Monsieur Travet nel cyberspazio

Written by Antonio Cordella e Fabio Scacciavillani Monday, 02 January 2006 02:00 Print

Cominciamo da un esempio. Ho sporto denuncia per lo smarrimento del passaporto in un commissariato di polizia. Il poliziotto ha acceso un computer, ha inserito i miei dati personali e le mie dichiarazioni in un modulo elettronico, poi ha stampato il documento su carta e ha quindi archiviato il documento cartaceo in un faldone pieno di altre denunce, riponendolo in un armadio. Infine, ha consegnato a me una copia (su carta) e ha cancellato il file della mia denuncia dalla memoria del computer. In questo esempio c’èun condensato di come la pubblica amministrazione (PA) utilizza oggi l’information technology (IT).

 

Cominciamo da un esempio. Ho sporto denuncia per lo smarrimento del passaporto in un commissariato di polizia. Il poliziotto ha acceso un computer, ha inserito i miei dati personali e le mie dichiarazioni in un modulo elettronico, poi ha stampato il documento su carta e ha quindi archiviato il documento cartaceo in un faldone pieno di altre denunce, riponendolo in un armadio. Infine, ha consegnato a me una copia (su carta) e ha cancellato il file della mia denuncia dalla memoria del computer. In questo esempio c’èun condensato di come la pubblica amministrazione (PA) utilizza oggi l’information technology (IT).

In sostanza, il poliziotto ha usato il computer come una macchina da scrivere molto costosa. Non ha archiviato il documento in un database elettronico, per cui quando dovrò fare richiesta per il nuovo passaporto, insieme ad altri documenti, sarò costretto a portare una copia cartacea della denuncia, nonostante l’ufficio che rilascia i passaporti e l’ufficio dove ho fatto la denuncia distino solo pochi metri. L’idea che si possa archiviare elettronicamente su un database la denuncia per poi ritrovarla con una semplice chiave di ricerca e spedirla elettronicamente ad un altro ufficio, dove è richiesta per altre pratiche, sembra estranea all’attuale razionalità burocratica.

Questo contributo intende offrire una prospettiva su come l’informatizzazione della PA (che chiameremo per brevità e-government) possa contribuire a migliorare e ridefinire le attuali logiche sottostanti all’azione dell’apparato statale. In particolare, sosterremo che il passaggio all’e-government è un’occasione storica per riformare dalle fondamenta l’impianto organizzativo dello Stato. La democrazia si fonda infatti su regole che in concreto si esplicano nell’interazione tra i soggetti pubblici e i singoli mediante l’interfaccia della PA. Se questa interazione è difettosa o, peggio, vessatoria nei confronti dei cittadini, della democrazia resta solo un concetto vacuo. Essa diventa un sistema arbitrario e persecutorio in un involucro di formalismo.

Dal nostro punto di vista, innestare l’IT su una PA organizzata secondo un modulo verticistico e burocratico di stampo ottocentesco, senza ragionare sul perché queste logiche esistano, e su quale sia il loro ruolo nel processo democratico, produrrà pochi benefici rispetto alle potenzialità.

Questo contributo si articola in tre punti: 1) un breve excursus storico sull’eredità dello Stato ottocentesco che grava sull’organizzazione della cosa pubblica; 2) una proposta radicale sull’introduzione dell’e-government; 3) e, infine, alcune considerazioni sulla partecipazione dei cittadini e sulla privatizzazione dei servizi pubblici.

 

Il peso dell’eredità

L’attuale impianto organizzativo della PA venne istituito nel XIX secolo, quando lo Stato aveva delle funzioni relativamente semplici e delimitate: giustizia, difesa, sistema fiscale, rapporti internazionali, anagrafe, catasto, strade e poco altro.

L’organizzazione verticistica e compartimentalizzata fu configurata su quella dell’esercito, che era la struttura pubblica più vasta e complessa del tempo. Questo modello era, ed è ancora oggi, in grado di operare in modo accettabile quando bisogna applicare procedure standardizzate per gestire un enorme volume di servizi semplici e indifferenziati, destinati a vaste categorie di soggetti. Insomma, la PA di stampo ottocentesco, sopravissuta fino ai giorni nostri, era ispirata ad una specie di taylorismo ante litteram, applicato all’offerta di servizi pubblici.

Questa «catena di montaggio» per attività routinarie, risulta inadeguata per funzioni sofisticate, complesse e mirate a gruppi o individui specifici, come quelle che lo Stato ha cercato di erogare nel corso del XX secolo: istruzione, sanità, welfare e pensioni, politica monetaria e creditizia, regolamentazione dei mercati, formazione professionale, tutela dei consumatori, politica industriale, e così via, richiedono un approccio di tipo flessibile e articolato. In breve, procedure standard e regole burocratiche rigide non sono sempre compatibili con uno Stato moderno che si è fatto carico di funzioni vaste, complesse e diversificate, soprattutto per soddisfare bisogni dei ceti più deboli.

C’è un altro frutto avvelenato della mentalità autoritaria cui si ispira il modello ottocentesco. È un aspetto inquietante, perché provoca tutta una serie di distorsioni nel rapporto tra cittadini e PA, e quindi nell’esercizio concreto dei diritti democratici: la predilezione della PA per la segretezza.

I governi, e quindi i loro bracci esecutivi, hanno sviluppato un istinto alla riservatezza, sia nei processi decisionali, sia nell’implementazione delle decisioni. Ciascuna branca della PA custodisce gelosamente le informazioni e le protegge da qualsiasi accesso esterno. In un’amministrazione che non viene giudicata dall’efficienza e dalla capacità di soddisfare le esigenze dei cittadini, l’accesso all’informazione diviene un’arma per lotte di potere interne.1 La sensazione è che l’opacità sia considerata una virtù, oltre che un mezzo per prevalere nell’esercizio del potere. Da queste abitudini si è rafforzata la convinzione che è più facile governare attraverso restrizioni sul flusso di informazioni piuttosto che attraverso metodi che garantiscono la fluidità del circolo informativo. Fornire spiegazioni al pubblico su aspetti critici – come l’attribuzione di responsabilità degli uffici, le procedure di implementazione delle politiche pubbliche, le cifre di spesa e i costi di ciascun dipartimento, le statistiche sui tempi di disbrigo delle pratiche – è considerato dai dirigenti un pericoloso attentato alle proprie prerogative.

Per concludere questa sezione, è necessario spendere qualche parola sul fatto che in Italia l’inadeguatezza del modello ottocentesco è aggravata dal retaggio di una ben precisa cultura. La classe dirigente italiana, non solo quella politica, ma ai gradi alti e bassi della burocrazia e delle istituzioni, è intrisa di un humus legalistico-formale tanto insulso quanto difficile da scalfire.

È tipico di questa mentalità affrontare qualsiasi problema con una legge, un regolamento, una direttiva o una circolare. Dell’applicazione in concreto di questi provvedimenti, di quello che in inglese si chiama enforcement, cioè la capacità di far rispettare le norme, della ragionevolezza delle misure, del rapporto costo/beneficio, e del raggiungimento degli obiettivi prefissati nessuno si preoccupa. La verifica dei risultati per la burocrazia italiana è un aspetto sconosciuto. Al contrario, si ritiene cruciale poter dimostrare di aver seguito alla lettera la procedura. Prevale il feticcio del timbro sul documento, il culto della raccomandata con ricevuta di ritorno, la citazione accurata della circolare. Quanto sia efficace o dispendiosa la procedura o quanto costi apporre un timbro è un problema che la cultura legalistico-formale semplicemente ignora. Infine, sopra tutto prevale l’istinto di conservazione: le procedure e le abitudini non debbono cambiare in funzione delle innovazioni, delle esigenze e delle necessità dei cittadini.2 Sono questi ultimi a doversi adeguare alle convenienze della burocrazia.

In conclusione, la burocrazia italiana è evoluta irrigidendosi in una logica legale-razionale antiquata. Certo, non va dimenticato che tale logica era tesa a garantire l’uniformità di trattamento dei cittadini, cioè uno dei pilastri sui cui si fonda ogni sistema democratico. La PA va organizzata e regolata con norme legali con l’obiettivo di garantire la neutralità politica degli apparati e la natura esecutoria, non decisionale, delle proprie azioni.

L’e-government deve quindi essere pensato e sviluppato distinguendo gli elementi che si vogliono riformare, e quelli che invece si vogliono mantenere a prescindere dal potenziale funzionale dell’IT. Insomma, per noi l’e-government, come vedremo nella sezione successiva, dovrebbe condurre non alla soppressione delle regole, ma a regole, normative e procedure più snelle per costruire un sistema democratico più giusto, imparziale ed efficiente.

 

L’e-government del futuro

Esistono due visioni o, se vogliamo, due strategie nello sviluppo dell’e-government. La prima, minimalista, di vago sapore gattopardesco, si focalizza su aspetti meramente migliorativi: in sostanza lo sviluppo degli sportelli elettronici e la maggiore efficienza dei back offices. Alla base di questa visione sussiste l’idea che basterà creare il sito web per ogni ministero o ente, mettere a disposizione del pubblico qualche modulo on line e dare la possibilità di inviare documenti e richieste via internet per soddisfare i cittadini. Un’idea che pecca fortemente di ingenuità, perché non affronta i nodi strutturali e non discute le ragioni per cui il sistema amministrativo oggi opera in modo sbagliato.

Vorremmo concentrarci su uno dei grandi nodi: la mancanza di coordinazione e di flussi informativi tra i vari uffici. Questa deficienza impone al cittadino l’onere di procurarsi documenti, attestati, certificati e informazioni varie di cui la pubblica amministrazione è già in possesso e a cui al giorno d’oggi dovrebbe essere in grado di accedere e di verificarne l’accuratezza in tempo reale.

L’esempio del passaporto, citato all’inizio, è paradigmatico (anche se certo non tra i più gravi). Neanche all’interno dello stesso commissariato si riescono a far circolare le informazioni, per cui tocca al cittadino essere l’anello di tramite tra i vari uffici. Paradossalmente, la PA obbliga il cittadino a colmare i buchi di comunicazione fra i diversi uffici, e quindi a supplire alle proprie care n ze organizzative. Se questo poteva avere una logica in un mondo in cui la tecnologia di comunicazione era rudimentale o inesistente, oggi questo stato di cose è del tutto intollerabile.

La visione radicale si fonda sull’idea che l’introduzione su vasta scala dell’IT nel settore pubblico debba essere l’occasione per cambiare completamente il modus operandi della PA, scardinandone gli aspetti dell’impianto ottocentesco che oggi non sono più tollerabili, ma senza ridimensionarne la portata in termini di garanzia democratica. Il funzionamento della PA va quindi riformato su basi innovative, trasformandone la cultura e la struttura, ma non la funzione di garante dell’equità amministrativa del rapporto fra Stato e cittadini.

In altri termini, la visione radicale considera l’e-government come l’occasione storica per ripensare il funzionamento della PA e in prospettiva per introdurre forme di democrazia partecipativa alla formulazione e all’implementazione delle politiche pubbliche.

In questa visione l’approccio non può essere graduale, pena l’impantanarsi in una miriade di micro riforme scoordinate, che devono invece, per loro natura, essere pensate in maniera olistica, cioè globale. Una politica di grandi trasformazioni dovrebbe ridisegnare radicalmente il sistema e ricostruirlo sulla base di due obiettivi chiari:

1) la comunicazione fra uffici diversi della PA non può essere mediata dall’azione del cittadino, ma deve avvenire di regola attraverso internet. I documenti utilizzati dalla PA per espletare la funzione amministrativa devono essere recuperati, via internet dagli uffici che ne hanno bisogno, e non dai cittadini. Tutte le informazioni, devono essere disponibili on line, mentre tutte le richieste possono essere formulate esclusivamente via internet;

2) se un cittadino preferisce l’interazione con una persona fisica (anche per telefono), dovrebbe esistere in ogni edificio pubblico – comune, scuola, tribunale ecc. – uno sportello unico (il front office della PA) dove il cittadino si reca per qualsiasi pratica, rilascio del passaporto, iscrizione all’università, richiesta di sussidi, cambio di residenza, e così via. Il funzionario preposto allo sportello dovrà essere in grado di espletare la pratica senza richiedere al cittadino alcuna compartecipazione al processo. Fornendo via internet un particolare codice (tipo il codice fiscale) ogni funzionario della PA dovrebbe essere in grado di ottenere tutte le informazioni in possesso della PA, che riguardano il cittadino a prescindere dall’ufficio specifico con cui il cittadino sta interagendo.

Come raggiungere questo obiettivo? Quando parliamo di e-government dobbiamo mantenere distinte le due principali attività che si nascondono dietro il processo di informatizzazione della pubblica amministrazione:

1) l’automazione delle attività di back office degli uffici pubblici – che qui chiameremo «digitalizzazione» dei processi amministrativi;

2) l’interfaccia tra cittadini e pubblica amministrazione, che può essere a sua volta meramente elettronica («virtualizzazione» dello sportello), che, se gestita da un funzionario, chiameremo il front office della PA. La digitalizzazione dei processi amministrativi permette la velocizzazione delle attività, e quindi maggiore efficienza nell’erogazione dei servizi e cancella il bisogno della partecipazione del cittadino nel processo amministrativo.3

La digitalizzazione del processo permette di supportare l’interscambio di documenti fra uffici senza avere più il bisogno del «cittadino postino». Ovviamente, la digitalizzazione del processo amministrativo richiede che vengano ridefinite le attività che sono necessarie e fondamentali affinché si porti a termine una particolare pratica. Venendo a mancare il cittadino che interfaccia i vari uffici amministrativi, è necessario che gli uffici stessi si riorganizzino per poter lavorare in maniera congiunta. Ogni pezzo dell’amministrazione dovrà condividere tutte le informazioni con ogni altro ufficio in tempo reale.

In altre parole, nella visione radicale il cittadino ignorerà completamente le suddivisioni interne della PA. Quando chiederà al funzionario del front office, per esempio, il rinnovo della patente, ignorerà che esiste la Motorizzazione civile, l’Anagrafe, il Tribunale e la ASL. Sarà il funzionario a procurarsi tutti i documenti on line dai database di queste branche dell’amministrazione. Se ci fosse un intoppo, sarà il funzionario a doverlo risolvere, non il cittadino. L’eventuale pagamento dovrebbe potersi effettuare tramite carta di credito, telefono cellulare o altro mezzo elettronico, cancellando pratiche medievali come le marche da bollo e senza necessità di recarsi negli uffici postali per pagamenti su conti correnti.

Chi pensa che sia impossibile, ignora che questo tipo di organizzazione esiste già da molti anni nel settore privato. Quando andiamo in banca, ad esempio, per chiedere un mutuo, ci rivolgiamo ad un impiegato che istruisce la pratica e ci fornisce una risposta. Ignoriamo come la banca sia organizzata al proprio interno, quali dipartimenti la esaminano, le operazioni di tesoreria necessarie quando il prestito è erogato, chi stampa l’assegno e cosa succede quando l’assegno è incassato da colui al quale lo inviamo.

La visione radicale presuppone che vi sia un forte centro di coordinamento di tutto l’apparato pubblico centrale e periferico. In pratica, quello che oggi è il ministero della funzione pubblica dovrebbe avere i poteri e l’autorità per imporre a tutte le branche dello Stato di comunicare e scambiare le informazioni in tempo reale. Dovrebbe avere funzioni di controllo sulle procedure in modo che non confliggano e dovrebbe avere al proprio interno un ombudsman, cioè un difensore civico che si occupi dei reclami e delle inefficienze riscontrate dai cittadini, e che quindi da un lato li tuteli dalle inadempienze della burocrazia e dall’altro proponga dei rimedi alle storture riscontrate.

In sostanza organizzare il back office dell’e-government richiede la ridefinizione dei compiti e delle norme che regolano il funzionamento degli uffici amministrativi sotto un organismo centralizzato che armonizzi le procedure, elimini gli ostacoli, e controlli l’esecuzione, sanzionando dove necessario. Tutto questo senza snaturare la logica normativa che garantisce l’imparzialità e l’uniformità di trattamento.

 

L’e-government , partecipazione e privatizzazione

Abbiamo sottolineato che le funzioni espletate dalla PA costituiscono l’essenza stessa dello Stato democratico. Su questo terreno vorremmo affrontare altri due aspetti connessi: la partecipazione e il controllo dei cittadini sulle scelte pubbliche e la privatizzazione dei servizi pubblici.

Oggi ai cittadini manca del tutto una forma di controllo democratico sull’operato degli uffici pubblici. Innanzitutto, non esiste un soggetto preposto a raccogliere il feedback dei cittadini. Non esiste una funzione di controllo sulla capacità dei vari apparati pubblici di raggiungere gli obiettivi prefissati. A parte i TAR, che giudicano spesso in base a formalismi bizantini o capziosità anacronistiche, manca completamente un organismo cui il cittadino possa rivolgersi per denunciare inadempienze discriminazioni. Al contrario, in un sistema democratico gnuno deve avere il potere, sia come singolo che in gruppo, di contribuire in modo continuo (e non solo ogni cinque anni) al controllo ella gestione della cosa pubblica, monitorandone facilmente il funzionamento, la trasparenza e l’efficienza. Insomma, ogni sistema burocratico dovrebbe fornire le informazioni che ne permettano il onitoraggio continuo.

L’e-government dovrebbe costituire il catalizzatore per una partecipazione più matura dei cittadini alla gestione della cosa pubblica, facilitando l’interazione tra istituzioni e singoli sia nell’erogazione di servizi, che nella proposizione di politiche, che nel monitoraggio del suo funzionamento. La diffusione dell’IT nel settore pubblico dovrebbe ribilanciare i rapporti di potere dagli apparati burocratici a favore dei cittadini, stimolandone la partecipazione ai processi propositivi.

Spesso si confonde l’e-government con il proposito di tagliare i costi del settore pubblico e, in questa vena, lo si confonde con la privatizzazione dei servizi. Innanzitutto non è chiaro che la privatizzazione apporti benefici ai cittadini. Basti citare l’esempio delle Autostrade che, da quando sono passate in mani private, hanno aumentato i pedaggi (che invece sarebbero dovuti diminuire) e non hanno fatto alcun investimento di rilievo come previsto dagli accordi.

Una riforma radicale del settore pubblico deve seguire una diversa logica rispetto a quella che oggi spesso domina le riflessioni sul ruolo dell’e-government. Per essere espliciti, si è arguito che il meccanismo di controllo e regolamentazione tipico del settore privato, fosse più efficiente nel regolare l’azione della PA. Seguendo questo approccio, il New Public Management (NPM) ha suggerito di riformare l’azione della PA, e quindi i meccanismi che ne regolano il funzionamento, seguendo le logiche tipiche del mercato concorrenziale, dimenticando che l’offerta dei servizi pubblici spesso non si può ricondurre ad una mera questione di efficienza. Un’istituzione scolastica volta a massimizzare il profitto tenderebbe a concentrasi sui talenti migliori e lascerebbe da parte i meno dotati e i meno abbienti. Sarebbe sicuramente più efficiente, ma probabilmente dal punto di vista della collettività non avrebbe ottemperato al principio di eguaglianza.

La digitalizzazione del processo amministrativo deve quindi supportare, stimolare e aiutare a funzionare meglio l’apparato amministrativo, piuttosto che snaturarne la funzione.

 

Note

1 Un altro esempio: ogni italiano ha un codice fiscale. Questo numero non solo è custodito in un database centralizzato del ministero delle finanze, ma è anche calcolabile attraverso un semplice algoritmo. Eppure, inevitabilmente, ogni volta che abbiamo a che fare con tasse, balzelli, INPS e quant’altro, il codice fiscale ci viene richiesto come se questa informazione la conoscesse solo e soltanto il cittadino.

2 Per esempio gli uffici pubblici ancora oggi rifiutano di accettare le fotocopie di documenti. Per non parlare dell’autocertificazione, che solo dopo tre decenni dall’introduzione comincia ad essere accettata per quanto di malavoglia.

3 Per di più il cittadino è spesso non solo costretto a trasmettere le informazioni tra i vari apparati pubblici, ma quando le procedure di due spezzoni della PA sono incompatibili, tocca al cittadino appianare le divergenze facendosi carico di trovare una soluzione che soddisfi entrambi (e non di rado anche più di due apparati).