Il rilancio della competitività dell'industria italiana

Written by Stefano Chiarlone Tuesday, 01 November 2005 02:00 Print

Un’analisi delle prospettive del capitalismo italiano non può trascurare l’industria, nella quale l’Italia mantiene una rilevante quota di occupazione e prodotto interno lordo. Le sue recenti difficoltà riflettono, in parte, lo scarso adattamento di taluni sistemi produttivi e territori a un diverso schema di vantaggi comparati mondiali e a una maggiore frammentazione internazionale delle filiere. Per superarle, occorre che la politica economica si dedichi ad accelerare la transizione delle imprese verso una collocazione internazionale maggiormente coerente con la dotazione fattoriale relativa dell’Italia. A questo fine, si impongono nuove modalità per l’internazionalizzazione delle imprese – che ne garantiscano una maggiore competitività internazionale – e occorre che si attivino investimenti finalizzati a rendere disponibile sul territorio un rinnovato insieme di fattori produttivi (materiali e immateriali, umani e non), funzionali alla localizzazione di imprese capaci di creare valore, tramite il loro utilizzo.

 

Un’analisi delle prospettive del capitalismo italiano non può trascurare l’industria, nella quale l’Italia mantiene una rilevante quota di occupazione e prodotto interno lordo. Le sue recenti difficoltà riflettono, in parte, lo scarso adattamento di taluni sistemi produttivi e territori a un diverso schema di vantaggi comparati mondiali e a una maggiore frammentazione internazionale delle filiere. Per superarle, occorre che la politica economica si dedichi ad accelerare la transizione delle imprese verso una collocazione internazionale maggiormente coerente con la dotazione fattoriale relativa dell’Italia. A questo fine, si impongono nuove modalità per l’internazionalizzazione delle imprese – che ne garantiscano una maggiore competitività internazionale – e occorre che si attivino investimenti finalizzati a rendere disponibile sul territorio un rinnovato insieme di fattori produttivi (materiali e immateriali, umani e non), funzionali alla localizzazione di imprese capaci di creare valore, tramite il loro utilizzo.

Dalla maggioranza delle analisi emerge l’idea che le difficoltà delle esportazioni e i limitati investimenti all’estero delle nostre imprese, derivano soprattutto dalla prevalenza di piccole imprese con commistione di proprietà e controllo e specializzazione in settori tradizionali. La prima caratteristica renderebbe improbabile la crescita delle imprese. La seconda, invece, le metterebbe in diretta concorrenza con produttori localizzati nei paesi emergenti. Il loro agire combinato trasformerebbe, infine, da volano a freno un modello di impresa – piccola e integrata informalmente nei sistemi territoriali – che ha garantito il miracolo economico italiano. La ricetta suggerita per superare questa difficoltà è quella di far crescere le piccole (e medie) imprese e favorire un maggior investimento in ricerca e sviluppo, finalizzato allo spostamento verso produzioni di maggiore qualità e contenuto tecnologico. Sono prescrizioni condivise e condivisibili. Tuttavia, trascurando le implicazioni del nuovo scenario globale, rischiano di essere inefficaci.

Quello attuale è il secondo periodo di globalizzazione della storia recente, dopo che la rivoluzione industriale ottocentesca aveva innescato una profonda mutazione della mappa mondiale dei vantaggi comparati. L’invenzione dei macchinari aveva accresciuto la dotazione relativa di capitale di alcuni paesi e aumentato nettamente il vantaggio di produttività derivante dallo sfruttamento delle economie di scala di fabbrica. La riduzione dei costi di trasporto, inoltre, aveva reso commerciabili molti prodotti, consentendo di sfruttare le medesime economie di scala per mezzo di stabilimenti altamente integrati e dedicati a servire il mercato globale. Lo schema di internazionalizzazione che ne derivò era basato su un intenso commercio di beni finali omogenei e su imprese altamente integrate.

Pian piano, le imprese hanno perseguito una differenziazione dei prodotti volta a garantirsi una protezione dalla concorrenza. Ne sono nate filiere produttive sempre più complesse, con quote rilevanti di valore aggiunto associate alla ricerca e allo sviluppo di nuovi prodotti e alla gestione dei servizi collegati e/o successivi alla vendita. Questa tendenza ha aumentato l’importanza delle economie di scala di impresa (per esempio, il valore del marchio o la ricerca e sviluppo) rispetto a quelle di fabbrica. Nonostante il gap dimensionale, le piccole e (medie) imprese italiane si sono adattate con successo a questo sistema, sfruttando la differenziazione e la ricerca della qualità, anche grazie alla disponibilità di filiere flessibili, integrate solo informalmente in territori geograficamente circoscritti e ricchi di risorse produttive adeguate ed economiche.

La seconda globalizzazione ha mutato lo scenario. Essa è nata da un’altra rivoluzione tecnologica (quella dell’elettronica e della telematica), cui si è associata una riduzione senza precedenti del costo di trasporto delle idee. Le grandi imprese hanno sfruttato questa possibilità per fronteggiare la complessità organizzativa e per garantirsi uno sfruttamento più efficiente dei vantaggi comparati delle nazioni. Hanno scomposto il loro processo produttivo in fasi e hanno localizzato ciascuna di esse laddove fossero disponibili in maniera relativamente abbondante i fattori in cui esse erano intensive a un adeguato rapporto prezzo-produttività. Vale a dire che hanno applicato i vantaggi della specializzazione internazionale alla produzione/approvigionamento dei beni intermedi.

Dato che l’Occidente aveva già perso i suoi vantaggi comparati nella produzione e assemblaggio e il grosso del valore aggiunto si trovava nelle fasi a monte e a valle della filiera, la disintegrazione ha spinto le grandi imprese dei paesi di più antica industrializzazione a localizzare quote rilevanti della loro capacità produttiva o di assemblaggio a Oriente e a rafforzare i servizi industriali a elevato valore aggiunto necessari a generare economie di impresa laddove fossero disponibili le adeguate risorse. Ne è derivata un’internazionalizzazione che attribuisce un peso crescente sia ai contratti internazionali di subfornitura e agli investimenti diretti all’estero asset seeking, finalizzati alla ricerca di fattori produttivi (anche pregiati, si pensi alla ricerca di conoscenza che spinge a localizzare laboratori di ricerca a Silicon Valley) non altrimenti reperibili in medesime condizioni di economicità, sia agli investimenti diretti all’estero market seeking, finalizzati alla vendita diretta, perché in un mercato caratterizzato da scambi intraindustriali di beni differenziati occorre garantirsi un forte presidio e un’elevata conoscenza delle funzioni di utilità dei consumatori.

In altre parole, lo spostamento del valore aggiunto dalle fasi di produzione/assemblaggio a quelle di progettazione/vendita (servizi industriali a monte e valle della filiera) ha spinto le imprese a un maggiore utilizzo dei benefici della specializzazione nella filiera, sfruttando le economie di impresa per mezzo di servizi collegati e/o successivi alla vendita e attività di ricerca e sviluppo maggiormente centralizzate, e le economie di fabbrica dei subfornitori o delle filiali estere per mezzo di opportune localizzazioni produttive. È evidente che, laddove i concorrenti sfruttano la specializzazione internazionale tramite fornitori e subfornitori localizzati nei diversi continenti e presidiano con reti stabili la distribuzione, è più complesso mantenere la medesima competitività per i sistemi di imprese che utilizzano filiere circoscritte territorialmente e soltanto l’internazionalizzazione leggera. Le caratteristiche della seconda globalizzazione hanno favorito, quindi, un modello di industria nel quale è fondamentale la capacità di gestire investimenti diretti all’estero e la complessità di strutture produttive multinazionali.

Per perseguire questo modello, è cruciale essere produttivi. Uno dei principali risultati dell’economia internazionale è che esiste un collega mento diretto fra l’internazionalizzazione delle imprese e il loro livello di produttività. Le imprese devono, infatti, essere dotate di specifici vantaggi per superare i costi connessi all’operatività stabile su mercati esteri come, per esempio, quelli di adeguarsi a sistemi legali e burocratici differenti o alla gestione di un modello di business più complesso. La letteratura, inoltre, trova che la produttività delle imprese che fanno investimenti esteri di tipo industriale è superiore a quelle delle imprese che fanno solo investimenti di tipo commerciale. Esistono, inoltre, potenziali effetti di circolarità virtuosa, sebbene su questo fenomeno non vi sia consenso unanime. Per esempio, in seguito all’internazionalizzazione stabile, il vantaggio di produttività viene rafforzato sia perché la disponibilità di fattori produttivi a costi più contenuti libera risorse per altre funzioni che possono generare economie di impresa e che accentuano la competitività, sia perché l’integrazione in cluster produttivi internazionali e in network internazionali di creazione e utilizzo di tecnologia attiva spillover cruciali per acquisire competenze complementari alle proprie.

L’evidenza, in altre parole, mostra che proprio le migliori imprese – e non quelle in difficoltà – si preparano per prime a percorsi di internazionalizzazione stabile, per sfruttare al massimo i loro vantaggi competitivi e continuare a crescere. Ritardare questi percorsi danneggia la competitività delle imprese. Questa indicazione è contraria rispetto all’idea di internazionalizzazione stabile combattuta da chi la confonde con la delocalizzazione selvaggia. La seconda è – spesso – l’ultima chance per imprese non più competitive, che basano la loro strategia solo sui costi e che chiudono la produzione in un paese per localizzarla completamente in un altro. Diversa, invece, è l’internazionalizzazione delle imprese capaci di gestire una struttura multinazionale, con fabbriche, centri servizi e strutture produttive in più paesi, gestite da un quartier generale centrale che crea opportunità di occupazione qualificata e specializzata sul territorio e che richiede un territorio ricco di fattori produttivi adeguati.

Il legame fra internazionalizzazione stabile e produttività indica che le radici della minore internazionalizzazione stabile delle imprese italiane sono nella limitata crescita della seconda. In altre parole, molte non sono sufficientemente produttive per sostenere i costi iniziali collegati alla scelta di andare all’estero. Infatti, per l’Italia, sia la produttività manifatturiera, sia il valore di stock cumulato e flussi annuali di investimenti diretti all’estero sono nettamente inferiori a quelli degli altri paesi dell’Unione europea, oltre che degli USA. Non sembra indifferente, a questo fine, ricordare che molte ricerche hanno segnalato che l’innovazione è una componente principale della crescita della produttività e che il suo impatto, in alcuni casi, è superiore a quello dell’investimento in capitale umano e che in questo settore, il ritardo dell’Italia è sostenuto. Alla luce di queste riflessioni, è evidente che la priorità per la politica deve essere quella di favorire la crescita della produttività. Solo imprese produttive e competitive sono in grado di adattarsi ai nuovi schemi della competizione internazionale e crescere internazionalmente. Le politiche per favorire l’aumento della produttività delle imprese devono essere orizzontali e favorevoli alla crescita della dimensione delle imprese.

Orizzontali, perché il pubblico non è in grado di scegliere quali sono le imprese e i settori strategici per il paese e non può – ad ogni modo – favorire un settore a scapito di un altro, sia per l’assenza di agenzie di valutazione, sia per ovvie ragioni elettorali. Inoltre, un sistema programmato non è capace di perseguire l’innovazione perché sprovvisto del motore principale che è la ricerca di extra-profitti da parte degli imprenditori ed è incapace di prevedere con certezza le rivoluzioni tecnologiche e i cambiamenti dei sistemi economici. Per esempio, solo un sistema di favore fiscale cieco degli investimenti in ricerca, che accetti il primato del mercato e la distruzione creatrice schumpeteriana, può garantire un collegamento fra ricerca e impresa non distorsivo dei comportamenti individuali e che si traduca in adeguati livelli di innovazione.

Favorevoli alla crescita, anche con strumenti fiscali che favoriscano le aggregazioni, perché ciò consente alle imprese di aumentare la produttività sia sfruttando le economie di impresa, focalizzandosi sulle fasi a elevato valore aggiunto a monte e a valle della filiera, sia accentuando lo sfruttamento dei vantaggi della specializzazione internazionale per mezzo dello spostamento di fasi della produzione laddove i vantaggi comparati delle nazioni lo suggeriscano. In questo schema, anche la competitività delle imprese operanti nei settori tradizionali può essere mantenuta in presenza di concorrenti capaci di produrre a basso costo, sfruttando parte della loro capacità produttiva e concentrando sul territorio nazionale i quartieri generali e le fasi produttive e terziarie industriali a maggiore valore aggiunto.

È evidente che questo schema può creare un trade-off fra imprese, lavoratori e territorio. La strategia di frammentazione dei processi produttivi schiaccia i lavoratori meno qualificati e i territori fra una pericolosa tendenza al pareggiamento della remunerazione dei fattori produttivi – che eliminerebbe l’incentivo alla frammentazione – e il rischio di deindustrializzazione. D’altro canto, resistere a questa tendenza, trattenendo artificialmente sul territorio nazionale le quote di produzione non vantaggiose, danneggerebbe la competitività delle imprese e potrebbe, comunque, generare fenomeni di declino nel medio periodo. Inoltre, in assenza di risorse adeguate, si possono perdere le fasi produttive meno pregiate senza essere in grado di mantenere/ attrarre quelle ricche di valore aggiunto, accentuando i rischi di declino. In questo caso, l’aumento della competitività delle imprese avrebbe pochi effetti positivi sull’ economia del paese che resterebbe alla ricerca di una sua vocazione produttiva.

Per ridurre questo pericolo, occorre rafforzare l’intervento pubblico dedicato al rinnovamento – rapido e tempestivo – della dotazione di fattori produttivi (materiali e immateriali, umani e non), poiché dalla tipologia di dotazione relativa di fattori si determina univocamente la posizione di un paese nella divisione internazionale del lavoro. Fra le priorità di questo l’intervento, un peso cruciale deve essere attribuito alla formazione di competenze che siano funzionali alle nuove necessità delle imprese, formando risorse umane adeguate a consentire la localizzazione – da parte di imprese domestiche e non – di segmenti di filiera a elevato valore aggiunto che sostituiscano la minore domanda di competenze industriali elementari. Anche le politiche volte a favorire l’innovazione, richiedono questo tipo di scelte. Nel breve periodo e temporaneamente, sono auspicabili, inoltre, interventi di tipo assistenziale dedicati a sostenere il reddito e la riqualificazione dei lavoratori coinvolti in crisi industriali, e non necessariamente la sopravvivenza delle imprese, purché strutturati in modo da essere complementari all’obiettivo di rinnovamento della dotazione fattoriale e da favorire una più equa distribuzione dei benefici del nuovo modello di specializzazione internazionale.

L’attivazione di economie esterne, conseguente a questo rinnovamento, favorirà le imprese che si localizzano sul territorio, domestiche e non, ma – soprattutto – queste risorse rimarranno patrimonio del territorio medesimo qualunque sia la sorte delle imprese, senza generare i circoli viziosi che emergono laddove si attraggano/trattengano imprese per mezzo di contributi pubblici, e permetteranno al paese di completare la sua transizione verso una nuova collocazione nella divisione internazionale del lavoro.