Una strategia contro il terrorismo

Written by Carlo Pinzani Monday, 02 January 2006 02:00 Print

I documenti che seguono costituiscono un rilevante contributo alla elaborazione di una politica internazionale e di sicurezza delle forze progressiste delle due sponde dell’Atlantico. Il primo, sottoscritto da ventidue esponenti ed esperti democratici americani, si prefigge di definire una politica sicurezza nei confronti della minaccia terroristica che è stata ed è tuttora considerata capace di portare colpi catastrofici in tutto il mondo. Il secondo riassume egregiamente un seminario svoltosi a Roma ai primi di novembre con la partecipazione di politici ed esperti europei e americani.

 

I documenti che seguono costituiscono un rilevante contributo alla elaborazione di una politica internazionale e di sicurezza delle forze progressiste delle due sponde dell’Atlantico. Il primo, sottoscritto da ventidue esponenti ed esperti democratici americani, si prefigge di definire una politica sicurezza nei confronti della minaccia terroristica che è stata ed è tuttora considerata capace di portare colpi catastrofici in tutto il mondo. Il secondo riassume egregiamente un seminario svoltosi a Roma ai primi di novembre con la partecipazione di politici ed esperti europei e americani.

Dal dibattito politico in corso negli Stati Uniti emerge, a proposito della lotta al terrorismo, un panorama abbastanza sconfortante: in forme e misure diverse, entrambi gli schieramenti politici non sono in grado di affermare con sufficiente sicurezza che il paese è al riparo da catastrofi provocate dal terrorismo. Non stupisce che questo riconoscimento avvenga ad opera dei Democratici che, non avendo responsabilità di governo, incontrano il solo limite del patriottismo alla loro critica, ma esso è accettato, a denti stretti e con la puntigliosa rivendicazione dei progressi compiuti, anche dai Repubblicani e, in minor misura, dalla stessa Amministrazione.

D’altra parte, è comprensibile che, di fronte a problematiche ormai annose ed estremamente complesse, un periodo di quattro anni risulti insufficiente per una soluzione definitiva – che probabilmente non esiste, se non nel periodo lungo – o anche soltanto tranquillizzante. Tanto più che le prime risposte sono state del tutto tradizionali: di fronte alla minaccia asimmetrica rappresentata dal terrorismo islamico si è risposto con la guerra: moderna quanto si vuole, ma certo inadeguata. E se questa reazione poteva essere comprensibile (ed è stata compresa) nel caso dell’Afghanistan, data la stretta connessione del governo dei Talebani con al Qaeda, la decisione d’invadere l’Iraq – quali che ne siano state le motivazioni – è stata disastrosa proprio sul piano della lotta al terrorismo, come cominciano ad ammettere anche esponenti repubblicani. La frammentarietà delle notizie che provengono dall’Afghanistan non riesce a dissipare la fastidiosa impressione che il controllo del territorio ad opera del contingente internazionale che sostiene il governo Karzai non si estenda molto al di là della capitale e delle città maggiori; il resto del paese è controllato dalle organizzazioni tribali e dai «signori della guerra», che stanno consentendo un ritorno in forze degli integralisti. La situazione irachena è sotto gli occhi di tutti e l’indubbio passo avanti rappresentato dalle elezioni parlamentari, dopo l’approvazione della Costituzione, non appare certo risolutivo.

Coloro che condividono queste analisi hanno anche il dovere di indicare forme alternative di lotta al terrorismo, in forme anche più stringenti di quanti invece continuano a privilegiare gli strumenti tradizionali della potenza militare. Ed è quanto efficacemente fanno gli autori del documento democratico, sia con la corretta distinzione tra controterrorismo tattico e controterrorismo strategico che emerge anche dal seminario romano, sia mediante l’individuazione di ulteriori iniziative politiche di più ampio respiro. La distinzione riguarda, da un lato, l’azione di polizia interna ed internazionale e, dall’altro, la più vasta dimensione di politica internazionale, che non esclude le contromisure militari, ma non può esaurirsi in esse.

Sul primo terreno, entrambi i documenti indicano con chiarezza una serie di iniziative per garantire la sicurezza degli Stati Uniti e dell’Europa nei limiti rigorosi del rispetto delle regole del gioco, che negli ordinamenti democratici comportano necessariamente il rispetto della legislazione vigente all’interno e di quella degli alleati nell’azione internazionale.

Sul piano dell’azione antiterroristica interna, dopo lo stillicidio di rivelazioni sul ricorso alla tortura e ai trattamenti inumani inflitti a veri o presunti terroristi, sta montando una polemica sulla attribuzione di competenze degli apparati d’intelligence nel controspionaggio interno e sui poteri del presidente di modificare gli assetti legislativamente sanciti. Si tratta certamente di una problematica d’importanza vitale che, avendo potenziali implicazioni di carattere costituzionale circa i poteri del presidente come comandante in capo, potrebbe addirittura essere trasferita sul piano giudiziario. Basti pensare, a questo proposito, all’accanimento con cui furono perseguiti, ai loro tempi, Nixon e Clinton per peccati sicuramente più veniali di quelli di cui si comincia a dubitare possa essersi macchiato Bush.

Ma, al di là degli sviluppi di questa vicenda, che per il fatto di essere troppo recente non poteva essere considerata nei nostri documenti, è certo che il rispetto dei limiti della legge è essenziale nella lotta al terrorismo condotta in nome della difesa dei valori democratici, anche perché è profondamente sbagliato considerare disarmate le democrazie che, tutte, hanno delle regole nell’uso della repressione del terrorismo. Ed è nei limiti di quelle regole che l’azione preventiva o repressiva può essere più o meno efficace: non è certo travalicando quei limiti che l’efficienza complessiva aumenta. Come del resto era stato già raccomandato dalla Commissione del Congresso che aveva indagato sull’11 settembre, sforzi molto maggiori dovrebbero esser fatti nel senso del massimo possibile coordinamento tra i diversi apparati, che invece appaiono ancora esserne drammaticamente carenti. La linea da seguire riguardo all’azione antiterroristica internazionale indica che la solidità delle alleanze è veramente essenziale, e la rete esistente ha sostanzialmente funzionato nella vicenda delle renditions condotte all’estero dagli apparati di sicurezza americani. Le smagliature che si sono verificate appaiono riconducibili soprattutto ad un eccesso di sicurezza di questi ultimi e v’è da chiedersi se il rigoroso rispetto delle norme internazionali, al pari dell’adesione degli Stati Uniti al tribunale penale internazionale, non sarebbero utili agli stessi Stati Uniti, se non altro per ottenere un migliore rendimento dai loro apparati di prevenzione e di repressione. Semmai, su questo piano, sarebbe opportuno non servirsi di quei governi alleati, magari anche realmente fedeli, ma che, spesso a ragione, sono percepiti dall’integralismo islamico come regimi tirannici e corrotti. Le «coalizioni dei volenterosi» mobilitate per perseguire l’espansione della democrazia non possono spingersi fino a comprendere dei «bastardi» alla sola condizione che siano i «nostri bastardi», per riprendere la terminologia usata da Kissinger nei confronti di Pinochet.

Questo discorso introduce al più ampio dibattito di politica internazionale, che è il solo sul quale, in tempi non brevi, la lotta al terrorismo potrà essere vinta. È su questo terreno che le posizioni politiche dei due grandi partiti americani divergono radicalmente, in un modo che non può mancare di destare preoccupazioni anche all’estero. Se sinora il contrasto è stato in qualche modo contenuto, soprattutto per il senso di responsabilità dei democratici, è abbastanza prevedibile che l’avvicinarsi delle elezioni di mid-term e, poi, della scadenza del secondo mandato di Bush lo renderanno dirompente.

Quasi contemporaneamente alla elaborazione dei documenti qui riportati, la rivista conservatrice «Commentary» pubblicava le risposte ad un questionario sulla dottrina Bush, vale a dire sul programma di politica internazionale del presidente texano, fondato sull’idea della lotta al terrorismo attraverso l’uso della forza in tutte le sue forme e mediante la diffusione della democrazia, in particolare nel Medio Oriente e nel mondo islamico. Poiché i trentasei esperti – dalla rivista definiti leading thinkers – appartengono in grande maggioranza allo schieramento conservatore, dalle loro risposte si possono dedurre le motivazioni che stanno alla base delle scelte attuali dell’Amministrazione e che esprimono una serie di opzioni assai diversificate. Per quanto non riassumibili in questa sede, le indicazioni politiche fornite dalla maggioranza degli interpellati sono accomunate da una visione ideologica del terrorismo islamico, che, in un modo o nell’altro, rinvia alla concezione dello scontro di civiltà, privilegiando lo strumento militare e mostrando grande fiducia nella possibilità che esso possa essere utilizzato in modo da fornire il presupposto per sostituire con la democrazia l’islamo-fascismo, come eccentricamente alcuni degli interpellati definiscono l’integralismo islamico. In questa visione non v’è spazio né per il multilateralismo né per alleanze non strumentali, fondata com’è sulla fiducia nell’eccezionalismo americano e sulla convinzione che la superiorità dei valori basti da sola ad assicurarne il successo.

Assai più articolata e, soprattutto, più convincente per tutti coloro che desiderano la sconfitta del terrorismo è la visione espressa dai progressisti che, muovendo dal corretto presupposto che l’integralismo islamico è un movimento politico-religioso interno al mondo musulmano, si prefigge di batterlo sul terreno politico, riducendo il consenso che esso ha saputo coalizzare attorno ai propri obiettivi più radicali. A questo fine viene correttamente intrapresa la strada di introdurre distinzioni non solo all’interno del mondo musulmano, ma anche dello stesso integralismo al fine di individuare nella loro componente moderata degli alleati politicamente utili, usando un approccio il più possibile differenziato. Da questo punto di vista, per chi si prefigge realisticamente di diffondere la democrazia, gli islamisti moderati sono alleati assai più validi dei vari Mubarak o Musharraf, o della stessa dinastia saudita. L’inimicizia degli islamici nei confronti degli Stati Uniti non è in modo prevalente fondata su motivi religiosi e ideologici – che pure sono rilevanti – ma politici. Nella visione integralista, gli americani occupano, direttamente o per interposti clienti, i principali territori sacri all’Islam a cominciare dalla penisola arabica e proseguendo con l’Iraq e la Palestina: si tratta certamente di un modo unilaterale di vedere le cose, ma è veramente difficile affermare che esso sia del tutto privo di fondamento.

E dato che l’ipotesi della diffusione della democrazia comporta l’accettazione del fatto che eventuali, più o meno future, libere elezioni in paesi islamici possano dare la maggioranza agli integralisti non è certo insensato individuare sin d’ora possibili interlocutori in quello schieramento, tanto più che la stessa ipotesi potrà essere realizzata soltanto se i valori democratici saranno accettati dalla gran parte dei popoli interessati. Questa consapevolezza comporta che il processo di modernizzazione del mondo musulmano non solo richieda tempi molto più dilatati di quelli presi in considerazione dalla cosiddetta «dottrina Bush», ma che costituisca anche «l’aspetto più difficile di una strategia antiterrorismo». Una tale trasformazione riprende in pieno le tematiche del superamento, o quanto meno dell’attenuazione, delle enormi differenze di sviluppo economico e sociale che caratterizzano il mondo contemporaneo ed attorno alle quali ruota da decenni il dibattito politico internazionale. Ed in effetti è questo il solo modo concreto ed efficace per promuovere la democrazia.

A questo proposito, v’è soltanto da sottolineare positivamente la singolarità del fatto che in un documento tipicamente geopolitico e legato alle tematiche attuali delle relazioni internazionali vengano evocate questioni che, di solito, sono confinate al dibattito socio-economico. Abitualmente avviene il contrario: nelle sedi di discussione economicosociali, tra i rischi che l’ineguaglianza dello sviluppo fa correre all’umanità si denunciano la moltiplicazione e l’inasprimento dei conflitti. E, anche se nel documento dei Democratici le Nazioni Unite brillano per la loro assenza, questo approccio, assieme al forte rilancio delle alleanze degli Stati Uniti e, in generale, del multilateralismo, ne costituisce uno dei maggiori punti di forza.

Questa conclusione viene affinata nel resoconto del dibattito del seminario romano, ove è stata indicata una via, difficile da percorrere ma concreta, attraverso la quale perseguire la trasmissione dei valori democratici all’integralismo. Questa strada passa attraverso lo sforzo che i paesi dell’Unione europea debbono compiere per l’integrazione delle rilevanti comunità islamiche esistenti sul suo territorio. Soltanto attraverso il convincimento di tali comunità si potrà sperare di indurre la cultura islamica a fare seriamente i conti con la necessità di adattare l’Islam al mondo contemporaneo, per fare poi affidamento sulla diffusione nei paesi islamici di questa presa di coscienza giovandosi soprattutto sulle capacità inclusive che l’Unione europea ha dimostrato di possedere nei confronti dell’esterno.

Le difficoltà incontrate in questo percorso includono il riconoscimento della gravità del fatto che gli attentati di Madrid e di Londra sono, in misura diversa, attribuibili a musulmani «europei» ed anche della profondità del disagio espresso dai casseurs delle periferie francesi. Esse sono ulteriormente aumentate se si tiene conto della corretta affermazione fatta nel corso dello stesso seminario da un partecipante inglese. Questi ha correttamente ricordato agli altri europei come l’attuale governo di Blair rappresenti il massimo grado di filoeuropeismo possibile oggi in Gran Bretagna. Perché l’Unione europea possa diventare l’auspicato veicolo per la promozione della democrazia nel mondo islamico è preliminarmente necessario un chiarimento profondo nelle relazioni transatlantiche che difficilmente potrà avvenire fin quando prevarrà, di là e di qua dell’Atlantico, la «dottrina Bush»

Il fatto è che si tratta di un programma ambizioso e sicuramente di lunga lena, mentre i problemi della lotta al terrorismo sono immediati e pressanti, in modo tale che è necessario individuare da subito alcune priorità. Sicuramente è giusto invocare il raddoppio degli sforzi per rilanciare il processo di pace in Palestina, anche se l’attuale e drammatica carenza di leadership, tanto in Israele quanto tra i palestinesi, rischia di far apparire superato il momento favorevole seguito all’elezione di Abu Mazen e al ritiro israeliano da Gaza.

Il punto più delicato di tutta la situazione, peraltro, continua ad essere l’Iraq, a proposito del quale anche nel documento dei democratici comprensibilmente pesano le preoccupazioni immediate per il consenso interno. Anche prescindendo completamente dalle responsabilità delle scelte passate, appare difficilmente contestabile che in Iraq l’amministrazione Bush si sia andata a cacciare in un ginepraio intricatissimo, in una sorta di no win game, nel quale l’alleanza tra i ribelli sunniti e la rete terroristica internazionale riesce perfino a graduare la violenza in funzione delle scadenze politiche e dove i ripetuti esercizi elettorali, positivi quanto si voglia ma sinora privi di conseguenze politiche concrete, rischiano di screditare la prassi democratica ancor prima che si affermi.

La teorica soluzione di uno Stato iracheno solidalmente federale rientra nel regno della più pura utopia, dal momento che nessuna delle componenti autoctone vi ha un reale interesse, anche senza considerare le implicazioni internazionali di una siffatta soluzione, tanto per quanto riguarda il rapporto della comunità sciita con l’Iran, quanto per l’enormità dei problemi che una reale autonomia curda, anticipatrice dell’indipendenza, porrebbe a tutti gli Stati limitrofi.

E tuttavia una soluzione va trovata, se non altro perché per l’integralismo qaedista il successo sarebbe un propellente almeno tanto forte quanto la frustrazione, e un ritiro americano dall’Iraq in condizioni prossime alla sconfitta sarebbe una tragedia non solo per l’America, ma anche per tutte le forze, interne ed esterne all’Islam, che si oppongono alla violenza terroristica. Per il momento, l’exit strategy che comincia ad essere presa in considerazione è quella legata alle scadenze politiche interne agli Stati Uniti, con graduali e limitati ritiri di truppe nella speranza sempre più illusoria che, in Iraq, in presenza delle truppe americane, si possa raggiungere un livello di coesione sufficiente ad isolare la ribellione. Né sembrano molto più promettenti i recentissimi tentativi di trattare con la componente sunnita della guerriglia per indurla ad isolare il terrorismo che si richiama ad al Qaeda: un’operazione del genere potrebbe riuscire soltanto in assenza di truppe straniere. Per quanto occorra guardarsi dalle analogie, non si può dimenticare che il «decente intervallo» ottenuto dalle Amministrazioni repubblicane degli anni Settanta del Novecento tra il ritiro americano e la sconfitta del Vietnam del Sud non valse certo a mascherare la sconfitta degli Stati Uniti.

Occorrerebbe, invece, un coraggio molto maggiore e procedere ad un rapido e completo ritiro delle truppe americane subito dopo la costituzione di un governo non più provvisorio e munito della fiducia di un parlamento eletto. Se si riuscirà a formare un governo del genere, questo potrà essere considerato un risultato talmente significativo da poter esser presentato come un obiettivo di guerra conseguito e quindi, quanto meno, come una vittoria parziale. Contemporaneamente, gli Stati Uniti dovrebbero attivare forti, autorevoli ed imparziali meccanismi di mediazione internazionale tra le diverse comunità irachene, anche senza ricorrere, per evitare il ritorno di fastidiose polemiche, allo schermo delle Nazioni Unite. Certo, una soluzione del genere non potrà essere indolore, ma, diversamente dalla situazione attuale e dalla prosecuzione più o meno limitata del conflitto, potrà dare un serio contributo alla lotta contro il terrorismo, invece di essere un aiuto tanto involontario quanto efficace alla sua espansione.