Protocollo di Kyoto e sviluppo energetico sostenibile

Written by Luigi De Paoli Tuesday, 01 March 2005 02:00 Print

Combattere i cambiamenti climatici provocati dall’attività umana è una delle sfide più complesse che la comunità internazionale abbia di fronte. La difficoltà del compito dipende da almeno quattro ragioni: l’incertezza su molti punti delle catene causa-effetto e della loro evoluzione nel tempo; l’intimo legame con il tema dello sviluppo economico; la mancanza di un criterio condiviso di giustizia intra e inter-generazionale; la necessità di ottenere la cooperazione di tutti i paesi. Benché gli studi abbiano ridotto il grado di incertezza su molti punti negli ultimi decenni, «le decisioni riguardanti il cambiamento climatico sono essenzialmente un processo sequenziale in condizioni di incertezza generale».

 

Il contesto dei cambiamenti climatici

Combattere i cambiamenti climatici provocati dall’attività umana è una delle sfide più complesse che la comunità internazionale abbia di fronte. La difficoltà del compito dipende da almeno quattro ragioni: l’incertezza su molti punti delle catene causa-effetto e della loro evoluzione nel tempo; l’intimo legame con il tema dello sviluppo economico; la mancanza di un criterio condiviso di giustizia intra e inter-generazionale; la necessità di ottenere la cooperazione di tutti i paesi.

Benché gli studi abbiano ridotto il grado di incertezza su molti punti negli ultimi decenni, «le decisioni riguardanti il cambiamento climatico sono essenzialmente un processo sequenziale in condizioni di incertezza generale». A fare questa affermazione è il terzo rapporto del Panel intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) creato nel 1988 da due organismi delle Nazioni Unite con l’obiettivo di fare il punto sullo stato delle conoscenze e di diventare il riferimento per politici, esperti e studiosi nel campo dei cambiamenti climatici. Ed è stato proprio il terzo rapporto dell’IPCC ad aver «certificato» nel 2001 che la temperatura media della Terra è cresciuta di 0,6 gradi nel secolo scorso, che vi sono prove crescenti che gran parte di questo aumento è dovuto alle attività umane e che, se non si facesse nulla, la temperatura media in questo secolo salirebbe da 1,4 a 5,8 gradi. Tuttavia, è lo stesso Rapporto a ricordare che il cambiamento climatico è un problema complesso e di lungo termine, non ancora pienamente compreso. Infatti, da un lato il cambiamento climatico e le sue conseguenze sull’ambiente naturale e umano sono il risultato di complesse interazioni, non sempre note con precisione, tra lo sviluppo dei sistemi socio-economici, le emissioni di gas a effetto serra (GES)1 e il loro impatto climatico (vedi Figura 1). Dall’altro, l’evoluzione di alcune variabili fondamentali da cui dipendono le emissioni – come la crescita economica, la popolazione e la tecnologia – è incerta e, dovendosi prendere in esame periodi di secoli, piccole differenze annuali originano grandi differenze cumulate. Il tutto è aggravato dalla forte inerzia dei fenomeni in questione: una volta alterato il livello di GES in atmosfera, la temperatura e il livello dei mari continuano a salire per secoli prima di raggiungere un nuovo equilibrio. I governi devono quindi decidere le misure per «mitigare» le emissioni e/o «adattarsi» ai cambiamenti climatici in condizioni di forte incertezza, come lo stesso intervallo di previsione di aumento della temperatura dimostra (ben diverse sono le conseguenze se la temperatura media salisse di 1,5 gradi o invece di 6 gradi).

Figura 1

La seconda difficoltà dei governi, nel decidere gli interventi per prevenire o difendersi dalle conseguenze indesiderate dei cambiamenti climatici, è che non sono decisioni isolate, ma influenzano il sentiero di sviluppo, cioè il divenire dell’organizzazione sociale ed economica dei paesi. In particolare, le politiche per limitare le emissioni di GES avranno un forte impatto sul settore energetico, in quanto l’uso dei combustibili fossili è la principale fonte antropica di emissione di GES. Il risultato atteso è un aumento del costo dell’energia con ricadute negative sul PIL e una riallocazione delle risorse verso la produzione di beni e servizi meno energyintensive. In funzione delle decisioni prese dai singoli paesi, le politiche per limitare le emissioni potrebbero poi avere conseguenze sul commercio internazionale e sui trasferimenti di tecnologia.

La terza difficoltà nasce dai problemi di giustizia sollevati dalle decisioni da prendere. Infatti, i benefici e i costi per far fronte ai cambiamenti climatici sono distribuiti in modo disuguale all’interno della generazione presente (tra classi sociali e tra paesi) e tra la generazione presente e quelle future. Ad esempio, un aumento della tassazione sui carburanti ha conseguenze diverse a seconda del livello di reddito. Allo stesso modo non tutti i paesi sono ugualmente coinvolti dai cambiamenti climatici: i paesi nordici potrebbero addirittura trarre vantaggi da un aumento della temperatura, mentre i paesi e le città poste a una bassa altezza sopra il livello del mare potrebbero subire conseguenze disastrose. Non meno grave è il problema di come ripartire tra i paesi lo sforzo per ridurre le emissioni: in base alle emissioni pro-capite, al reddito pro-capite, al costo marginale di abbattimento o in base a qualche altro criterio? Per esempio, ogni americano nel 2002 ha emesso 6,6 volte più CO2 di un cinese, ma a livello complessivo gli USA hanno emesso «solo» il 70% in più della CO2 emessa dalla Cina (vedi Figura 2). Su questo punto non sono ancora state intavolate discussioni tra i paesi, ma è evidente che se si deve passare da interventi su base volontaria a interventi vincolanti bisognerà trovare un criterio di allocazione delle emissioni e quindi dei costi. Allo stesso modo, man mano che si ridurrà l’incertezza sul legame tra concentrazione dei GES e livello di temperatura, occorrerà chiarire quale tipo di responsabilità si vorrà assumere verso le generazioni future (ovvero, in termini economici, quale tasso di sconto sociale si vorrà adottare per i costi e i benefici futuri).

Figura 2

L’ultima difficoltà nell’affrontare i cambiamenti climatici è legata alle caratteristiche di bene comune dell’atmosfera: tutti i paesi non possono che avere la stessa composizione dei GES in atmosfera, sia che si facciano grandi sforzi per contenere le proprie emissioni sia che non si curino del problema. Come è noto, questa situazione induce un comportamento di free-riding: Tutti sono tentati di «viaggiare gratis», lasciando agli altri lo sforzo di contenere le emissioni, ed è l’attesa di questo comportamento da parte di tutti che lo rende effettivo. Nella fornitura di beni pubblici il free-riding si manifesta di solito dichiarando una disponibilità a pagare inferiore a quella reale. Il risultato è che l’offerta del bene in questione è inferiore a quella socialmente ottima. Nel caso in esame, invece, il free-riding trova le sue radici nella difficoltà di stabilire l’obiettivo da raggiungere e di ripartire l’impegno di riduzione delle emissioni tra i paesi. I PVS hanno validi argomenti per sostenere che spetta ai paesi sviluppati fare lo sforzo di limitare le loro emissioni di GES, i paesi sviluppati possono sostenere che, senza un impegno a contenere le emissioni da parte di tutti, il loro sforzo viene vanificato o quantomeno è insufficiente.

 

Il protocollo di Kyoto

L’impegno della comunità internazionale per affrontare i cambiamenti climatici trova il suo testo di riferimento nella Convenzione quadro sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite (UNFCCC), adottata a Rio nel 1992 durante il primo Vertice della Terra (Earth Summit). L’UNFCCC – entrata in vigore nel 1994 e finora (marzo 2005) ratificata da 194 «parti» – all’articolo 2 stabilisce che: «L’obiettivo ultimo della Convenzione e di ogni strumento legale adottato dalla Conferenza delle Parti in accordo con le disposizioni della Convenzione, è la stabilizzazione della concentrazione in atmosfera dei gas di serra a un livello che prevenga una dannosa interferenza antropogenica con il sistema climatico». L’articolo 4 della Convenzione stabilisce poi che le Parti hanno «responsabilità comuni ma differenziate», che «devono promuovere e cooperare nello sviluppo, applicazione e diffusione, incluso il trasferimento di tecnologie, di pratiche e processi che controllano, riducono o prevengono l’emissione antropogenica di GES» e che i «i Paesi sviluppati devono fornire risorse finanziare addizionali ai paesi in via di sviluppo» per sostenerli nel loro impegno di riduzione delle emissioni di GES. Coerentemente con il principio della «responsabilità comune ma differenziata», le Parti aderenti alla Convenzione sono divise in due categorie: 36 paesi sviluppati (Annex I Parties), che accettano un limite quantificato di emissione e i restanti paesi, per lo più PVS, con un impegno a ridurre le emissioni non quantificato.

Le Conferenze delle Parti (COP) si sono svolte regolarmente ogni anno, a partire da quella di Berlino nel 1995, per discutere dell’attuazione dell’UNFCCC. La COP 3, che si è tenuta a Kyoto nel dicembre 1997, si è conclusa con l’approvazione del Protocollo di Kyoto, divenuto il «braccio operativo» della Convenzione. A Kyoto, infatti, sono stati fissati alcuni principi per rendere effettivo l’impegno contro i cambiamenti climatici.

In primo luogo il Protocollo di Kyoto ha stabilito che i 36 paesi dell’Allegato I avrebbero ridotto le loro emissioni aggregate di GES almeno del 5% rispetto al 1990 nel periodo 2008-2012 e ha fissato la riduzione di ogni Parte dell’Allegato I. L’UE ha accettato la riduzione più forte (-8%), seguita dagli USA (-7%) e dal Giappone (-6%). Alcuni paesi hanno negoziato una stabilizzazione delle loro emissioni (Russia, Nuova Zelanda). Altri, infine, si sono impegnati ad aumentarle in misura limitata (ad esempio +8% in Australia). A loro volta gli Stati membri dell’UE hanno discusso tra di loro su come ripartire l’impegno assunto a Kyoto, arrivando a un accordo nel 1998 (l’Italia ha accettato una riduzione del 6,5%). È evidente la delicatezza delle trattative per la fissazione di questi traguardi in quanto, come si è detto, la riduzione delle emissioni tende ad avere un effetto negativo sul PIL e a modificare i rapporti di competitività tra i paesi.

Il Protocollo di Kyoto ha poi fissato i GES di cui vanno limitate le emissioni: l’anidride carbonica (CO2), il metano, l’ossido nitroso (N2O), gli idrofluorocarburi, i perfluorocarburi e l’esafluoruro di zolfo. La capacità di ogni gas di provocare l’effetto serra (GWP) è molto diversa: per esempio l’esafluoruro di zolfo ha un effetto di 22-24.000 volte superiore a quello della CO2, quindi ridurre l’emissione di una piccola quantità di questo equivale a ridurre le emissioni di una quantità molto maggiore di CO2. Tuttavia, il principale gas di serra è di gran lunga l’anidride carbonica, che viene prodotta in tutti i processi di combustione. Ed è proprio su questo gas, che rappresentava circa l’80% delle emissioni equivalenti di GES nel 1990, che si concentra la maggior parte degli sforzi per mitigare i cambiamenti climatici.

Infine, il Protocollo di Kyoto ha introdotto i cosiddetti «meccanismi flessibili» per consentire ai paesi dell’Allegato I di rispettare i loro impegni al minimo costo. In pratica si tratta di soluzioni che permettono di acquistare permessi di emissione da terzi (equivalenti a riduzioni di emissioni da parte dei venditori) quando costano meno che non ridurre le emissioni in casa propria. I meccanismi flessibili sono di tre tipi:

  • il commercio internazionale di permessi di emissione tra paesi dell’Allegato I. Per esempio, un paese come la Russia, che ha ridotto le proprie emissioni di GES in misura consistente (per ragioni legate alla crisi e alle trasformazioni del sistema economico dopo l’uscita dal comunismo), potrebbe vendere parte della riduzione a un paese come l’Italia, che le sta incrementando anziché ridurle del 6,5%;
  • l’implementazione congiunta (JI) permette ai paesi dell’Allegato I, tramite i governi o altri soggetti autorizzati, di investire in progetti che riducono le emissioni o aumentano l’assorbimento di CO2 in altri paesi dell’Allegato I ottenendo in cambio crediti di emissione;
  • i meccanismi di sviluppo pulito (CDM) sono simili ai precedenti, ma riguardano investimenti in progetti che riducono le emissioni in paesi non dell’Allegato I, cioè che non hanno limiti quantitativi di emissione. Un ulteriore vantaggio dei CDM è che danno seguito all’impegno dei paesi ricchi di aiutare i PVS a svilupparsi in modo eco-compatibile.

I meccanismi flessibili, anche se sono stati progettati per ridurre i costi di riduzione delle emissioni, comportano elevati costi di registrazione, certificazione, controllo ecc., che fanno aumentare i già alti costi di transazione collegati al rispetto del Protocollo di Kyoto. Tra questi costi andrebbero computati, oltre alle strutture fisse create per seguire l’esecuzione del Protocollo di Kyoto, i costi di negoziazione. Ognuna delle COP annuali è seguita da migliaia di persone e dà luogo a lunghe trattative per mettere a punto e rendere efficaci i diversi meccanismi previsti, oltre che per tener conto degli opposti interessi in campo.

Si spiegano in questo modo i sette anni impiegati dal Protocollo di Kyoto per diventare effettivo. In effetti, l’articolo 25 del Protocollo di Kyoto prevedeva che entrasse in vigore 60 giorni dopo che lo avessero ratificato almeno 55 Parti e quando, tra queste, vi fossero paesi che rappresentavano almeno il 55% delle emissioni nel 1990 delle Parti incluse nell’Allegato I (vedi Figura 3). La prima condizione è stata raggiunta rapidamente, ma la seconda è sopraggiunta solo grazie all’adesione della Russia stabilita nel novembre 2004. Superate le due soglie, con l’adesione di tutte le parti dell’Allegato I tranne gli Stati Uniti e l’Australia, il Protocollo di Kyoto è entrato in vigore il 16 febbraio 2005.

Figura 3

Nel lungo braccio di ferro per arrivare a dare valore di impegno internazionale al Protocollo di Kyoto, UE e Stati Uniti (specie dopo il cambio di presidenza da Clinton a Bush) si sono collocati agli antipodi: l’Europa voleva a ogni costo che il Protocollo di Kyoto entrasse in vigore e che i paesi industrializzati si impegnassero il più possibile a ridurre le emissioni in casa propria. Gli Stati Uniti, dopo essersi battuti e aver ottenuto che non fosse limitato il ricorso ai «meccanismi flessibili» e che fossero inclusi i carbon sink (cioè lo sviluppo delle foreste come strumento per assorbire la CO2), alla fine hanno deciso di non aderire al Protocollo di Kyoto. Le ragioni addotte sono almeno quattro: l’elevato costo per l’economia americana, la sua inefficacia (bisognerà comunque fare molto di più e coinvolgere anche i paesi non dell’Annex I), la superiorità di politiche che investano in R&S per abbattere in modo più radicale le emissioni dei frutti della maggiore crescita economica e infine la preferenza di impegni nazionali volontari a impegni internazionali vincolanti, ma senza sanzioni previste e con molte difficoltà di verifica.

Comunque si considerino questi argomenti, è chiaro anche per l’UE che bisognerà al più presto tornare al tavolo delle trattative per discutere del quinquennio successivo (2013-2018) e che la partecipazione di tutti è essenziale. Su questi temi torneremo nelle conclusioni.

 

Politiche energetiche per uno sviluppo sostenibile

Il concetto di sviluppo sostenibile è ormai diventato sinonimo di crescita del benessere economico compatibile con l’ambiente e con le preoccupazioni sociali. L’attenzione ai cambiamenti climatici indotti dall’attività economica, con gravi ricadute ambientali e sociali, è dunque connaturata al principio dello sviluppo sostenibile. In concreto ciò significa preoccuparsi anzitutto delle emissioni di anidride carbonica e quindi del settore energetico. Infatti, come si è accennato, circa l’80% delle emissioni equivalenti2 di GES di origine antropica è rappresentato dalla CO2 e il 98% di questa è legata alla combustione di petrolio, carbone e gas per produrre l’energia di cui hanno bisogno i settori industriali, residenziali, commerciali e i trasporti per funzionare. Come fare allora per ridurre le emissioni di CO2 senza diminuire i servizi energetici resi disponibili?

Secondo la teoria economica, il livello ottimale di abbattimento delle emissioni si raggiunge partendo dalle soluzioni meno costose e spingendosi fino a quando costi e benefici marginali di abbattimento sono uguali. Un’altra indicazione della teoria è che, in presenza di più strade parallele, bisogna percorrerle tutte in modo coordinato, cioè facendo in modo che i costi marginali si uguaglino. Anche in questo come in molti altri casi, il problema più grave per definire politiche pubbliche efficienti è la mancanza di informazioni complete. Dobbiamo perciò rinunciare all’ottimo, ma possiamo comunque fare un elenco delle soluzioni disponibili e dare qualche indicazione sulle curve di costo di ciascuna.

Per diminuire le emissioni di carbonio e stabilizzare la sua concentrazione in atmosfera, vi sono tre strade che non si escludono a vicenda. La prima è quella di usare in modo più efficiente l’energia riducendone i consumi a parità di servizio reso. La seconda è quella di usare combustibili o tecnologie senza carbonio o con basso contenuto di carbonio a parità di energia resa disponibile. La terza è quella di prelevare CO2 dall’atmosfera o di catturare CO2 prima di emetterla, tenendola poi «sequestrata» per periodi molto lunghi. Esaminiamo un po’ più in dettaglio queste soluzioni e le loro caratteristiche.

Anzitutto, andrebbe favorito il risparmio energetico o meglio l’uso razionale dell’energia. Fino a un certo punto di risparmio, si tratta di iniziative che consentono di ottenere anche una riduzione dei costi (si pensi alla sostituzione degli impianti semaforici con led al posto delle lampade tradizionali). Sono quindi opzioni dette di no regret. Anche se giustificate economicamente, non si deve però pensare che tali iniziative vengano realizzate automaticamente. La loro diffusione può essere ostacolata da barriere sociali, economiche (per esempio difficoltà di finanziamento), tecniche, informative o di altro tipo. Vi è quindi spazio per un intervento pubblico che rimuova queste barriere. Inoltre, come sempre, non si deve commettere l’errore di pensare che la curva di offerta sia perfettamente elastica. In altri termini, man mano che il giacimento dell’efficienza energetica viene sfruttato, i costi per spingersi oltre crescono fino a rendere questa opzione non più conveniente. In alcuni settori poi i risparmi sono più difficili da conseguire (ad esempio nei trasporti). Per ampliare le potenzialità del risparmio occorre quindi affidarsi alla tecnologia e alla ricerca, anche con il sostegno pubblico.

In secondo luogo si può puntare sulla produzione di energia a basso o nullo contenuto di carbonio. Questa strada presenta indubbiamente oggi le maggiori potenzialità essendo disponibili diverse soluzioni tra cui il ricorso all’energia nucleare, l’incremento dell’uso del gas e lo sviluppo delle fonti rinnovabili.

Il ruolo che il nucleare potrebbe avere nel contenere le emissioni di CO2 è molto grande se si tiene presente che oggi la generazione elettrica è responsabile del 30-40% delle emissioni mondiali. Per sapere se questa soluzione no regret o è costosa occorre chiedersi se il kWh nucleare costi di più o di meno di quello da combustibili fossili. La risposta non è immediata. Si deve infatti tenere presente che non siamo di fronte a un prodotto standardizzato: può costare poco o molto a seconda di come si realizzano gli impianti, cioè a seconda del grado di accettazione e di controllo del rischio che ogni società sa esprimere. Indubbiamente è molto più difficile realizzare impianti nucleari in un contesto liberalizzato che con un monopolio. Il confronto dipende poi dal costo del kWh delle centrali termoelettriche. In questo caso l’elemento cruciale è il costo dei combustibili fossili che oggi sono elevati e, secondo l’opinione prevalente, destinati a rimanere tali. In definitiva, vi sono elevate probabilità che si possa produrre energia elettrica di origine nucleare a costi non superiori di quella prodotta dagli impianti a carbone o a gas, se i governi opereranno per creare un quadro stabile entro cui poter realizzare gli impianti nucleari. Tuttavia permangono problemi di accettabilità sociale, di non proliferazione e, come accennato, occorre creare le condizioni socio-economiche perché le centrali vengano realizzate e gestite in modo efficiente. Sarebbe quindi assurdo disconoscere il grande contributo che l’energia nucleare può dare a livello mondiale per ridurre le emissioni di CO2 in modo efficiente, ma nello stesso tempo sarebbe ingenuo pensare che lo sviluppo del nucleare possa essere lasciato solo al mercato o che tutti i paesi possano ricorrervi.

Rimanendo nel settore elettrico, vi è un altro modo per abbattere le emissioni: sostituire i vecchi impianti a olio combustibile o a carbone con nuovi impianti a ciclo combinato a gas, risparmiando il 50-60% delle emissioni di CO2. Ai prezzi attuali, si tratta di una soluzione non molto costosa (il kWh da centrali a gas a ciclo combinato costa il 10-20% in più di quello da centrali a carbone) e per molti versi appetibile, in quanto va nella direzione della maggiore accettabilità sociale. Tuttavia, da un punto di vista macroeconomico, una differenza del 10-20% nei costi elettrici non è affatto trascurabile. Inoltre, è una soluzione che si adatta maggiormente ai paesi che usano molto carbone nella produzione elettrica, cosa che non accade in Italia. Ma soprattutto, se tutta la produzione elettrica mondiale da carbone e da olio combustibile venisse sostituita con gas, la domanda di gas naturale aumenterebbe del 60%, con un impatto evidente sia sul prezzo internazionale che sull’esaurimento delle risorse. In altri termini, il ricorso al gas naturale è una strada seducente, ma che non può essere percorsa da tutti.

Un altro strumento per favorire la messa a disposizione di energia con minori emissioni di GES è il ricorso alle fonti rinnovabili. Si tratta di un insieme molto numeroso di soluzioni: dalla biomassa (legna, colture per la produzione di biocarburanti, uso dei rifiuti urbani ecc.) all’energia eolica, dal solare (fotovoltaico o termico) alla geotermia, dall’idroelettrico (di grande o piccola scala) alle maree. Se non vi fosse un limite di prezzo, la potenzialità delle rinnovabili sarebbe tale da poter soddisfare tutta la domanda energetica attuale dell’umanità ed è all’uso delle rinnovabili che l’umanità si dovrà adattare nel lungo termine. Oggi però solo una piccola parte di questo potenziale è competitiva. Se si aspettasse che fosse l’aumento del prezzo dell’energia a dare spazio alle rinnovabili, probabilmente il loro ritmo di crescita sarebbe lento ancora per qualche decennio, ma nel momento in cui le risorse fossili meno inquinanti cominciassero a esaurirsi vi sarebbe il rischio di una brusca salita dei prezzi e di una forte domanda di energia da fonti rinnovabili che difficilmente potrebbe essere soddisfatta. Bisogna dunque incentivare queste fonti trovando la giusta misura tra due estremi: un incentivo troppo basso limita gli sforzi per mettere a punto nuove soluzioni e acquisire esperienza industriale, mentre un incentivo troppo elevato penalizza la crescita economica e le generazioni presenti. In questo caso più che in altri è fondamentale il disegno degli strumenti di intervento. Se si asseconda la legge dei costi marginali crescenti (si sviluppano per prime le fonti rinnovabili più vicine alla competitività come è già avvenuto nel secolo scorso per l’idroelettrico nei paesi industrializzati), vi sono buone prospettive che nell’arco di un paio di decenni l’energia eolica e l’uso della biomassa diano un importante contributo. Ciò non significa che le altre fonti, come il solare fotovoltaico, debbano essere trascurate, ma l’intervento pubblico deve essere più un supporto che garantisca adeguati investimenti di R&S che un mezzo per ottenere rapidamente una produzione massiccia da queste fonti.

La terza strada per ridurre la concentrazione della CO2 in atmosfera è il «sequestro del carbonio» (carbon sequestration). Si tratta di riuscire a catturare la CO2 presente in atmosfera o che sta per essere emessa in atmosfera trattenendola poi nella biosfera, sottoterra o negli oceani. In alcuni casi si possono sfruttare i processi naturali, in altri si devono mettere a punto nuove tecniche. Più precisamente, la vegetazione è lo strumento attraverso cui in natura viene assorbita parte della CO2 presente in atmosfera. Si può incrementare tale assorbimento sviluppando le foreste o le colture più adatte, stoccando poi il carbonio catturato nella biomassa e nei suoli. La lotta per limitare la concentrazione di CO2 in atmosfera può quindi avere una forte interconnessione con il settore agricolo. Catturare la CO2 prima che sia emessa in atmosfera è decisamente più complesso e può essere fatto solo nei grandi impianti energetici. Occorre poi riuscire a sequestrare il carbonio. Uno dei modi è quello di metterlo nei depositi geologici sotterranei, ma ciò rappresenta un problema non solo tecnico-economico, ma anche di ricerca, per capire quali caratteristiche geochimiche dei depositi li rendono adatti a questa funzione. Anche il sequestro del carbonio negli oceani richiede una maggiore comprensione dei fenomeni naturali, che vanno dalle tecniche per incrementare il fitoplancton che cattura la CO2 a quella dell’iniezione della CO2 a profondità superiori a 1.000 metri. In definitiva, se si esclude il settore agro-forestale, la carbon sequestration è il campo in cui sussistono le maggiori incertezze tecniche ed economiche.

 

Sviluppo sostenibile e Unione europea

L’UE ha fatto dello sviluppo sostenibile uno dei suoi obiettivi fondanti, tanto che nell’articolo 3 del Titolo I della Costituzione recentemente varata, intitolato «Obiettivi dell’Unione», si legge: «L’Unione si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente». Le tre dimensioni dello sviluppo sostenibile (economica, sociale e ambientale) devono quindi coesistere ed essere integrate, anche quando, al di là delle dichiarazioni di circostanza, sono conflittuali e richiedono compromessi.

La ricerca dello sviluppo sostenibile costituisce dunque il quadro più generale della strategia europea, come risulta da numerosi documenti approvati recentemente dalla nuova Commissione3 e dai risultati del recente Consiglio europeo del 22 e 23 marzo scorso. In tale occasione il Consiglio ha convenuto di adottare, nella prossima riunione di giugno, una «dichiarazione sui principi direttori dello sviluppo sostenibile»; tale dichiarazione servirà da base per il rinnovamento della strategia per lo sviluppo sostenibile adottata dal Consiglio europeo di Göteborg nel 2001. La nuova strategia, più completa e ambiziosa, comprendente obiettivi, indicatori e una procedura efficace di followup, dovrebbe fondarsi su una visione positiva a lungo termine e integrare pienamente le dimensioni interne ed esterne.

Una politica a favore dello sviluppo sostenibile sembra anche essere ciò che più caratterizza l’Europa nei confronti degli Stati Uniti sulla scena internazionale: «In un mondo sempre più globalizzato, è necessaria una chiara leadership politica per promuovere un modello europeo dinamico per oggi e per il futuro. La Commissione è fermamente impegnata a promuovere lo sviluppo sostenibile e vuole proporre una agenda positiva per il cambiamento».4 In questo modello, la preoccupazione ambientale è certamente un elemento distintivo.

In passato l’UE, oltre ad aver accettato l’impegno più gravoso a Kyoto, ha elaborato un Programma europeo sui cambiamenti climatici (ECCP), che comprende una serie di politiche principalmente centrate sul settore energetico. Tra le misure introdotte, vi è la direttiva 2003/87/CE che ha creato un sistema di quote di emissioni di CO2 scambiabili in tutta l’Unione. Con tale direttiva l’UE ha anticipato l’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto con una fase sperimentale nel triennio 2005-2007 che riguarda solo alcuni settori (principalmente quello energetico) e solo la CO2. Le imprese dei settori inclusi hanno ormai limiti di emissione vincolanti che potranno superare acquistando da altri soggetti i permessi che questi avessero in eccesso. In tal modo l’UE ha riaffermato la sua fiducia nel meccanismo cap and trade, che è uno dei principi di base del Protocollo di Kyoto.

Anche per il post-2012 l’UE si sta già movendo attivamente, visto che nel 2005 dovrebbero partire i negoziati internazionali per il dopo-Kyoto. L’obiettivo di lungo termine che gli uffici della Commissione stanno sempre più promovendo come criterio di azione è quello di impedire che la temperatura media della terra aumenti di più di 2 gradi.5 Da qui deriva il livello massimo di concentrazione di CO2 in atmosfera (che, secondo gli ultimi studi, deve essere più basso di quanto stimato in precedenza) e le conseguenti politiche di riduzione delle emissioni. Su questo tema il Consiglio «Ambiente», nella riunione del 10 marzo scorso, è arrivato alla conclusione che fosse opportuno sostenere nelle trattative in sede ONU una riduzione delle emissioni di GES dei paesi industrializzati del 15-30% entro il 2020 e del 60-80% entro il 2050 rispetto ai livelli del 1990. La decisione è stata però contrastata essendosi opposti, secondo indiscrezioni, ben dieci paesi (tra cui l’Italia), come traspare anche dal documento finale in cui si legge che «gli forzi di riduzione delle emissioni nei prossimi decenni dovranno essere adeguati alle capacità dei singoli Stati» e che «la fissazione delle soglie di riduzione deve avvenire senza pregiudicare nuovi approcci per la differenziazione tra le parti in un quadro equo e flessibile».

Nel successivo Consiglio europeo del 22-23 marzo è stato poi tolto il riferimento al 2050, mentre sono state riportate le altre conclusioni nei seguenti termini: «Fatti salvi nuovi approcci alla differenziazione tra le parti in un futuro quadro equo e flessibile, l’UE auspica di esplorare, con altre parti, possibili strategie per conseguire le necessarie riduzioni delle emissioni e ritiene che, in tale contesto, si debbano prendere in considerazione percorsi di riduzione da parte del gruppo dei paesi sviluppati dell’ordine del 15-30% entro il 2020 (…) Tali forcelle di riduzione dovranno essere esaminate alla luce dei lavori futuri sulle condizioni in cui è possibile raggiungere l’obiettivo, compresa la questione dei costi e dei benefici».

In effetti coloro che si opponevano all’indicazione di una nuova soglia vincolante per i paesi industrializzati facevano osservare che, secondo gli stessi documenti della Commissione (vedi Figura 4), l’UE-25 e lo stesso insieme dei paesi industrializzati peseranno ben poco (circa 1/3) sulle emissioni tendenziali al 2050. Senza un accordo generalizzato, l’UE ha ben poca possibilità di influire sul clima e, a parere di alcuni membri, sarebbe quindi meglio assumere un atteggiamento più aperto all’inizio di un nuovo round di trattative. Un altro richiamo importante è quello allo svolgimento di analisi costi-benefici che possono sicuramente meglio illuminare le decisioni da prendere.

Insomma lo sviluppo sostenibile, con le sue nuove parole d’ordine «prosperità, solidarietà e sicurezza», rimane per tutti il cardine della politica europea, ma, se non si vuole far finta che si possa ottenere tutto contemporaneamente, resta da stabilire quanto in alto deve essere posta l’asticella della sicurezza e come ottenere il consenso dal resto del mondo.

Figura 4

 

Bibliografia

1 I gas a effetto serra (GES) controllano il livello di temperatura media sulla terra tramite l’assorbimento dei raggi infrarossi emessi dalla superficie terrestre. Meno dell’1% dell’atmosfera è composto da GES che vengono emessi e assorbiti da processi naturali. L’attività umana, pur contribuendo in misura limitata alle emissioni, ha già perturbato in modo significativo l’equilibrio naturale.

2 I diversi gas serra hanno una diversa efficacia nel provocare il riscaldamento atmosferico. Per poter sommare i quantitativi emessi si deve quindi tenere conto dell’effetto equivalente di ciascun gas sulla base di un coefficiente specifico detto GWP (Global Warming Potential).

3 Vedi ad esempio: COM (2005) 12, Strategic objectives 2005-2009. Europe 2010: A partnership for European renewal: prosperity, solidarity and security, 26 gennaio 2005; COM (2005) 37, The 2005 Review of the EU Sustainable Development Strategy: Initial Stocktaking and Future Orientations, 9 febbraio 2005; e COM (2005) 35, Winning the Battle Against Global Climate Change, 9 febbraio 2005.

4 COM (2005) 37, p. 6.

5 Secondo il Commission staff working paper che accompagna il documento COM (2005) 35 questa decisione sarebbe già stata presa dal 1936esimo incontro del Consiglio europeo, tenutosi a Lussemburgo il 25 giugno 1996.