Sindacati e welfare state: il sistema Ghent

Written by Salvo Leonardi Monday, 02 May 2005 02:00 Print

A fronte della crisi – a volte anche molto seria – che ha investito in questi ultimi vent’anni i livelli di sindacalizzazione nel mondo industrializzato, vi è un piccolo blocco di paesi che al contrario ha migliorato ulteriormente i suoi già alti tassi dimembership. Stiamo parlando del Belgio, della Svezia, della Danimarca e della Finlandia. Con qualche lieve oscillazione, la sindacalizzazione di questi quattro paesi ha mantenuto livelli ragguard e voli di crescita, arrivando a conseguire nuovi e sostanziosi incrementi nel corso dell’ultimo ventennio, quando nessun altro modello di organizzazione sindacale è stato risparmiato da una più o meno marcata tendenza al declino. Fra 1980 e il 1998 i sindacati svedesi passano dal 78% di iscritti all’88%; quelli finlandesi dal 69% al 79%, quelli danesi restano intorno al 77%; stazionari anche i belgi, intorno al 54%, che però dal 1998 al 2003 hanno ripreso a crescere, con una maggiorazione di qualche punto percentuale.

 

A fronte della crisi – a volte anche molto seria – che ha investito in questi ultimi vent’anni i livelli di sindacalizzazione nel mondo industrializzato, vi è un piccolo blocco di paesi che al contrario ha migliorato ulteriormente i suoi già alti tassi dimembership. Stiamo parlando del Belgio, della Svezia, della Danimarca e della Finlandia. Con qualche lieve oscillazione, la sindacalizzazione di questi quattro paesi ha mantenuto livelli ragguard e voli di crescita, arrivando a conseguire nuovi e sostanziosi incrementi nel corso dell’ultimo ventennio, quando nessun altro modello di organizzazione sindacale è stato risparmiato da una più o meno marcata tendenza al declino. Fra 1980 e il 1998 i sindacati svedesi passano dal 78% di iscritti all’88%; quelli finlandesi dal 69% al 79%, quelli danesi restano intorno al 77%; stazionari anche i belgi, intorno al 54%, che però dal 1998 al 2003 hanno ripreso a crescere, con una maggiorazione di qualche punto percentuale.1Come mai queste performance? La risposta offerta dagli esperti di questi temi rinvia al peculiare regime di assicurazione che in tutti e quattroi paesi protegge i lavoratori in caso di perdita dell’occupazione.2 Un sistema che prende il nome di Ghent, dalla cittadina fiamminga in cui – nel 1901 – vide la luce per la prima volta, e che si regge su una partecipazione sindacale al governo di questo fondamentale istituto di welfare, sconosciuta – nei termini che ci accingiamo a descrivere – da tutti i paesi più industrializzati.

Prima di entrare nel merito di come solitamente funziona il sistema Ghent, ci sia concesso di tracciare un profilo schematicamente riassuntivo dei sistemi di welfare e di relazioni industriali che caratterizzano e differenziano questo piccolo blocco di paesi. Diciamo innanzitutto che mentre Svezia, Danimarca e Finlandia presentano, già intuitivamente, alcune forti affinità di carattere modellistico, il Belgio viene solitamente classificato all’interno di altri clusters tipologici, più prossimi a ciò che consuetamente viene definito il sistema «continentale».

Il welfare state In materia di welfare, il caso belga si iscrive a pieno titolo in ciò che la letteratura ha di volta in volta chiamato modello bismarkiano, continentale (Heideneimer-Flora; Bertola) remunerativo o del rendimento industriale (Titmuss), conservatore-corporativo (Esping-Andersen), o ancora occupazionale puro (Ferrera). Un modello intermedio – continentale non a caso – fra quello liberale e residuale dei paesi anglosassoni, e quello socialdemocratico e universalistico dei paesi scandinavi. Si regge su una copertura contributiva o retributiva di tipo occupazionale, destinata cioè ai lavoratori e non a tutti i cittadini; offre prestazioni di gamma media e prefigura un intervento statale che possiamo definire complementare. Analogamente alla Francia, anche il welfare belga presenta una forte frammentazione occupazionale, a cui si aggiungono ulteriori elementi di articolazioni dovuti sia al bilinguismo che al pluralismo politico-sindacale: cattolici, socialisti e liberali possiedono ad esempio sistemi propri di gestione mutualistica.

Oggi il Belgio è un paese che alla spesa sociale destina una quota del proprio PIL del tutto in linea con la media dell’Unione europea (27,5% nel 2001):3 di due punti più dell’Italia (25,6%), ma di quasi quattro meno della Svezia (31,3%). Alla disoccupazione il Belgio destina una delle percentuali più alte d’Europa: intorno al 14%; la media UE supera di poco l’8%.

Di tutt’altro tipo il modello di welfare presente nei paesi scandinavi.4 Originariamente ispirati a Beveridge, più che a Bismarck, tali paesi hanno mirato a fondare uno Stato sociale di tipo universalistico e redistributivo, svincolato dall’occupazione, dalla famiglia e dal mercato, e retto sul principio del bisogno e del «benessere popolare». Considerati welfare universalistici «puri», quelli scandinavi hanno assunto, negli anni Cinquanta, le caratteristiche peculiari attuali, basate sull’idea secondo cui bisogna fornire prestazioni pubbliche uguali per tutta la popolazione. Fiore all’occhiello delle socialdemocrazie scandinave, esso si configura per il suo grado universale di copertura e cittadinanza, un finanziamento di tipo fiscale e non contributivo, prestazioni previste a somma fissa, livelli di spesa e di servizi offerti elevati, un ruolo dello Stato di tipo sostitutivo piuttosto che complementare.

Tutti i paesi scandinavi, eccetto la Finlandia, si collocano compattamente in testa alle classifiche internazionali relative alla spesa sociale, le cui quote sul PIL oscillano fra il 29,8% della Danimarca e il 31,3% della Svezia. La Finlandia si colloca invece sotto la media dell’UE a 15, con una percentuale quasi identica a quella italiana: 25,8%. Di questa spesa le prestazioni per i disoccupati oscillano fra il 10% circa della Svezia e il 14% della Finlandia.5 La notoria generosità dei sistemi scandinavi di welfare si regge in massima parte sul prelievo fiscale generale, tra i più alti del mondo, completato da oneri sociali ripartiti fra lavoratori dipendenti e, in misura maggiore, imprese.

 

Le relazioni industriali

Non meno marcate le differenze che, sul terreno delle relazioni industriali, separano il Belgio dai paesi scandinavi. In Belgio il panorama sindacale è caratterizzato da un sostanziale bipolarismo sindacale fra la confederazione cattolica CSC e la socialista di sinistra FGTB, a cui va aggiunto la piccola organizzazione liberale del CGSLB.6

Il livello settoriale costituisce in Belgio lo snodo prevalente della contrattazione collettiva. A livello aziendale vige un modello duale di rappresentanza e la contrattazione, seppur in crescita, rimane debole. La soglia per eleggere comitati aziendali è piuttosto alta, 100 dipendenti (50 per i comitati per igiene, sicurezza e condizioni di lavoro). Lo Stato esercita un significativo potere di controllo sulla contrattazione collettiva, di cui garantisce amministrativamente l’estensione erga omnes. Ciò garantisce un livello di copertura pressoché integrale, in assoluto il più alto d’Europa: il 98%. Il tripartitismo è variamente praticato e nel corso degli ultimi anni si è tradotto in patti sociali orientati a obiettivi normativi di politica dei redditi. Nel complesso, il modello belga di relazioni industriali viene classificato a un livello medio di centralizzazione, non ascrivibile all’area del neo-corporativismo, ma nemmeno a quella dei paesi retti da un sistema di tipo pluralistico e conflittuale, con ruolo marginale dello Stato.

I paesi scandinavi costituiscono invece un tipico esempio di ciò che in letteratura è stato variamente classificato come sistema neo-corporativo (Schmitter; Lembruch; Goldthorpe; Crouch). Monopolio della rappresentanza associativa degli interessi, alti livelli di affiliazione, centralizzazione delle politiche contrattuali (maggiore in Svezia minore in Danimarca), solidi legami fra associazioni degli interessi e partiti politici, orientamento cooperativo fra le parti, poteri sindacali di co-determinazione nei luoghi di lavoro.

Il movimento sindacale è organizzato per status professionale, con una ormai peculiare distinzione fra sindacati blue collars e white collars.7 I primi – le famose LO – hanno a lungo rappresentato il perno della rappresentanza associativa, malgrado la loro posizione si sia ultimamente ridotta in favore dei sindacati degli impiegati e dei più professionalizzati. In special modo degli addetti al robusto sistema di welfare pubblico. Oggi in Svezia la federazione del settore pubblico, Kommunal, ha sorpassato quella metalmeccanica del Metall, e il numero di donne lavoratrici che aderiscono al sindacato (84%) è superiore a quello dei colleghi maschi (79%). Quello tra dipendenti pubblici e dipendenti privati è divenuto un terreno critico per le relazioni sindacali nordiche (Esping-Andersen), riconducibile a una divaricazione di genere sempre più marcata fra donne e uomini sul terreno dei bisogni e della rappresentanza.

In tutta la regione il cardine del sistema contrattuale continua a essere il settore produttivo, ma un importante fattore di cambiamento, in questi anni, è stato il progressivo decentramento del sistema contrattuale. Ciò ha riguardato in special modo la Svezia, dove più forte – storicamente – era stata la caratteristica centralizzazione delle relazioni collettive di lavoro. Un trend che ha indotto Rudolf Meidner, padre nobile della socialdemocrazia scandinava ed estensore nel famoso progetto degli anni Settanta sulla democrazia economica, a ritenere che non si possa più parlare oggi di «modello svedese» delle relazioni industriali.

In Finlandia e in Norvegia il sistema è rimasto complessivamente più centralizzato, mentre in Danimarca – lo si accennava poc’anzi – si è avuta una marcata «settorializzazione» della contrattazione, con forti spinte verso i livelli aziendali.

In Svezia e Danimarca (e Norvegia) non esiste alcuna estensione amministrativa dell’efficacia dei contratti collettivi e tuttavia gli elevatissimi tassi di sindacalizzazione risultano sufficienti a imporre alle controparti l’applicazione erga omnes dei contratti. Secondo stime attendibili intorno all’80%. La Finlandia impone invece il sistema dell’estensione amministrativa erga omnes, e il suo tasso di copertura si impenna infatti fino al 95%. La contrattazione aziendale è più forte in Danimarca che in Svezia, ma in entrambi i casi i rappresentati sindacali nei luoghi di lavoro godono di solide prerogative nella gestione dell’organizzazione del lavoro e dei servizi aziendali. La rappresentanza nei luoghi di lavoro è di tipo single channel, con delegati espressi dalle organizzazioni sindacali.

Il ruolo dello Stato nelle relazioni industriali è stato relativamente superiore in Svezia e Finlandia che non in Danimarca. Sin dagli anni Trenta vi è una antica tradizione di accordi interconfederali, sulla base dei quali – per decenni – si sono retti i sistemi nordici delle relazioni industriali. Tuttavia, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, entra in crisi quel modello che – unico nell’Occidente – aveva per quasi mezzo secolo saputo coniugare virtuosamente il potere politico della socialdemocrazia con il potere sociale dei sindacati. L’ultimo caso in ordine di tempo si è avuto nella primavera del 1998, quando la Danimarca – guidata dai socialdemocratici – conosce uno degli scioperi più lunghi e duri della sua storia. Al Congresso che la LO tiene nel 2002, si sancisce uno storico divorzio: dopo oltre cento anni, la principale confederazione sindacale danese pone fine a ogni sostegno finanziario in favore del partito socialdemocratico e formalizza l’intenzione di affermarsi sulla scena sociale e politica come attore pienamente autonomo. Un fenomeno analogo si è registrato nello stesso periodo nel rapporto fra alcune importanti Unions inglesi, a guida radicale, e il New Labour di Blair.

Posto dunque che l’esperienza belga e quella scandinava divergono sia sul terreno del welfare che su quello delle relazioni industriali, esse condividono un peculiare modo con cui i due ambiti si intersecano, attraverso l’amministrazione sindacale dell’assicurazione contro la disoccupazione, finanziato pubblicamente: il sistema Ghent.

Diversamente da tutti quei paesi, la maggioranza, nei quali tale assicurazione rientra in un sistema obbligatorio, gestito da enti pubblici che non di rado vedono la partecipazione delle parti sociali, il sistema Ghent configura un programma volontario di adesione, alimentato finanziariamente dallo Stato e solo in minima parte dagli associati, e gestito tramite fondi dalle organizzazioni sindacali. Nel corso della prima metà del Novecento, la tendenza era stata ovunque quella di trasformare gli assetti mutualistici delle prime esperienze di welfare sociali, in schemi obbligatori il cui controllo veniva rilevato direttamente dallo Stato e dalle sue agenzie specializzate.8 Dove esso si mantenne più a lungo fu in Scandinavia da un lato e in Belgio e Olanda, dall’altro. In ciascuno di questi due blocchi vi saranno defezioni, cosicché la Norvegia opterà per il sistema obbligatorio nel 1938 e l’Olanda nel 1952. Rimasero dunque il Belgio e i quattro Stati nordici (con l’Islanda e senza la Norvegia).

In Belgio, dal 1945, lo Stato ha formalmente rilevato il controllo dell’assicurazione contro la disoccupazione, lasciando tuttavia che sulla base di un patto sociale siglato nell’anno precedente, fosse il sindacato a mantenere – con sovvenzioni pubbliche – la gestione diretta di questo servizio.

Nei paesi scandinavi l’amministrazione dell’assicurazione è rimessa ad appositi fondi. In Danimarca il sistema Ghent vige dal 1933 ed è attualmente amministrato da 36 fondi privati, a gestione sindacale, organizzati su ramo settoriale ma con regole uniformi di amministrazione. Il ministero del lavoro esercita, attraverso una sua specifica direzione generale, una supervisione sul funzionamento complessivo del sistema. I fondi sono alimentati dalla contribuzione volontaria di tutti i lavoratori, ma soprattutto dal sostegno statale mediante la fiscalità generale. Per poter beneficiare dell’indennità occorre essere stato iscritto a un fondo per almeno 12 mesi e avere lavorato non meno di 52 settimane nell’arco di tre anni. Inoltre, la persona assicurata deve essere registrata presso i servizi di collocamento, a testimonianza del proprio impegno nella ricerca attiva di un impiego. L’importo dell’assegno è correlato all’ultimo reddito da lavoro percepito. Un disoccupato danese percepisce in media un assegno di 525 corone al giorno o 2.625 alla settimana, sino a poter raggiungere il 90% dell’ultima retribuzione. Fino al 1996, l’indennità di disoccupazione danese poteva essere percepita per un periodo massimo di 7 anni. Dal 1996 questo periodo è stato ridotto a 5 anni ed è stata elevata l’età minima richiesta (da 17 a 19 anni).

Dal 1934, in Svezia, i sindacati amministrano una quarantina di fondi assicurativi contro la disoccupazione, finanziati pressoché integralmente dallo Stato. Il tasso di rimpiazzo del reddito è oggi del 75%; era del 90% fino al 1993.9 Dal 1997 esistono due tipi di condizioni che permettono di ottenere l’indennità di disoccupazione: a) aver lavorato per un periodo di almeno 6 mesi, e almeno 70 ore al mese nei 12 mesi precedenti; b) aver accumulato almeno 450 ore lavorative nei 6 mesi precedenti. L’accesso al fondo decorre dopo 12 mesi di iscrizione sindacale (24 mesi per i lavoratori autonomi). L’amministrazione statale stabilisce le regole di istituzione e gestione e provvede a verificarne la corretta gestione tramite un apposito ente nazionale che presiede alla realizzazione delle politiche del mercato del lavoro (AMT).

I contributi individuali variano fra il 6% della Finlandia e il 20% della Danimarca.10 Tutto il resto è finanziato dalla fiscalità generale.

In aggiunta all’assicurazione contro la disoccupazione, i lavoratori scandinavi godono di ulteriori e robuste forme di assicurazione collettiva, conseguite contrattualmente, in caso di malattia, vecchiaia e assicurazioni sulla vita.

Coloro che decidono di prendere la tessera sindacale vengono automaticamente iscritti a uno dei fondi assicurativi contro la disoccupazione. La normale quota sindacale contempla già il versamento contributivo, la cui entità rimane piuttosto contenuta. Non è invece automatico il contrario, poiché è possibile iscriversi a un fondo senza prendere alcuna tessera sindacale. In questo caso il versamento sarà inferiore alla quota sindacale complessiva nell’ordine medio di un terzo. Negli ultimi anni sembrerebbe cresciuta la quota di quanti chiedono l’iscrizione a un fondo senza prendere la tessera del sindacato. In Svezia si calcola che non meno del 10% della forza lavoro non sia iscritta ad alcun fondo assicurativo. In questa percentuale devono però considerarsi sia coloro che non hanno superato il numero minimo di ore previste, sia quelli che invece hanno esaurito il tempo massimo di godimento senza aver trovato un impiego. In questi casi esiste la possibilità di fruire di un sussidio pubblico di base (dal 1998 si chiama Grundförsäkring). Esso interessa di norma o coloro che ritengono di poter fare fronte senza assicurazioni e sindacati oppure i casi più gravi di esclusione sociale. Un nuovo fondo assicurativo indipendente (Fondo Alfa) è stato destinato alla copertura di tutti i disoccupati che non sono iscritti a uno degli altri 38 fondi. Ciò che differenzia il Fondo Alfa da tutti gli altri è che esso provvede all’erogazione di indennità di importo fisso, invece che di importo variabile a seconda del reddito. Un livello sufficientemente elevato per consentire allo Stato di continuare ad applicare la tassazione sul reddito anche durante i periodi di disoccupazione.

Si badi, il rendimento fra l’indennità erogata dai fondi sindacali e da quello non sindacale non è identico; il tasso di rimpiazzo è infatti più alto nel primo caso. Un differenziale di rendimento che è di cruciale importanza per comprendere gli effetti promozionali sulla sindacalizzazione.

Le persone che hanno perso un lavoro, e che sono alla ricerca di un nuovo impiego, possono contare sulle provvidenze garantite dal proprio fondo assicurativo, ma devono rispettare una serie di obblighi, come iscriversi al collocamento e rendersi disponibili a definire con essi piani di riqualificazione e reinserimento lavorativo.11 La persona disoccupata dovrà mostrarsi attivamente impegnata nella ricerca di un lavoro e non potrà rifiutare offerte di lavoro qualora queste dovessero essere ritenuti congrui – per tipologia di professionalità, entità del salario e distanza casa-lavoro – da parte degli uffici di collocamento. Trascorso un determinato arco di tempo, la persona che non ha ancora trovato un impiego dovrà rassegnarsi ad accettarne anche qualcuno che non dovesse rispecchiare il proprio livello di professionalità. Nel frattempo si sarà tenuti a svolgere – gratuitamente – attività di formazione e riqualificazione professionale.

Malgrado la copertura assicurativa sia nel tempo divenuta relativamente meno cospicua, e le verifiche sull’impegno individuale più stringenti, il sistema assicurativo dei tre paesi scandinavi col Ghent rimane – in caso di disoccupazione – il più inclusivo e generoso del mondo.

Negli ultimi 15 anni la percentuale di coloro che hanno in media percepito l’indennità di disoccupazione si è attestata fra il 50% e il 60% del totale dei disoccupati (registrati) in Finlandia, fra il 53% e il 73% in Norvegia, fra il 68% e il 78% in Danimarca, fra il 71% e l’80% in Svezia.12

Il coinvolgimento del sindacato nella gestione di un istituto fondamentale di welfare, come l’assicurazione contro la disoccupazione, conferisce ai sindacati indubitabili rendite di posizione, esponendoli al contempo a qualche rischio di ordine sia politico che associativo. I benefici sono abbastanza intuitivi e sostanziali. I sindacati si pongono infatti nella condizione di rivoltare a proprio vantaggio una delle più devastanti minacce che possono incombere su un lavoratore dipendente e – conseguentemente – sul sindacato che lo affilia in quanto forza produttiva: la disoccupazione. Affinché si decida volontariamente di assicurarsi non è necessario che l’incresciosa eventualità si verifichi concretamente, poiché è già sufficiente il rischio di essa per sciogliere ogni residua titubanza. Ovviamente, quanto più alto è il rischio per la propria occupazione, tanto maggiore diviene la propensione a rivolgersi al sindacato e ai suoi fondi assicurativi. Emblematico il caso finlandese, dove negli anni Novanta la disoccupazione ha colpito più duramente che nel resto dell’area scandinava. In soli tre anni, fra il 1990 e il 1993, la disoccupazione crebbe dal 3,6% al 18%. Gli effetti sulla sindacalizzazione si tradussero immediatamente in un sensibile aumento di iscritti: dal 72% all’80%. Anche in Svezia vi fu, nello stesso periodo, una grave crisi occupazionale (dall’1,6% di disoccupazione del 1990 all’8,2% del 1993); ne seguì un aumento dell’iscrizione ai fondi e il tasso di sindacalizzazione ne beneficiò con un incremento che, in quel periodo, è stato stimato fra il 3% e il 6%. Uno studio svedese ha ad esempio rilevato che fra i disoccupati di quel paese il tasso di sindacalizzazione è di appena quattro punti inferiore a quello degli occupati. Un dato impensabile nei paesi in cui non vige il sistema Ghent. L’incentivo selettivo rappresentato dall’assicurazione contro la disoccupazione si riverbera anche sui lavoratori temporanei o a tempo determinato. L’interruzione del rapporto di lavoro è qui iscritto sin dalla genesi del rapporto, cosicché ancora più evidente apparirà il vantaggio di assicurarsi per i periodi di non lavoro. Nell’attuale regime economico della flessibilità e del lavoro cosiddetto atipico, costoro sono probabilmente i principali beneficiari del sistema. Dal canto suo, il sindacato rimane in grado di rintracciare e affiliare una tipologia di lavoratori ovunque poco o per niente sindacalizzata, fatta soprattutto di giovani e di donne con contratti di lavoro precari.

Gli elementi di forza che abbiamo fin qui descritto non sono ovviamente immuni da fragilità latenti e controindicazioni. La prima potrebbe dipendere proprio dall’elevato grado di istituzionalizzazione conseguito da questi sindacati. Ciò può infatti esporli a rischi di varia natura. Innanzitutto essi potrebbero poggiarsi su una comoda rendita di posizioni che alla lunga ne atrofizza le attitudini più vitali. La sinistra radicale di quei paesi ha periodicamente denunciato l’appannamento dell’autonomia sindacale nei riguardi sia del potere politico dei governi amici sia di quello padronale nei luoghi di lavoro. Critiche simili vengono mosse al sindacato belga, e a quello cristiano in particolare.13 Una volta che la disoccupazione è stata sdrammatizzata sia socialmente che sindacalmente, e che la tutela del lavoro si è trasferita dal rapporto al mercato, potrebbe subentrare nel sindacato una certa attitudine al lassismo intorno alle richieste padronali in tema di flessibilità e precarietà dell’impiego. Una sorta di scambio tacito che anche in Italia ha di recente trovato numerosi e autore voli estimatori.

Vi è poi un’altra considerazione da fare. L’intero sistema si regge su una precisa volontà politica di salvaguardare quote rilevanti di potere sociale in favore delle organizzazioni sindacali. Lo Stato si è fatto garante di questo potere ma – in linea di principio – non può essere sottovalutato il rischio di un ripensamento e dunque di un ritiro delle prerogative para-pubbliche fin qui riconosciute all’attore sindacale. L’assicurazione contro la disoccupazione vige in questi paesi sin dagli anni Trenta e Quaranta. In Belgio, a lungo governato da coalizioni moderate e di centro, non risulta che vi siano stati ripensamenti significativi. In Scandinavia i governi guidati da coalizioni diverse da quelle a guida socialdemocratica hanno certamente sollevato critiche e riserve. Nel giugno del 1994, l’allora maggioranza di centrodestra tentò in Svezia di facilitare un accesso ai fondi a prescindere dal sindacato, nonché di ridurre a due anni e mezzo la durata massima durante la quale può essere percepita l’indennità di disoccupazione. La vittoria dei socialdemocratici pochi mesi dopo, tradizionalmente ostili a una revisione radicale di quel sistema, mandò in soffitta quel progetto. Vi è invece un confronto sulla gestione dei fondi, ovvero se questa debba rimanere appannaggio dei soli sindacati o se piuttosto non sia immaginabile una gestione bilaterale, articolata fra quote obbligatorie e quote volontarie di adesione assicurativa. L’idea è quella di mantenere il finanziamento prevalentemente pubblico ma con una gestione assegnata alle parti sociali.

A dispetto delle modifiche che vengono periodicamente suggerite, non pare si sia alla vigilia di trasformazioni sostanziali. L’amministrazione sindacale dell’assicurazione contro la disoccupazione è divenuta un cardine di quei modelli di welfare e le sue performance sono ritenute abbastanza soddisfacenti da parte di tutti gli attori coinvolti. Per i lavoratori innanzitutto, che hanno goduto di tutele sconosciute – in quelle proporzioni – dalla maggior parte dei loro colleghi europei; dai sindacati perché hanno accresciuto quasi ininterrottamente la loro forza associativa e con essa quella finanziaria, negoziale e politica; per i governi, che attraverso questo sistema hanno da un lato decentrato all’autorganizzazione sociale l’amministrazione di un segmento importante del welfare, dall’altro hanno indotto il sindacato – che gestisce l’amministrazione e la contabilità dei fondi – a rendersi politicamente più responsabile in materia di politiche sociali e del mercato del lavoro (Boeri, Brugiavini, Calmfors). Un gioco a somma positiva dal quale, al momento, nessuno sembrerebbe veramente interessato a tirarsi fuori.

Il sistema Ghent ha certamente inciso in modo molto rilevante, ma non esclusivo, sulla straordinaria forza associativa del sindacalismo nordico. Un valore aggiunto di cui è difficile stimare le proporzioni esatte. Studi finlandesi hanno stimano in non meno del 10% l’effetto di perdita che si verificherebbe sul terreno della sindacalizzazione qualora il sindacato perdesse ogni controllo sull’assicurazione di disoccupazione. Analoghi studi svedesi nella prima metà degli anni Novanta valutavano la differenza nell’ordine del 25%. Oggi constatiamo lo scarto che esiste fra la sindacalizzazione media dei paesi scandinavi col Ghent e la Norvegia che invece non lo ha: una distanza compresa fra i venti e i trenta punti percentuali in meno. Stesso discorso se si vuole paragonare il dato belga con quello della vicina Olanda, o ancor più con la Francia, per molti versi affine. Anche qui fra i venti e i trenta punti di differenza a favo re del paese che adotta il Ghent. Clamorosa, invece, la vicenda del sindacato israeliano dell’Histadut, dove l’abrogazione del controllo sindacale dell’assicurazione sanitaria nazionale, a metà anni Novanta, si è ripercossa – ma in concomitanza col terremoto sociodemografico degli stessi anni – in uno smottamento pari a circa il 77% di iscritti in meno.14

Sarebbe tuttavia ingeneroso ritenere che la forza associativa del sindacalismo nordico dipenda esclusivamente dall’artificio un po’ burocratico e parastatale del sistema Ghent. Stiamo infatti parlando di paesi in cui i sindacati sono riusciti a mantenere due solidissimi presidi diretti: un controllo relativamente forte della contrattazione nazionale e di settore e una presenza capillare e incisiva nei luoghi di lavoro. A ciò hanno concorso prassi concertative e interconfederali fra le più collaudate del mondo, nonché sostegni legislativi di chiara marca socialdemocratica e sindacale sul terreno della democrazia industriale ed economica.15 Una certa cultura di derivazione protestante e, appunto, «socialdemocratica» ha indubbiamente agevolato l’esistenza di forti corpi sociali intermedi e attitudini civiche di tipo altamente solidaristico. Il risultato complessivo è ancora oggi quello di una sindacalizzazione altissima, anche fra i lavoratori più discontinui e marginali, un welfare sociale efficiente, e un potere sociale che all’occorrenza, e contro i teorici di un presunto appiattimento burocratico e supino, «consente ai sindacati di aprire e portare a termini vertenze durissime, con scioperi dalla lunghezza impensabile per sindacati come i nostri».16

 

 

Bibliografia

1 Si consideri che nello stesso arco di tempo i sindacati tedeschi e inglesi scendono sotto la quota del 30%, quelli iberici sotto il 20%, quelli francesi addirittura sotto il 10%. L’Italia naviga nella parte alta delle classifiche internazionali, ma pur sempre intorno al 36%. T. Boeri, A. Brugiavini, L. Calmfors, (a cura di), Il ruolo del sindacato in Europa, UBE, 2002; EIRO, Trade Union Membership, 1993-2003, Bruxelles, 2004.

2 B. Western, Between class and market: postwar unionization in the capitalist democracies; Princeton Univ. Press, 1997, B. Ebbinghaus, J. Visser, The Societies of Europe. Trade Unions in Western Europe since 1945; MacMillan, 2000; Waddington, Hoffman, (a cura di), Trade Unions in Europe, ETUI, 2001; Boeri, Brugiavini, Calmfors, (a cura di), cit.

3 Eurostat, 2004.

4 Per una introduzione storico-politica al tema v. B. Amoroso, Rapporto dalla Scandinavia, Laterza, 1980, W. Korpi, Il compromesso svedese, De Donato, 1982, e il più recente P. Borioni (a cura di), Il Welfare Scandinavo, Carocci, 2004.

5 Qui l’anomalia è costituita dalla Norvegia, che stanzia solo il 5-6% ma in ragione dei suoi minimi livelli di disoccupazione.

6 Sul sindacalismo belga cfr. L. Van Guys, Trade Unions in Belgium, in Waddington, Hoffman (a cura di), Trade unions in Europe: facing challanges and searching for solutions, ETUI, Bruxelles 2000; S. Bouquin, Un gigante dai piedi di argilla: il sindacato belga, in «Quaderni di rassegna sindacale», 3/2002.

7 Per un’ampia descrizione del sindacalismo svedese cfr. A. Kjellberg, The Multitude of Challenges Facing Swedish Trade Unions in Waddington, Hoffman, cit.; T. Gustaffson, Il sindacato svedese davanti ai cambiamenti sociali del lavoro, in «Quaderni Rassegna sindacale» 3/2002. Sul sindacato danese cfr. Jorgensen, LO entame une réforme historique, in «Chronique Internationale de l’IRES», 82/2003.

8 Per ciò che ad esempio attiene alla disoccupazione, il regime assicurativo divenne obbligatorio – in paesi come la Gran Bretagna, la Germania o l’Austria – nel corso dei primi due decenni del secolo scorso. In Francia l’amministrazione è gestita secondo lo schema del paritarisme degli enti bilaterali.

9 A. Bjöorklund, Going different ways: labour market policy in Denmark and Sweden, in G. Esping-Andersen, M. Regini, (a cura di), Why Deregulate Labour Markets?, Oxford University Press, 2000.

10 J. Clasen, J. Kvist, W. van Oorschot, On condition of work: increasing working requirements in unemployment compensation schemes, pp. 202-203, in M. Kautto, J. Frizell, B. Hvinden, J. Kvist, H. Uusitalo (a cura di), Nordic Welfare States in the European Context, Routhledge, 2001.

11 Lundberg, Amark, Il welfare state svedese, in Borioni (a cura di), cit., p. 57.

12 Decisamente al di sopra che nel resto d’Europa, dove le percentuali scendono drasticamente al 20% del Regno Unito, 30% della Germania, 35% dell’Olanda; Clasen, Kvist, van Oorschot, cit.

13 Bouquin, cit.

14 S. Leonardi, Quando il sindacato si fece Stato. La strana storia dell’Histadrut, in «Quaderni Rassegna sindacale», 2/2004.

15 Kjellberg, cit.

16 A. Megale, introduzione a Leonardi, Bilateralità e servizi: quale ruolo per il sindacato, Ediesse, 2005.