, aspetto di essere interrogata in storia con lo struggimento di chi è impreparato, non sono l’alunna, ma la professoressa.
Peggio ancora quando, china sul banco durante un compito in classe, allungo il gomito, l’occhio verso il compagno vicino e mi accorgo che io, professoressa, sto cercando di copiare da un alunno.
Che ci sia in queste notturne angosce scolastiche anche il ricordo della domanda, uno dei primi giorni della mia prima supplenza, a cui non seppi rispondere? Eppure tornavo da un lungo soggiorno in Svizzera dove il mio vecchio francese del ginnasio era diventato fluido, sicuro, tanto che avevo accettato con entusiasmo di insegnarlo. Poche ore in una scuola media, che mi avrebbero poi incastrato di anno in anno nella stessa graduatoria, impedendomi per sempre d’insegnare italiano.
Tant’è. Era una vecchia scuola di Orbetello, che avrebbe potuto illustrare la lettera S – S come scuola in un abbecedario – tanto era uguale a tutte le scuole di allora, a quelle di un tempo.
Un sabato mattina in un’aula all’ultimo piano smaltivo a fatica la quarta ora di lezione dando via via occhiate ladre, oltre le tegole cotte dei tetti, allo squarcio di laguna che la striscia del tombolo divideva come un tratto di penna dall’azzurro più intenso del mare nella luce chiara di un mezzogiorno d’ottobre.
Anche il ragazzo dell’ultimo banco doveva avere vagato là con lo sguardo, anticipando pomeridiane pedate a un pallone sulla spiaggia deserta, se a un tratto alzò la mano e «Come si dice tombolo in francese?» chiese con slancio.
«Tombolo?! Cosa c’entra ora il tombolo?!» berciai emergendo rapida dal buio in cui mi aveva gettato. «Dimmi piuttosto di cosa stiamo parlando!» lo sopraffeci, sentendomi in colpa. Mi confortò, a casa, il vocabolario, come se non lo sapesse bene nemmeno lui. Tombolo = monceau de sable. Monticello di sabbia quella striscia piatta che segue per chilometri il filo dell’orizzonte?
Il ragazzo non l’ho mai dimenticato; fra le migliaia di volti che ho avuto davanti in tanti anni di scuola il suo è rimasto lì intatto, pacifico anche se per sempre ignaro di come si dice tombolo in francese.
Riuscii perfino a estrarlo, il suo volto, dopo aver saputo il nome, da quello pienotto di un quarantenne calvo che a Roma, in un tram semivuoto, dopo essersi voltato più volte inspiegabilmente a guardarmi, si alzò, percorse all’indietro la lunga vettura scodinzolante, si fermò vicino a me e «Lei era la mia professoressa di francese... a Orbetello!».
«Tanti anni fa...» sorrisi lusingata di essere riconoscibile. «E tu?».
«Sono Battaglini».
Ecco come si chiamava quello del tombolo!
Ricordavo di lui espressione, lineamenti, ma non il nome.
Del resto è continuo questo gioco di nomi e di volti che si dissociano o si sovrappongono, ma comunque si distaccano da quelli che sono folla nella memoria.
È anche strano, pur avendo io a lungo insegnato in una cattedra per metà di scuola superiore, che essi appartengano soprattutto a ragazzi di scuola media.
Come dimenticare quel piccoletto, figlio di militare, che rispondeva sull’attenti battendo i tacchi e parlava con la lisca?
«Futuro di être» gli chiesi durante un’esercitazione sui verbi.
«Semplice o anteriore?» scattò come se dicesse «Signor sì».
«Semplice».
Prese fiato e «Jefutufuilfu...» partì sparato con un passato remoto senza u francese, che con l’aiuto della lisca era proprio l’imitazione di un treno.
E una volta, nell’eccitazione gioiosa dell’uscita, si staccò dalla fila, venne verso di me, batté i tacchi e «Signora professoressa è vero che venerdì è domenica?» chiese, le guance accese al pensiero dell’insperata vacanza infrasettimanale.
Anche lui ho incontrato e riconosciuto in un giovane, inappuntabile, scattante impiegato di banca che mi rivolse un «Buongiorno professoressa!» sparato liscoso come il «Jefutufuilfu...» che avevo nella memoria.
E che dire dello scompiglio portato in una prima classe dall’arrivo, ad anno scolastico cominciato, di un ragazzo più grande perché ripetente, bello, scatenato, impermeabile ad ogni nozione? Conti si chiamava e il suo nome divenne il più vocato, gridato, accusato.
Le bimbe ne erano pazze.
Un giorno entrai in classe e lo trovai che gesticolava urlando in una specie di mischia.
«Conti, è possibile?!» lamentai. «Ci sei sempre te in mezzo!».
«Non sono io, sono le femmine!» si difese. «Scrivono bigliettini, offendono!».
«Offendono? Ma cosa hanno scritto?».
Sventolò un foglietto e «Palle secche!» gridò sdegnato.
Nel clamore che seguì, un mingherlino del primo banco alzò la mano, si levò in piedi e «A me: senza palle» denunciò serio e si rimise a sedere.
Non ha nome il ragazzotto biondo dai grandi occhi di un celeste stinto che venne davanti alla cattedra e ci si appoggiò a braccia spalancate come in croce.
«Oggi non sono preparato» confessò con una contrizione troppo palese.
«Come mai? Sapevi che ti avrei interrogato...».
«Sono uscito con mamma per comprarmi i calzoni».
«E ti sembra un buon motivo? Potevi prepararti prima o al ritorno».
«Siamo stati fuori tutto il pomeriggio...».
«Tutto il pomeriggio per comprarti i calzoni?!» mi risentii all’idea della spensieratezza della madre.
Allungò il collo fino a poggiare il mento sul ripiano della cattedra e «Scampanàti!...» spiegò umile, implorante, ma con un indomito brillio di gioia nei chiari occhi celesti.
Era una classe nuova per me quella terza in cui dovetti passare diverse ore il primo giorno della mia entrata in ruolo. Non c’era un orario, non c’erano registri, solo un foglio con l’elenco dei nomi raspati a mano. Cominciai a leggerli a voce alta per vedere a chi corrispondevano. Ne storpiai un paio. Risero.
«Sono scritti male» mi giustificai. «Del resto non hanno un significato... potrebbero essere anche come li ho letti...».
Ma arrivata alla lettera C un attimo recalcitrai, guardai meglio, mi feci coraggio: «Cocùlo!» chiamai a voce alta, quasi con sfida.
La risata corale, clamorosa che seguì non accennava a finire. Un ragazzo grassoccio, smarrito, il viso chiazzato d’imbarazzo, si alzò. Mi fece pena. «Cosa c’è da ridere?!» gridai. «C’è un uccello che si chiama cucùlo, deriverà da lì... magari nel tempo la u è diventata o...». Mentre mi affannavo in questa etimologia estemporanea uno del primo banco, che mi aveva fatto buona impressione, ora paonazzo, semi-strozzato dal riso anche lui «Si chiama Còculo...» riuscì a dire salvandomi dal continuare.
Còculo, dal latino coculus, piccolo cuoco; ma questo mi venne in mente a casa.
L’abolizione dei voti fu per i ragazzi come se avessero tolto i goal dalle partite. Anche se presto fu chiaro che alcune parole per molti professori corrispondevano con precisione a un numero. «Più che mediocre» scrisse una collega su un compito. «Mediocrissimo?» chiesi volutamente candida. Mi guardò con compassione «Se mediocre è cinque, più che mediocre è cinque più».
Sebbene contraria, anzi contrarissima all’abolizione dei voti mi rifiutavo di risuscitarli così. In particolare l’aggettivo “mediocre” non è mai uscito dalla mia penna né su un compito né su una scheda di fine trimestre.
Ma certe madri, povere dolci madri dalle mani ruvide di donne a ore, non leggevano o non capivano quei frullati di parole che componevano i giudizi cosiddetti “analitici” e si contentavano di quello sintetico, ovvero dell’ultima parola, che corrispondeva a un voto.
Così quando io, invece di “mediocre” che consideravo insultante, scrivevo “Non è ancora sufficiente”, leggevano soltanto “sufficiente” e ce ne voleva poi per far loro capire che prima c’era il “non”.
Anche sui compiti in classe evitavo gli aggettivi che potevano corrispondere con precisione a un voto. Sottolineavo il tipo o la quantità degli errori, buttavo giù un “bene” o un “benino”, non tanto per adeguarmi al disegno deprecato del legislatore, quanto perché mi divertiva la processione degli alunni che, riconsegnando i compiti avuti in visione, chiedevano la traduzione in cifre del giudizio.
«Professore’ quant’è: “Diversi errori. Attenta ai verbi”?».
«Professore’ cos’è di più “Moltissimi errori” o “Completamente scorretto”?» chiese uno richiamato perché bisticciava, in proposito, col compagno.
E la volta che avevo restituito un questionario venne per ultima Jacovazzo, una bimba secchina, che camminava come se ballasse, sempre contenta di qualcosa, ignara di tutto. «Professore’» mi chiese fischiando per la macchinetta dei denti «quant’è: “Risposte senza senso”?». Io l’amavo, Jacovazzo, per quel suo lieto candore, per l’impossibilità di restar mortificata.
Il padre era parrucchiere, me lo mostrò, fiera, in una fotografia strizzato in una maglia nera a collo alto su cui risaltava una catena dal grosso ciondolo. «Questa è mia madre col suo complesso “I forzati”» spiegò mostrandomi quella di una ragazza in un gruppetto di giovinastri armati di strumenti.
Quando riportò a scuola la prima scheda trimestrale, una sorta di canto funebre in tutte le materie, «Beh... cos’hanno detto a casa?» le chiesi.
Alzò i gomiti, di lato, come per prendere il volo, poi allargò le braccia in un gesto di disperazione «Il mio papà ha detto che se non sono promossa... non mi dà più li bacetti!».
«E allora, Jacovazzo...?» la sollecitai con fare da prete aspettando un buon proponimento.
Giunse le mani e buttando in qua e in là la testa «Come faccio?!... Io non ci posso sta’ senza li bacetti!».
Un anno, non so più quale perché tutti li ripeté, capitò in classe con lei un ragazzo sfrenato, al limite della normalità, senza traccia della bellezza che dava fascino a Conti.
Ai suoi dispetti, alle sue piccole sopraffazioni si ribellavano tutti.
«Professore’ gli dice di smettere?!».
«Mangiacavallo!» obbedivo io, gridando come voce nel deserto.
E una volta, all’uscita, mentre la classe scendeva dal terzo piano a rilento perché altre classi s’inserivano dai piani sottostanti, Jacovazzo tallonò l’insegnante di musica che accompagnava la fila, la raggiunse, le si mise a fianco e «Io nella cartella ci ho quello che i ragazzi hanno davanti...» disse piano.
«Cosa dici, Jacovazzo?!!» s’irrigidì la professoressa continuando a scendere.
«Sì: quello che i ragazzi hanno davanti...» ripeté portandosi una mano al basso ventre, voltata all’insù come per sostenere qualcosa.
«Jacovazzo!» la fulminò l’insegnante, definitivamente illuminata dal gesto.
«L’ha fatto Mangiacavallo col Pongo e me l’ha messo nella cartella...» lamentò lei.
Misero piede insieme a terreno: l’insegnante restò a controllare gli alunni che sfilavano impaziente di venire a ridere con noi, mentre Jacovazzo col suo passo saltellante usciva nel sole sbattendosi la cartella nelle gambette magre.
Nessuno, né il padre con la catena al collo, né la madre, che a tempo perso cantava con “I forzati”, venne mai a scuola a parlare di lei.
Eppure erano gli anni dei decreti delegati, quella sorta di riunione di condominio che nelle scuole borghesi vide la calata di un esercito di signorette in stivali e visone a disputare di libri e di programmi.
Da noi nel consiglio c’erano solo uomini che trasformavano in sorde lotte politiche anche questioni d’igiene e di cessi.
Tre riunioni occorsero per i porta-sapone a pressione come quelli dei treni da applicare ai lavandini nei gabinetti.
Una in cui il rappresentante di sinistra li propose. Un’altra per prendere atto dell’avvenuta installazione. Una terza per riconoscere, testimone il bidello, che ne erano stati asportati dei pezzi e che ne usciva solo pipì.
Anche il doposcuola era motivo di appassionate riunioni. Per motivi diversi lo volevano tutti: i genitori per non occuparsi dei figli, i presidi per crearsi dei meriti, alcuni professori per completare l’orario, gli aspiranti animatori perché non avevano assolutamente altro da animare.
Ero in classe una mattina quando arrivò la custode con la circolare del doposcuola. Chi voleva seguirlo poteva iscriversi.
Una bimba, che ricordo solo grazie a quel momento, bassina, un po’ patita, dal piccolo viso di pane duro, alzò la mano. «Che, ce sta l’animatore?» chiese alla bidella. Quella sporse le labbra e si strinse nelle spalle. Non lo sapeva e soprattutto non gliene importava.
«Se c’era l’anno scorso...» intervenni incoraggiante «ci sarà anche quest’anno».
«No, perché se ce sta nun me ce segno!» dichiarò ferma lei, e si rimise a sedere sparendo dietro una compagna più alta.
Scuola mia! L’ho lasciata con due anni di anticipo perché non mi sembrava più dignitoso scaraventarmi fuori così presto, sprofondare nella metropolitana, uscirne scomposta tirando diritto davanti agli effluvi di cappuccino e cornetto emanati dai bar, l’odore di Roma al mattino, per arrivare in tempo a farmi largo fra gli alunni accalcati davanti al portone.
Sgarrare di un minuto significava, infatti, essere travolta nel loro avventarsi alle scale; una gara anche quella: «...a chi arriva prima in classe!» per poi mettersi quasi subito a bramare la ricreazione e la campanella dell’uscita.
Come me, proprio come me.
Eppure, dacché me ne sto a casa, la mattina prima delle otto mi trovo davanti alla porta pronta per uscire, anche se a quell’ora non ho proprio dove andare.