L'Iran e il rischio di una nuova trappola ideologica

Written by Lilli Gruber Wednesday, 01 March 2006 02:00 Print

Non c’è alcuna fatalità nella gestione dei destini del mondo e il corso della storia non è ineluttabile. Determinanti sono le decisioni dei responsabili di governi e istituzioni. E, se nel nostro mondo globale essi commettono errori di analisi e di strategia, alla fine ne siamo coinvolti tutti. La questione irachena è un buon esempio: la guerra sbagliata e illegale dell’Amministrazione di George W. Bush ha prodotto una tragedia, le cui conseguenze si faranno sentire ancora a lungo. E non solo per le migliaia di famiglie irachene e americane colpite, ma anche per l’andamento dell’economia mondiale: basti pensare all’impatto dell’impennata del prezzo del petrolio. Per non parlare della perdita di credibilità del modello democratico che gli americani e noi europei tanto vorremmo «esportare». 

 

Non c’è alcuna fatalità nella gestione dei destini del mondo e il corso della storia non è ineluttabile. Determinanti sono le decisioni dei responsabili di governi e istituzioni. E, se nel nostro mondo globale essi commettono errori di analisi e di strategia, alla fine ne siamo coinvolti tutti.

La questione irachena è un buon esempio: la guerra sbagliata e illegale dell’Amministrazione di George W. Bush ha prodotto una tragedia, le cui conseguenze si faranno sentire ancora a lungo. E non solo per le migliaia di famiglie irachene e americane colpite, ma anche per l’andamento dell’economia mondiale: basti pensare all’impatto dell’impennata del prezzo del petrolio. Per non parlare della perdita di credibilità del modello democratico che gli americani e noi europei tanto vorremmo «esportare».

Chi oggi delibera sul dossier nucleare iraniano dovrà perciò evitare accuratamente errori di valutazione e noi cittadini dobbiamo pretendere da chi ci governa lucidità e trasparenza. Nel contenzioso tra Iran e Occidente è fondamentale non cadere nel fatalismo dell’approccio ideologico che ci farebbe precipitare pericolosamente nello scontro di civiltà o religioni. In realtà siamo di fronte all’ennesima puntata di una relazione da tempo molto difficile. Restituire al dibattito memoria e contesto storico significa poter lavorare su soluzioni praticabili, lontane dalla logica semplicistica del pregiudizio e della manipolazione.

L’Iran si trova nel cuore di una regione strategicamente decisiva per le sorti del mondo. È un paese cerniera tra Medio Oriente e Asia centrale, zona ricchissima di quelle risorse energetiche che consentono la sopravvivenza delle economie avanzate e lo sviluppo dei due giganti asiatici, Cina e India. Una regione teatro da oltre trent’anni di dinamiche destabilizzanti come l’aumento della domanda di petrolio, la caduta del blocco sovietico, i ripetuti conflitti regionali, gli interventi militari stranieri, la crescita del fanatismo religioso. Proprio alle porte della Repubblica islamica si sono combattute le prime due guerre del Ventunesimo secolo, in Afghanistan e in Iraq, altrettanti scenari della «guerra al terrorismo» diventata il principale pilastro della politica di Bush. Sullo sfondo, il conflitto israelo-palestinese che da oltre mezzo secolo infiamma le rive del Golfo e del Mediterraneo.

L’influenza politica, economica e religiosa di Teheran si fa sentire in tutta l’area mediorientale e ne travalica i confini. Graham Fuller, esperto della Rand Corporation, ha scritto dieci anni fa un libro intitolato «The center of the Universe».1 Si tratta di un’analisi attenta della percezione che gli iraniani hanno di sé e del loro ruolo nello scenario internazionale. Sono protagonisti che non si possono ignorare, tanto meno sfidare impunemente.

L’Iran è anche un nostro vicino di casa. Allorché discutiamo delle ambizioni della Turchia di unirsi al club dei 25, non possiamo non tenere conto della sua frontiera con la Repubblica islamica e del suo interesse per le minoranze azere e turche in Iran. Se il Mediterraneo è concepito come un’area privilegiata di contatti e di liberi scambi, bisogna fare i conti con l’influenza esercitata dal regime degli ayatollah su paesi come il Libano o la Siria. La vittoria di Hamas alle elezioni palestinesi dello scorso gennaio ha solo rafforzato la presenza dell’Iran sulle sponde del Mediterraneo, che ora parte da Teheran, passando per Baghdad e Damasco, approdando a Beirut e a Gaza. Questo asse è formato da paesi o gruppi politici suoi alleati e finanziariamente dipendenti dalla Repubblica islamica, pronti a muoversi all’unisono se sono in ballo interessi comuni.

L’Iran inoltre è un partner economico importante per l’Unione europea. Italia, Germania e Francia sono solo alcuni dei paesi che hanno rapporti commerciali di lunga data per l’acquisto di petrolio, l’esportazione di beni di consumo, la realizzazione di grandi opere. Il mercato persiano ha potenzialità enormi: 70 milioni di abitanti con un’alta percentuale di giovani (il 70%), una società dinamica e aperta nei confronti di tutto quello che l’Europa può offrire. Lo Stato è ricco soprattutto grazie alle riserve di oro nero e al vertiginoso aumento del prezzo del greggio, ma i limiti strutturali della sua economia impediscono alle centinaia di migliaia di giovani che si affacciano ogni anno sul mercato del lavoro di trovare un’occupazione. Per questo molti dirigenti politici sono ormai convinti della necessità di liberalizzare il sistema e di approntare riforme per limitare il clientelismo, le sovvenzioni e il peso di un’oligarchia corrotta. Ma si tratta di processi lenti, in una nazione che a ventisette anni dalla Rivoluzione islamica esce con difficoltà dal dirigismo statale e stenta a trovare il giusto compromesso tra giustizia sociale e liberismo.

L’Europa ha tutto l’interesse a trovare una soluzione pacifica al contenzioso con Teheran e rappresenta oggi l’unico soggetto in grado di instaurare un dialogo costruttivo. Teniamo presente, infatti, che i rapporti diplomatici tra Stati Uniti e Iran, interrotti nel 1980, rendono una riconciliazione estremamente difficile. Il Vecchio continente deve quindi proporre una via d’uscita, un’«azione preventiva» che garantisca la stabilità e la sicurezza della regione per evitare che lo psicodramma iraniano si trasformi in tragedia. In campo ci sono tutti gli attori principali dello scacchiere mediorientale: Stati Uniti, Russia, Cina, Turchia, i paesi arabi del Golfo e Israele.

L’Italia, in particolare, può avere un ruolo determinante. Dopo la vittoria del centrosinistra, il nuovo governo dovrà riavvicinarsi ai partner europei già da tempo interlocutori di Teheran: la Troika, cioè Gran Bretagna, Francia e Germania. Nel momento in cui Parigi e Londra sono indebolite da problemi interni, la diplomazia e l’esperienza italiana possono servire a promuovere una nuova dimensione collegiale e unitaria dell’azione europea. In questo sforzo, Roma troverà in Berlino un alleato naturale e in Javier Solana, responsabile degli esteri e della sicurezza dell’Unione europea, il partner cruciale per definire una strategia comune.

Nella logica dell’«impegno preventivo» l’Italia si troverà ad affrontare due sfide: rompere con una lettura paranoica del problema iraniano e offrire ai partner americani una valida alternativa allo scontro.

È necessario allora adottare un approccio pragmatico: gli Stati Uniti sostengono, pur non avendo mai dato prove certe, che l’Iran abbia il potenziale per produrre bombe atomiche. Teheran, d’altro canto, smentisce insistendo sulla natura pacifica del suo programma nucleare, senza aver mai fornito verifiche inconfutabili della sua buona fede. A questo dibattito sterile si aggiunge la diffidenza della comunità internazionale nei confronti di Washington dopo la manipolazione del dossier sulle armi di distruzione di massa in Iraq, ma anche nei confronti di Teheran, che per lungo tempo ha tenuto segreti i suoi programmi atomici. I servizi segreti occidentali, inoltre, non dispongono di alcuna fonte affidabile nella Repubblica islamica per monitorare lo stato di avanzamento delle ambizioni nucleari degli ayatollah. Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Germania si sono limitati a formulare semplici ipotesi. A tale proposito il nuovo direttore della CIA, John Negroponte, ha dichiarato: «L’Iran ‘probabilmente’ non è in possesso né di armi nucleari né del materiale fissile per fabbricare una bomba». Mentre il direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, El Baradei, ha affermato che Teheran non rappresenta una minaccia immediata e che le sanzioni sono una pessima idea.

Per uscire da questa impasse bisogna avere il coraggio di affrontare la «minaccia» nucleare iraniana sul piano più generale della sicurezza della regione. Ricordandosi della lezione impartita dalla «logica della dissuasione» che ha garantito la stabilità dell’Europa durante la guerra fredda. La questione assume allora altri connotati: di fronte all’arsenale atomico israeliano il pericolo persiano scompare. La capacità di risposta militare di Israele é infatti tale da azzerare qualsiasi velleità nucleare rudimentale di un paese dell’area. Esclude altresì l’uso di armi convenzionali che non riuscirebbero a neutralizzare le potente difesa israeliana. Inoltre, la presenza permanente della marina americana nel Golfo – con navi e sottomarini equipaggiati di missili con testate atomiche – rende ancora più improduttivo il dibattito. È necessario infine sottolineare che da più di venticinque anni, al di là della sua inaccettabile retorica ultra-nazionalista, la Repubblica islamica si muove all’insegna di una politica molto pragmatica, consapevole dei limiti da non superare. La dissuasione è un concetto che a Teheran capiscono molto bene.

Per contro, sostenendo finanziariamente vari gruppi armati, l’Iran ha la capacità di alimentare nella regione (per esempio in Afghanistan e in Iraq) uno stato di conflitto permanente a bassa intensità, come già fece durante l’occupazione israeliana del Libano. Washington lo sa e ha avviato intanto colloqui diretti con i mullah sul complesso problema della sicurezza in Iraq.

Un altro argomento per mettere in guardia dai propositi nucleari persiani è il potenziale effetto di proliferazione, ad esempio su paesi come la Turchia e l’Arabia Saudita. Bisognerebbe però spiegare che interesse avrebbe Ankara, membro della NATO che ambisce ad entrare nell’Unione europea, a compromettere il cammino verso l’adesione lanciandosi negli armamenti atomici. Per quanto riguarda l’Arabia Saudita, è totalmente dipendente da Washington, incapace quindi di decidere autonomamente su un eventuale potenziale nucleare. Paradossalmente la «bomba islamica», che tanto ci preoccupa, nell’area c’è già: in Pakistan, dove Bush non fa nulla per convincere Islamabad a rinunciarvi. E in India, dove il presidente americano ha sottolineato recentemente e non per caso la funzione stabilizzatrice di Nuova Dehli all’interno del continente asiatico.

Dominato com’è dal concetto di «minaccia», il dibattito sul nucleare iraniano si è ridotto a un mero esercizio «quantitativo», ovvero quanto manca agli ingegneri persiani per raggiungere il loro obiettivo. È una preoccupazione legittima, ma non sufficiente. L’importanza attribuita a questa variabile tecnologica ha condotto tutti gli interlocutori in un vero e proprio vicolo cieco. E gli iraniani hanno ripreso l’arricchimento dell’uranio e accusato la comunità internazionale di non aver mantenuto le promesse di maggiori coperture per la sicurezza di Teheran. Hanno ragione, l’Europa su questo fronte non è il partner giusto. Solo gli Stati Uniti infatti possono tranquillizzare gli ayatollah. La teoria – e la pratica – di un rovesciamento del regime è appannaggio degli attuali leader americani e sono loro che devono fornire le garanzie necessarie.

L’Europa si deve così confrontare con il vero nodo del problema: la natura politica dell’equazione nucleare persiana che vede contrapporsi da un lato l’Iran e dall’altro Israele e gli Stati Uniti. Ed è agendo su questa variabile che l’Europa può far evolvere la situazione.

Dal 21 gennaio del 1981, da un quarto di secolo, Teheran e Washington non hanno più contatti ufficiali. Quel giorno, gli ultimi ostaggi americani dell’ambasciata della capitale iraniana furono liberati dopo 444 giorni di prigionia e dopo negoziati molto laboriosi ad Algeri. Da allora americani e iraniani si parlano raramente e per interposta persona: i diplomatici svizzeri. L’assenza di contatti tra l’unica superpotenza al mondo e la più grande potenza regionale può avere ripercussioni drammatiche.

Si tratta di un’anomalia ancorata nel passato recente. Gli americani non sono mai riusciti a dimenticare l’umiliazione dell’occupazione della loro rappresentanza: i diplomatici statunitensi bendati costretti a sfilare davanti alle telecamere di tutto il mondo; la mortificazione di una missione di liberazione degli ostaggi fallita miseramente; gli insulti quotidiani degli studenti che occupavano il «nido di spie» e denunciavano l’imperialismo americano. D’altro canto anche gli iraniani convivono col trauma del colpo di Stato contro Mohammed Mossadegh, nell’agosto del 1953, quando Washington eliminò il popolare leader che aveva nazionalizzato il petrolio controllato sino allora dalle compagnie britanniche. Ancora oggi gli iraniani ricordano quell’episodio come la prova della assoluta volontà di dominio degli Stati Uniti.

Ma l’assenza di dialogo, come mi ha ribadito recentemente Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace, «è assurda». Alcuni tentativi sono stati fatti, ma con scarsi successi. Il presidente riformatore Mohammed Khatami, eletto nel 1997, aveva lanciato l’anno successivo il dialogo tra le civiltà. L’Amministrazione di Bill Clinton aveva persino ammesso che gli Stati Uniti si erano resi colpevoli di ingerenze indebite negli affari iraniani quando rovesciarono Mossadegh. Era il 2000.

Ma nel novembre dello stesso anno arrivò George W. Bush alla Casa Bianca, che l’11 settembre 2001 si è tramutato in «presidente di guerra». Teheran ha approfittato della campagna in Afghanistan contro i talebani per proporre la propria collaborazione. Il regime oscurantista di Kabul e i suoi affiliati di al Qaeda hanno sempre rappresentato un pericolo per il potere religioso sciita in Iran. I sunniti estremisti infatti considerano gli sciiti degli apostati che meritano solo la morte. Gli ayatollah vedevano quindi di buon occhio la loro cacciata. Poi ci fu il discorso di Bush davanti al Congresso nel gennaio 2002 e gli iraniani si ritrovarono iscritti insieme all’Iraq e alla Corea del Nord nell’«asse del male». Posizione poco invidiabile visto che equivaleva a una condanna a morte per il regime messo all’indice dagli USA.

Il pericolo si è però allontanato con il naufragio americano in Iraq. Nella primavera 2003 Teheran ha fatto pervenire a Washington, tramite gli intermediari svizzeri, una proposta dettagliata di riavvicinamento con l’eterno nemico. La proposta è stata però rigettata dagli Stati Uniti.

Solo nel marzo di quest’anno le due parti hanno accettato il principio di colloqui diretti, ma limitati alla sola questione irachena.

L’Europa deve inserirsi in questa breccia e convincere i suoi alleati americani che bisogna porre fine all’anomalia che dura da venticinque anni. Washington ha già dato prova della sua «realpolitik» sulla proliferazione nucleare, permettendo a India e Pakistan di dotarsi di armi atomiche. Oggi deve dimostrare lo stesso pragmatismo sul fronte diplomatico, ammettendo che la difesa dei suoi interessi nella regione – dall’Afghanistan all’Iraq, passando per il conflitto israelo-palestinese – dipende dalla ripresa di un dialogo serio con Teheran.

Allo stesso modo, Israele deve riconoscere che il rapporto privilegiato con gli Stati Uniti è necessario, ma non sufficiente per garantirle il ruolo di potenza indiscussa nell’area cui aspira. L’Europa è una dei grandi protagonisti e se Washington appare come l’interlocutore del «presente in crisi», l’UE con la sua vicinanza geografica e il suo peso economico può proporsi come partner di un «futuro in costruzione».

Certo, nessun presidente americano si assumerà il rischio di un’apertura verso la Repubblica islamica se gli ayatollah non cesseranno di minacciare Israele e di appoggiare gruppi armati ostili allo Stato ebraico come Hezbollah e Hamas. Ma non si può nemmeno accettare l’attuale situazione di stallo. È in gioco la pace in Medio Oriente e quindi la stabilità dell’intero pianeta.

L’Italia, insieme all’Europa, dovrebbe difendere il principio di un’ampia concertazione e farsi promotrice di una conferenza sulla sicurezza regionale «Golfo-Asia Centrale» per coinvolgere i paesi dell’area più Stati Uniti, Russia, Cina, Turchia e ONU. Il quadro multilaterale consentirebbe di aggirare l’ostacolo di un faccia a faccia tra Washington e Teheran, per ora improponibile.

Questo forum permetterebbe di approfondire le tante questioni in attesa di soluzione, dalla sicurezza allo sviluppo economico nella regione, dal terrorismo alla dottrina del cambiamento forzato di regime. Uno degli obiettivi sarebbe ovviamente prevenire lo sviluppo di armi nucleari in Medio Oriente, senza che l’eliminazione degli arsenali israeliani sia una precondizione ma senza nemmeno escluderlo.

La conferenza potrebbe rifarsi alla proposta di Mohamemed El Baradei, insignito del premio Nobel per la pace, di creare una «banca mondiale» per l’uranio arricchito dove i paesi dotati di centrali nucleari per uso civile possano rifornirsi. Questo consorzio, gestito da un organismo multinazionale, sarebbe la risposta collettiva a una sfida che riguarda tutti.

Sarà inoltre necessario aprire il dibattito sui principi democratici in Iran e in altri paesi della regione. «Lo sviluppo della democrazia è un affare interno degli iraniani. L’Occidente dovrebbe fornire il suo sostegno, senza decidere per loro come dovrebbe essere governato il loro paese » ha scritto recentemente Shirin Ebadi in un editoriale pubblicato dall’«International Herald Tribune», aggiungendo che «la democrazia offre la migliore delle garanzie nella misura in cui un governo sostenuto dalla maggioranza della popolazione si sentirà sufficientemente solido e forte da rinunciare alle sue ambizioni nucleari». Il premio Nobel ha proposto anche la nomina di un relatore dell’ONU sui diritti umani nella Repubblica islamica, che diventerebbe condizione imprescindibile per accedere ai programmi d’investimento della Banca mondiale e dei paesi europei.

Per trovare una soluzione pacifica a questo conflitto, è fondamentale conciliare inquietudini, ambizioni e interessi degli attori principali di questa aerea del mondo. All’Europa va il compito di creare un terreno fertile per il confronto, rifiutando il ricorso fatalistico all’uso della forza. Troppe infatti sarebbero le vittime di una imperdonabile guerra di religione. L’Italia deve essere capace di riprendersi un ruolo da protagonista nella politica estera e di sicurezza comune, ponendosi come intermediario proprio per la sua millenaria tradizione di feconde relazioni con le culture e i popoli del Medio Oriente. Questa è la risorsa più preziosa per annullare con il dialogo l’insidiosa teoria dello scontro di civiltà.

 

Bibliografia

1 G. E. Fuller, The Center of the Universe. The Geopolitics of Iran, Westview Press, San Francisco