«Un viaggio nel Mezzogiorno». Paolo Sylos Labini tra economia e storia

Written by Giuseppe Abbracciavento Wednesday, 01 March 2006 02:00 Print

Il viaggio nelle province meridionali che Paolo Sylos Labini intraprese nel 1953 era stato direttamente sollecitato da Gaetano Salvemini. I lunghi rapporti intrattenuti con lo storico molfettese durante il soggiorno americano ad Harvard, e le discussioni maturate intorno ai temi più ricorrenti della questione meridionale avevano appassionato il giovane Sylos Labini a tal punto da convincerlo, al suo ritorno in Italia, dell’opportunità di conoscere più da vicino e in profondità le problematiche del meridionalismo e di verificare sul campo le reali condizioni sociali ed economiche del Meridione italiano attraverso un viaggio tra Puglia, Campania e Calabria.

 

Il viaggio nelle province meridionali che Paolo Sylos Labini intraprese nel 1953 era stato direttamente sollecitato da Gaetano Salvemini. I lunghi rapporti intrattenuti con lo storico molfettese durante il soggiorno americano ad Harvard, e le discussioni maturate intorno ai temi più ricorrenti della questione meridionale avevano appassionato il giovane Sylos Labini a tal punto da convincerlo, al suo ritorno in Italia, dell’opportunità di conoscere più da vicino e in profondità le problematiche del meridionalismo e di verificare sul campo le reali condizioni sociali ed economiche del Meridione italiano attraverso un viaggio tra Puglia, Campania e Calabria.

Era, in fin dei conti, il metodo di studio salveminiano: in esso il rifiuto di qualsiasi astrattezza modellistica andava di pari passo con la necessità di una rigorosa verifica ul campo di idee e problemi. Per ogni centro visitato Sylos registrò lo stato dell’industria, del commercio e dell’agricoltura, ma anche il livello di istruzione, le condizioni abitative e igieniche e la struttura sociale. Al termine delle sue indagini elaborò delle riflessioni generali – il testo che qui pubblichiamo – che individuavano, forse per la prima volta, forme di analisi e suggestioni problematiche largamente ricorrenti in tutta la successiva riflessione dell’economista.

L’interesse di Sylos per il Mezzogiorno – dovuto, per certi versi, anche a ragioni familiari – risale, infatti, ai primi anni Cinquanta e si interseca già da allora con la questione dello sviluppo – altro tema centrale della sua riflessione – sino ad arrivare agli ultimissimi anni dell’impegno intellettuale di Sylos, che lo videro impegnato nella elaborazione di un programma concretamente riformista capace di fronteggiare e risolvere i problemi del sottosviluppo. Il viaggio nel Mezzogiorno fu compiuto nel 1953, ma il reportage di quell’esperienza fu pubblicato in tre parti su «Il Ponte» di Piero Calamandrei solo due anni dopo, nel 1955, rielaborato sulla base delle numerose osservazioni che Gaetano Salvemini formulò al testo dell’economista. Con la pubblicazione su «Il Ponte» iniziava una proficua e mai interrotta collaborazione con la rivista di Piero Calamandrei, incentrata sulla condivisione di quei valori di libertà, giustizia e pluralismo culturale da sempre posti alla base della rivista; ma, soprattutto, prendeva forma e si chiariva un tentativo nuovo di approccio alle problematiche del meridionalismo, un approccio poco incline a lasciarsi irretire dalle sole ragioni economiche del sottosviluppo, ma attento ad una valutazione storica e culturale del fenomeno meridionale. Sulla scorta di una scrupolosa lettura dell’opera di Adam Smith, e da acuto conoscitore di quella vasta letteratura sulle implicazioni sociali e culturali dei processi di crescita economica, Sylos Labini rifiuta alla radice un’interpretazione delle tematiche meridionaliste attestata sui consueti paradigmi del sottosviluppo così come consegnati alla riflessione da decenni di studi sulla questione meridionale. Egli cerca, piuttosto, di portare al centro della scena una diversa griglia interpretativa che innanzitutto fosse capace di riconoscere le peculiarità e le diversità dei problemi odierni del Mezzogiorno rispetto ai decenni precedenti.

La vera questione, la vera battaglia consisteva nel riconoscere la situazione meridionale non più solo e soltanto come espressione di una grave arretratezza sotto il profilo economico, ma anche e soprattutto sotto il profilo civile e culturale. Lo spunto di partenza per la riflessione su questo tema era l’idea che l’assenza al Sud di una qualsiasi borghesia industriale moderna avesse fortemente rallentato l’affermazione di un capitalismo maturo. E le ragioni di questa assenza andavano ricercate prima di tutto nella storia e, in particolare, nel mancato sviluppo al Sud di quei principi di autogoverno comunale così largamente presenti, invece, al Nord.

Smith, Croce, Cattaneo offrono a Sylos le coordinate interpretative per una esatta comprensione della genesi del dualismo Nord-Sud: il percorso delle città dell’Italia centro-settentrionale verso l’autonomia politica; la nascita, quindi, di entità autonome capaci di autogestirsi aveva portato ad una preminenza dei rapporti orizzontali tra le persone rispetto a quelli verticali di tipo feudale. Nel Sud, invece, l’assenza di quella salutare dialettica tra città e potere centrale aveva reso impossibile lo sviluppo di una economia basata sulla produzione e sull’industria, finendo per privilegiare la rendita e il parassistismo.

Nello scritto che qui presentiamo questi temi sono solo accennati, tuttavia presentano le forme e i contorni che attraversano come un fiume carsico tutta la pur lunga riflessione teorica dell’economista recentemente scomparso sino ai suoi ultimi scritti. Con ogni probabilità, è per questo motivo che una sera di dicembre di due anni fa Sylos Labini suggerì a chi scrive proprio le conclusioni del viaggio del 1953 come testo meritevole di una ripubblicazione. Andando a scavare nella sua storia di economista «eterodosso» e nel suo impegno politico e civile sin dalla sua partecipazione ai lavori della Commissione economica per la Costituente, Sylos riconobbe in questo breve scritto uno dei momenti più importanti della sua produzione meridionalista perché esso contiene, in nuce, suggestioni e spunti capaci di restituirci, in ultima analisi, un momento importante, decisivo, di un approccio da allora mai abbandonato. L’impegno di Sylos Labini intellettuale ed economista è stato profuso in maniera continua e ininterrotta nell’indagine dei caratteri salienti del capitalismo moderno e delle sue connessioni con le dinamiche delle società capitalistiche. In questa analisi è stata costante l’attenzione rivolta alle ragioni dello sviluppo civile della società, visto non in opposizione alla dimensione economica dello sviluppo ma come un suo necessario complemento; si capiscono meglio, inquadrati in questo contesto, i richiami, sempre più frequenti negli ultimi anni, rivolti da Sylos alla classe politica per un recupero della dimensione etica nella gestione della cosa pubblica. Le sue proposte si incentravano, nel concreto, sulla necessità di massicci investimenti sull’istruzione, sulla ricerca, sull’innovazione ma, su tutte, primeggiava un importante richiamo di fondo alla lotta contro ogni forma di scetticismo. Si tratta, secondo l’economista, di guardarsi da due pericoli opposti: «il pericolo del superficiale ottimismo, che provoca illusioni, che poi sono seguite da delusioni uguali e contrarie; e il pericolo del cupo pessimismo, che genera scetticismo e paralisi. Forse la formula ideale è: ottimismo senza illusioni».1 In questo messaggio risiede, probabilmente, il nucleo più autentico e duraturo del suo impegno di riformista appassionato.

 

Paolo Sylos Labini, Un viaggio nel Mezzogiorno. Riflessioni generali

Quando, nei diversi paesi europei, il feudalesimo entrò in dissoluzione, cominciò a svilupparsi un capitalismo che, in una prima lunga fase, fu capitalismo commerciale. Durante questa fase si svolsero, nell’agricoltura, quelle trasformazioni e quei rivolgimenti che gli storici dell’economia hanno chiamato «rivoluzioni agrarie». Uno degli aspetti caratteristici di codeste rivoluzioni fu lo sfasciamento della proprietà comunale, elemento essenziale della società feudale (gli altri elementi sono: il nucleo economico che fa capo al castello, la piccola proprietà contadina e l’esercizio artigiano indipendente). Alla fase del capitalismo commerciale successe la fase della manifattura e, finalmente, la fase della macchinofattura («rivoluzione industriale»). La macchinofattura viene introdotta dalla borghesia industriale, ch’è ben diversa da quella commerciale: il carattere distintivo principale è dato dal fatto che la borghesia industriale s’inserisce nel processo produttivo applicando in esso ritrovati scientifici (i quali si concretano sopra tutti in macchine). La borghesia industriale è ben più colta e dinamica di quella commerciale, che di regola è composta di uomini rozzi e ignoranti, capaci solo di lucrare le differenze fra prezzi di acquisto e prezzi di vendita, incapaci di comprendere l’importanza che può avere la scienza nel processo produttivo. Il problema del Mezzogiorno si riassume essenzialmente nel problema della mancata apparizione della borghesia industriale: quella commerciale c’è, e vasta, in certi casi (Bari, Catania, Messina, Palermo) operosa, e tiene, nel Sud, le principali posizioni economiche anche nell’agricoltura. La fase attuale dell’evoluzione sociale del Mezzogiorno è paragonabile, per certi aspetti, alla fase del capitalismo commerciale e manifatturiero del secolo XVII e XVIII in Inghilterra. Come in Inghilterra in quei secoli, la dissoluzione del feudalesimo è molto avanzata ma non è affatto compiuta; corrispondentemente, non è affatto compiuta la «rivoluzione agraria». Proprietari assenteisti, problema degli usi civici (derivante dallo sfasciamento della proprietà comunale feudale), sono fenomeni connessi con la dissoluzione del feudalesimo, con la commercializzazione della terra e con lo sviluppo del capitalismo commerciale e manifatturiero; con codesto sviluppo, è anche connesso lo sfruttamento delle donne e dei bambini.

Ci sono altri due fenomeni: l’enorme espansione demografica e il decadimento di piccole attività individuali, familiari e artigiane, e delle produzioni minerarie, provocato dal «progresso» svolgentesi in regioni e in paesi più evoluti. Entrambi i fenomeni si svolgevano nell’Inghilterra del secolo XVIII e del principio del secolo XIX. Si può dire che nell’epoca moderna, non solo in Inghilterra, ma in tutti i paesi l’enorme aumento della popolazione è stato originato dalla flessione della mortalità, non dall’aumento della natalità. Quanto al decadimento di certe produzioni provocato dalla concorrenza di produzioni svolte con metodi più efficienti, in Inghilterra, come in altri paesi, al decadimento interno corrispondeva uno sviluppo produttivo (principalmente: sviluppo industriale), pure interno, in altre zone e in altri rami produttivi. Nell’Italia meridionale, invece, il decadimento interno non viene «compensato» nel lungo periodo, da uno sviluppo industriale interno; la distruzione avviene dentro, ma la costruzione ha luogo fuori: nell’Italia del Nord e all’estero.

La pressione demografica (che determina, fra l’altro, la polverizzazione della proprietà fondiaria e tende a deprimere la produttività della terra), il decadimento di varie attività economiche, tendono ad accrescere, nell’Italia meridionale, il numero dei disoccupati, dei parzialmente occupati e, in generale, dei percettori di redditi bassissimi. Nello stesso tempo, hanno luogo fenomeni che contrastano quella tendenza: investimenti nelle terre da parte di proprietari agrari attivi, investimenti pubblici, sviluppo di attività commerciali e, in certe aree, di attività industriali. Qual è il risultato netto di tali due ordini di tendenze? Vi sono indizi che fanno pensare che, se il numero di coloro che «stanno meglio» cresce, quello dei miserabili cresce anche di più, di modo che la proporzione dei miserabili rispetto alla popolazione totale cresce. Fra questi indizi v’è l’aumento della percentuale della popolazione inattiva rispetto alla popolazione totale (dal 43% nel 1861 al 63% nel 1936) e la diminuzione della percentuale delle persone occupate nell’«industria» rispetto alla popolazione attiva totale (dal 30% nel 1861 al 27,6% nel 1936). Deduttivamente, occorre osservare che i più poveri sono anche i più prolifici, anche nell’Italia meridionale. Gli aspetti regressivi prevalgono su quelli progressivi. (La tesi di Malthus sulla popolazione e quelle del Marx sulla miseria crescente e la crescente concentrazione della ricchezza valgono per i paesi «arretrati», ossia per i paesi che sono ancora nella fase del capitalismo commerciale, in cui la «rivoluzione agraria» è incompiuta e le cui economie sono sconquassate dal «progresso» di altre regioni o di altri paesi; quelle tesi, quindi, erano ancora valide per l’Inghilterra ai tempi di Malthus e di Marx, ma ora non sono più valide né per quel paese né per gli altri paesi in cui si è affermato il capitalismo industriale). Come nell’Inghilterra del principio del secolo scorso, dunque, predomina, nel Mezzogiorno, un capitalismo agrario commerciale; l’economia industriale – la macchinofattura – è ancora un’isola in un mare agrario, artigianale e manifatturiero; e le strutture feudali non sono completamente liquidate. Tuttavia, se notevoli sono le rassomiglianze, anche più importanti sono le differenze. Una delle principali differenze sta forse in ciò, che oggi il capitale minimo necessario per avviare attività produttive industriali è, soprattutto per ragioni tecniche, assai più grande di quanto fosse nel secolo scorso: ciò rende difficile lo sviluppo spontaneo di imprese industriali in concorrenza. L’economia industriale del Nord, a sua volta, è in condizioni, non di concorrenza, ma (nei rami fondamentali per lo sviluppo produttivo) di monopolio o di quasi-monopolio. La teoria economica del monopolio mostra che la produzione, l’impiego delle risorse, materiali e umane, e, in generale, le decisioni di investire sono attuate in funzione del massimo ricavo netto monetario per l’azienda, non del massimo prodotto per la società. E il grosso delle decisioni d’investire, quelle che più contano per lo sviluppo industriale, sono prese nel Nord, con criteri del primo genere. Gli stessi rari stabilimenti industriali del Sud, o sono emanazioni di aziende del Nord, o debbono seguirne o subirne la politica. Come s’è già osservato precedentemente, nelle economie arretrate, che sono economie agricole e in cui i piccoli produttori sono ignoranti e disorganizzati, i commercianti all’ingrosso e, in generale, gli acquirenti all’ingrosso (fra cui sono le industrie alimentari) riescono a guadagnare spingendo in basso i prezzi dei prodotti agricoli. Lo scarto fra i prezzi al produttore e i prezzi al consumatore in queste economie è molto maggiore che nelle economie più progredite. Le possibilità d’investimento nell’agricoltura e, in generale, di risparmio sono ridotte da questo sfruttamento «monopolistico».

Nel Mezzogiorno d’Italia, sopra tutto a causa della pressione demografica e del deficiente aumento del reddito, cresce il battaglione di coloro che Marx designava col termine di Lumpenproletariat, e Marshall con quello di residuum, specialmente nelle città. L’ingrandimento delle città meridionali in gran parte non è stato un fenomeno fisiologico, dipendente cioè da uno sviluppo industriale, ma patologico: uomini poverissimi sono affluiti e affluiscono nelle città, non tanto perché il loro lavoro è stato ed è richiesto da imprese, ma per fuggire dalla miseria delle campagne. Nelle città essi possono racimolare le briciole che cadono dalle tavole dei ricchi epuloni; nelle città essi vivono d’espedienti, svolgendo piccoli traffici, leciti e illeciti. Costoro perdono, se pure l’hanno mai avuta, l’abitudine al lavoro sistematico, alimentando la corruzione e perfino la criminalità. Credo che, se dovrà un giorno cominciare un lavoro serio di ricostruzione sociale e di organizzazione produttiva nel Sud, il sottoproletariato cittadino costituirà uno dei problemi più gravi, forse il più grave.

Molti studiosi e molti uomini politici pensano che occorreranno decenni, che occorrerà il lavoro di varie generazioni, prima che il Mezzogiorno d’Italia possa divenire un paese civile: essi pensano all’enorme tasso di incremento della popolazione e al tempo impiegato da altri paesi per sviluppare le industrie moderne.

Occorre riflettere sulla validità di tale tesi. Il periodo eroico dello sviluppo industriale americano è stato relativamente breve: 30 anni (dal 1880 al 1910). L’industria (la grande industria macchinofattrice) nelle tre regioni nordoccidentali dell’Italia nel 1890 era quasi inesistente; nel 1908 essa era già tanto sviluppata da dare il «tono» alle economie di quelle tre regioni. La Russia ha creato la sua industria in venti anni. Quanto alle variazioni demografiche, i mutamenti di tendenza sono, relativamente, anche più rapidi: fino al 1880 il tasso di natalità in Inghilterra era rimasto quasi completamente stazionario o aveva avuto tendenza a declinare lentamente: dopo quel periodo il declino divenne rapidissimo (in corrispondenza dello sviluppo industriale e delle trasformazioni nella struttura produttiva che allora giungevano a maturazione e del rapido aumento del livello medio di vita). La più rilevante flessione della natalità in Svezia non si svolge che in poco più di un decennio. Si potrebbe forse dire che, come in molti fenomeni fisici, anche in certi fenomeni sociali c’è un «punto critico» o una «fase critica».

Un’antica analogia può riuscire efficace. Se si somministra calore a una pentola d’acqua, per una fase relativamente lunga sembra che non si abbia alcun effetto; e se s’ignorasse che a 100 gradi l’acqua bolle, si potrebbe divenire «pessimisti» sulle possibilità di far cambiare stato all’acqua. Ma appena si giunge ai 100 gradi l’acqua comincia a trasformarsi tumultuosamente in vapore. Natura facit saltus. Forse anche nei fenomeni sociali v’è qualcosa di simile: tante e tante piccole trasformazioni graduali per lungo periodo possono non avere effetti appariscenti. Inaspettatamente e all’improvviso (secondo quanto appare a osservatori superficiali) ha luogo una «rottura», un rovesciamento di tendenza.

I piccoli cambiamenti graduali hanno preparato il salto.

da P. Sylos Labini, Un viaggio nel Mezzogiorno, in «Il Ponte», marzo 1955, pp. 365-367.

 

Chi è Paolo Sylos Labini?

(Roma, 1920-2005) È stato uno dei massimi economisti italiani e ha segnato per l'originalità della sua analisi mezzo secolo di storia del pensiero economico. Specializzatosi ad Harvard sotto la guida di Joseph Schumpeter e poi a Cambridge con Dennis Robertson, dal 1962 ha insegnato Economia politica presso l'Università «La Sapienza» di Roma. Nel 1962 divenne membro della Commissione nazionale per la programmazione economica, nel 1974 del comitato tenico-scientifico del ministero del bilancio da cui si dimise in polemica con Giulio Andreotti. Economista e meridionalista appassionato, ha sempre tenuto fede agli insegnamenti di Gaetano Salvemini e agli ideali del liberalsocialismo. Negli ultimi anni particolarmente intenso si era fatto il suo impegno politico contro la deriva berlusconiana del paese.

 

 

Bibliografia

1 P. Sylos Labini, Sviluppo economico, etica e sviluppo civile, in «Mezzogiorno d’Europa», 3-4/1991, p. 505.