Terra Santa o dannata?

Written by Carlo Pinzani Tuesday, 01 March 2005 02:00 Print

Il lungomare di Tel Aviv non è molto diverso da quelli di Scheveningen o di Viareggio: alberghi, una larga strada, luoghi di divertimento e stabilimenti balneari, una spiaggia profonda. Luoghi ameni, aperti, destinati al riposo e allo svago. La località israeliana, invece, il 1° giugno 2001 e il 26 febbraio 2005 è stata teatro di due attentati suicidi compiuti da giovani palestinesi che hanno causato la morte di loro coetanei israeliani in attesa di entrare in discoteca. Nell’infinita catena di orrori che punteggiano l’ormai secolare conflitto tra arabi ed ebrei in Palestina, questi due eventi hanno un rilievo periodizzante per l’ultima fase dell’interminabile vicenda. L’esplosione alla discoteca Dolphinarium dimostrava la capacità dei palestinesi di sconvolgere l’esistenza quotidiana degli israeliani in misura in qualche modo comparabile a quella loro inflitta dall’occupazione militare della Cisgiordania e di Gaza.

Il lungomare di Tel Aviv non è molto diverso da quelli di Scheveningen o di Viareggio: alberghi, una larga strada, luoghi di divertimento e stabilimenti balneari, una spiaggia profonda. Luoghi ameni, aperti, destinati al riposo e allo svago. La località israeliana, invece, il 1° giugno 2001 e il 26 febbraio 2005 è stata teatro di due attentati suicidi compiuti da giovani palestinesi che hanno causato la morte di loro coetanei israeliani in attesa di entrare in discoteca.

Nell’infinita catena di orrori che punteggiano l’ormai secolare conflitto tra arabi ed ebrei in Palestina, questi due eventi hanno un rilievo periodizzante per l’ultima fase dell’interminabile vicenda. L’esplosione alla discoteca Dolphinarium dimostrava la capacità dei palestinesi di sconvolgere l’esistenza quotidiana degli israeliani in misura in qualche modo comparabile a quella loro inflitta dall’occupazione militare della Cisgiordania e di Gaza. Così terrore e odio si diffondevano anche in quei settori della società israeliana più disponibili a ricercare con onestà e tenacia un accordo, settori già costretti sulla difensiva dallo scoppio della seconda intifada. Il secondo attentato si prefiggeva di arrestare di nuovo le trattative appena avviate dopo le elezioni palestinesi. Si può aggiungere che il giovane palestinese si è fatto esplodere subito dopo il faticoso compromesso raggiunto sulla composizione del nuovo governo palestinese, ove il vecchio gruppo dirigente di Al Fatah legato ad Arafat è stato drasticamente ridimensionato.

Nel periodo compreso tra i due eventi tutta la Palestina, è stata sconvolta dalla interminabile successione di attentati suicidi, rappresaglie, scontri a fuoco, uccisioni mirate, distruzioni di abitazioni, arresti e deportazioni. Un vero e proprio campionario dell’orrore, tutto il contrario della visione armonica, moderata e moderna della Altneuland, la terra vecchia e nuova, immaginata da Theodor Herzl come obiettivo finale del sionismo. A questo punto si è giunti dopo un processo che si è protratto per l’intero Ventesimo secolo, i cui profondi e sconvolgenti cambiamenti hanno modificato anche il modo in cui l’opinione prevalente percepiva lo stesso sionismo.

Questo, in tutte le sue articolazioni e sfumature, aveva operato, fino alla seconda guerra mondiale, nel contesto politico e culturale della preminenza europea sulla scena mondiale, nell’età dei grandi imperi coloniali inglese e francese. Era un mondo che sottovalutava o addirittura ignorava i problemi sollevati dall’espansione europea e dal conseguente dominio sulle società extraeuropee. Soltanto in quel contesto si può spiegare il successo politico e diplomatico del sionismo anteriormente alla prima guerra mondiale e, poi, durante il mandato britannico sulla Palestina.1

Con la seconda guerra mondiale e con il successivo processo di decolonizzazione il panorama è radicalmente cambiato e, di conseguenza, la presenza ebraica in Palestina ha ricevuto nell’opinione pubblica mondiale una valutazione molto meno positiva che nel periodo precedente. Questa evoluzione si è accentuata anche per la scomparsa delle cosiddette colonie di popolamento, come l’Algeria francese o il Sud Africa anglo-boero, ai quali, almeno in prima approssimazione, si può avvicinare la presenza ebraica in Palestina. In queste condizioni è comprensibile che, a partire dalla nascita dello Stato d’Israele, la reazione spontanea più diffusa al conflitto palestinese sia stata quella di vedere negli ebrei gli invasori della terra altrui e, quindi, di considerare con favore i palestinesi. Soltanto in questo modo, fra l’altro, è spiegabile il progressivo e crescente isolamento di Israele alle Nazioni Unite, ove pure fu ammesso assai precocemente dopo la proclamazione dello Stato ebraico.

Eppure, dalla sconfitta del nazismo e dalla rivelazione del genocidio degli ebrei è venuta la principale legittimazione del sionismo: il ritorno degli ebrei in Palestina e la nascita di una formazione statale ebraica erano ora giustificate, oltre che dalla tenace volontà di chi la sosteneva, anche da una persecuzione senza precedenti nella storia dell’umanità, e dunque a prescindere dalla valenza religiosa che il ritorno alla terra d’origine aveva nella tradizione ebraica. L’aspetto religioso, peraltro, era relativamente secondario nel sionismo, un movimento che si voleva laico e di sinistra, e che tale è rimasto fino a tempi relativamente recenti.

Vero è che la conoscenza della Shoah venne diffondendosi con una gradualità eccessiva, quasi che l’umanità stentasse a prendere coscienza di una realtà che metteva in discussione il fondamentale principio di ragione in base al quale chi è uomo non può considerare estraneo qualsiasi comportamento di altri uomini. Nonostante l’unicità negativa del genocidio degli ebrei, il favore con cui erano considerate le ragioni dei palestinesi è venuto aumentando in Europa, specialmente nell’opinione e nelle forze politiche di sinistra. Così la vicenda della Palestina è stata valutata in termini sempre più emotivi e sempre meno razionali. V’è da aggiungere poi che nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, la questione palestinese si è venuta caricando di una serie di implicazioni e di significati ad essa completamente estranei.

Anzitutto, essa è stata inserita nella crisi che nel Novecento ha subito il mondo arabo. Questo non è stato in grado di trarre vantaggio dalla scomparsa dell’Impero ottomano, sia per l’invadenza delle potenze coloniali europee, sia, soprattutto, per le proprie divisioni interne tra i sostenitori dei vecchi equilibri semifeudali e i modernizzatori che assunsero ben presto il panarabismo come bandiera. Questo confronto generale si complicava ulteriormente mentre si scomponeva nelle formazioni statali arabe più o meno artificiose uscite dai trattati di Versailles o dai successivi accordi. Così, tutti gli Stati e tutte le forze politiche arabe utilizzarono il sionismo come la testa di turco sulla quale battere il più duramente possibile, per i motivi che ciascuna di esse riteneva convenienti e che quasi mai coincidevano tra loro. E, soprattutto, non tenevano conto degli interessi delle popolazioni arabe di Palestina.

In secondo luogo, come quasi tutti i conflitti politici o militari della seconda metà del Novecento, il conflitto (prima arabo-israeliano e poi, gradualmente, israelo-palestinese) è stato inserito nella contrapposizione globale tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Questa, fino a quando è durata, non ha operato certo nel senso di una riduzione delle tensioni e delle asprezze del conflitto, pur non mancando di esercitare in alcune occasioni una funzione stabilizzatrice, come del resto è avvenuto in altre situazioni.

Infine – e questo è lo sviluppo più recente e pericoloso – dopo l’11 settembre 2001, il problema palestinese è stato collegato alla cosiddetta guerra al terrorismo, a torto considerato un fenomeno unitario. Ma quello che accade in Palestina continua a meritare una considerazione tutta speciale e nessuno che persegua onestamente una qualche soluzione del problema può continuare a collegarla con altre questioni.

Questa premessa di lungo periodo appare necessaria per spiegare come oggi, a cento anni di distanza dai primi e limitati contrasti tra i primi coloni ebrei e la popolazione palestinese, sia quasi impossibile dare una spiegazione spassionata ai fatti che continuano a verificarsi in Cisgiordania e a Gaza, ove, a detta dei palestinesi, gli israeliani proseguono nella costruzione del muro di sicurezza (notizia confermata da fonti israeliane) e continuano a confiscare territori palestinesi, specialmente attorno a Gerusalemme, nell’intento di un’ulteriore colonizzazione, mascherata dall’annunciato ritiro unilaterale da Gaza.2 Queste affermazioni, a loro volta unilaterali, introducono il vero interrogativo del momento: qual è il grado di credibilità reale delle relativamente nuove dirigenze delle due parti ai fini della pace?

L’elezione di Abu Mazen a presidente dell’Autorità palestinese (o meglio di quel che ne resta) dopo la morte di Arafat ha portato a un profondo rimaneggiamento dei gruppi dirigenti di Al Fatah e a serrate trattative con i gruppi più intransigenti e oltranzisti, compreso quello religioso di Hamas, per giungere a una tregua effettiva e durevole che consenta una seria ripresa della trattativa. Per quanto anch’egli strettamente legato ad Arafat, Abu Mazen ha notevoli credenziali di trattativista, avendo contribuito più di ogni altro, insieme con l’israeliano Yossi Beilin, al provvisorio, reciproco riconoscimento tra israeliani e palestinesi nell’ultimo decennio del secolo scorso.

Alle caratteristiche e alle inclinazioni personali di Abu Mazen a rendere positive le prospettive da parte palestinese si aggiungono, come fattore decisivo, le dinamiche sociali e politiche della popolazione di Gaza e della Cisgiordania. E, da questo punto di vista, le prospettive per una ripresa del processo di pace appaiono complessivamente incoraggianti, come dimostra il recentissimo accordo raggiunto al Cairo da 13 organizzazioni armate palestinesi per mantenere la tregua, in cambio della cessazione delle aggressioni israeliane e della liberazione di tutti i prigionieri.

In modo solo apparentemente paradossale è a Yasser Arafat che va attribuito il merito principale dell’evoluzione che ha permesso lo svolgimento di libere e partecipate elezioni nella Cisgiordania occupata (quello dell’occupazione militare straniera è il solo punto di contatto con le quasi coeve elezioni irachene, che hanno avuto un significato completamente diverso). È ad Arafat e all’organizzazione da lui guidata che si deve la nascita di una coscienza nazionale del popolo palestinese; è alla sua pluridecennale battaglia, condotta almeno in ugual misura contro gli Stati arabi e i loro egoismi e contro Israele, che sono da ricondurre le capacità di autoorganizzazione che hanno consentito, durante la prima intifada, di trasformare la primitiva tecnica del lancio di pietre in forma di lotta politica e di resistenza militare3 e di diffondere nella popolazione palestinese la consapevolezza della propria identità e del proprio diritto al riconoscimento come nazione, quello stesso diritto rivendicato per tanto tempo dagli ebrei di Palestina.4

Movimento in gran parte spontaneo, la rivolta palestinese avviata alla fine degli anni Ottanta ha sempre mantenuto uno stretto collegamento con l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, ed è stata anzi uno dei fattori determinanti per il definitivo riconoscimento di questa sia da parte israeliana sia da parte degli Stati Uniti, presupposto essenziale per una soluzione della questione. L’intifada contribuì anche a rendere possibili gli accordi di Oslo del 1993 e del 1995 e, quindi, a consentire che Arafat e la sua organizzazione mettessero piede per la prima volta in quella che, comunque si voglia giudicare il conflitto, era, ed è, la loro patria.

Solo la saldatura tra il movimento palestinese nei territori occupati e l’organizzazione che per decenni si era battuta dall’esilio per la nascita di un Stato palestinese riuscì a imporre all’opinione mondiale l’idea che il principio della «pace in cambio della terra» poteva essere attuato soltanto nel quadro di un rapporto diretto tra gli israeliani e i palestinesi.

L’uccisione di Rabin ed il ritorno d’Israele a governi di destra ritardarono di molto il processo di pace con gravi conseguenze politiche all’interno dello schieramento palestinese. Due, tra loro collegate, meritano una particolare considerazione. Anzitutto, la complessità del rapporto tra il gruppo dirigente tornato dall’esilio e il movimento che aveva condotto la lotta interna contro gli occupanti, giovandosi anche della complessiva crescita culturale degli strati sociali più elevati della popolazione palestinese. I dirigenti dell’intifada, pur rispettosi dei meriti di Arafat e del suo gruppo dirigente, e disposti ad accettarne l’oscillante direzione politica, rifiutavano i contrasti tra i diversi gruppi all’interno dell’organizzazione e le forme di mediazione tradizionale e, ancor più, rifiutavano la diffusa corruzione.

In secondo luogo, la delusione seguita agli accordi di Oslo favoriva notevolmente l’ascesa di organizzazioni che già in precedenza avevano più o meno apertamente introdotto l’elemento religioso nella lotta politica e nel conflitto con Israele. La principale di queste organizzazioni, Hamas, sorta nel 1988 come emanazione dei Fratelli musulmani, si radicò rapidamente nella società palestinese, riuscendo a trovare consensi tanto nella borghesia devota, quanto nella gioventù radicalizzata e fornendo un contributo rilevante alla prima intifada. La formazione dell’Autorità nazionale palestinese pose un freno all’estremismo di Hamas, che, in definitiva, operò come una spina nel fianco di Arafat e dell’OLP, condizionando l’andamento delle defatiganti trattative con Israele, pur se la stessa organizzazione islamica, proprio per il suo radicamento sociale, doveva tener conto delle disastrose condizioni di vita in cui la repressione israeliana teneva la popolazione palestinese.5 Quelle condizioni si sono enormemente aggravate con la seconda intifada e con quattro anni di conflitto aperto: l’enorme divario di potenza tra i due contendenti ha esplicato tutte le sue distruttive conseguenze sulla parte più debole, che, pur disposta a continuare a battersi, non può oggi non desiderare, se non la pace, almeno un drastico allentamento della tensione.

Non sembra di essere partigiani affermando che da parte israeliana le prospettive verso la pace hanno segno contrario. E, si badi, quest’affermazione non dipende dalle caratteristiche soggettive di Ariel Sharon, la cui storia personale è quella di un erede del sionismo revisionista di Jabotinsky e di Begin, fortemente nazionalista, preoccupato esclusivamente della sicurezza d’Israele, diffidente fino al disprezzo degli arabi in generale e dei palestinesi in particolare. Dalla spregiudicata azione militare dell’ottobre 1973, quando, di propria iniziativa, fece ritardare la tregua con l’Egitto giungendo con il suo corpo corazzato ad accerchiare gli egiziani sulla riva occidentale del Canale di Suez, alla passeggiata dell’ottobre 2000 sulla spianata delle Moschee a Gerusalemme che innescò la seconda intifada, i comportamenti di Sharon non lasciano adito a dubbi. Su quel gesto provocatorio e sul successivo fallimento degli ultimi sforzi di Clinton per giungere ad una soluzione negoziata e nonostante gli accordi raggiunti a Taba nel gennaio 2001, Sharon fondò il proprio successo elettorale, riuscendo finalmente a diventare primo ministro. Anche prima dell’11 settembre, la repressione dell’intifada era stata durissima, ricevendo poi una apparente ulteriore legittimazione dalla guerra al terrorismo. Ma lo stesso Rabin, come ministro della difesa, non era stato da meno nelle diverse condizioni della prima rivolta palestinese.

A nessuno, dunque, può essere negato il diritto di cambiare opinione occorre quindi superare i pregiudizi ed esaminare la situazione che si è creata in Israele dopo la decisione di Sharon di procedere in tempi certi e ravvicinati allo smantellamento degli insediamenti israeliani a Gaza e dopo la formazione del governo di unità nazionale con il sostegno anche delle forze politiche più coerentemente pacifiste.

In realtà, la decisione di un ritiro unilaterale israeliano dal territorio ex-egiziano di Gaza è sicuramente un fatto positivo, pur se il costo dell’occupazione era divenuto sempre meno sostenibile nelle condizioni di violentissima contrapposizione della seconda intifada. Inoltre il suo carattere unilaterale legittimava il dubbio che si riproponesse il tema della rappresentanza palestinese che sembrava definitivamente superato nell’ultimo decennio del secolo scorso. Dubbio confermato dal rifiuto di considerare valido interlocutore Arafat, al quale la versione prevalente attribuiva il fallimento delle trattative condotte da Clinton e un incredibile rifiuto di condizioni onerosissime per gli israeliani.6 Il rifiuto di considerare rappresentativo Arafat da parte del governo Sharon, avallato dell’Amministrazione Bush, ha finito per configurarsi come un aggiornamento del vecchio diniego di rappresentatività all’OLP e ha fatto sprecare tempo prezioso.

La provvisoria ripresa del dialogo con Abu Mazen e la nuova dirigenza palestinese sembra fugare i dubbi di questo tipo e consente di considerare reale il cambiamento di Sharon: dopo tutto si tratta di un sionista che non può non avere a cuore le condizioni di vita del suo popolo e non condividere l’interesse ad una Palestina pacificata, anche se con confini non coincidenti con quelle biblici di Eretz Israel. Anche Menachem Begin, l’uomo che Ben Gurion non voleva nominare nei dibattiti alla Knesset, aveva smantellato insediamenti ebrei e restituito il Sinai, terra conquistata da Israele, anche se non compresa nei confini biblici. La precisazione non è certo trascurabile.

Sulla questione degli insediamenti, però, Ariel Sharon non potrà evitare di fare i conti col proprio passato. Strenuo difensore da sempre della sicurezza d’Israele, Sharon, specialmente nel suo ruolo di ministro dell’edilizia in vari governi, è stato il principale artefice della moltiplicazione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania nell’intento dichiarato di porre di fatto le premesse o per l’annessione dei territori occupati nel 1967 o, quanto meno, per ostacolarne o addirittura renderne impossibile la retrocessione. Non risulta che le posizioni del premier israeliano abbiano una valenza religiosa e sacrale come quelle degli estremisti del Gush Emunim, per i quali la Giudea e la Samaria sono necessariamente parte d’Israele, dal momento che, altrimenti, sarebbe vanificata la profezia del ritorno nella terra promessa. L’elemento fondamentale, da questo punto di vista, consiste nell’accertare se Sharon abbia seguito un percorso non dissimile da quello di Rabin circa la rilevanza del possesso della Cisgiordania per la sicurezza d’Israele. Rabin era giunto alla conclusione che a garantirla fossero sufficienti strumenti militari adeguati allo sviluppo delle tecnologie convenzionali nell’ambito del territorio compreso tra il Giordano e il Mediterraneo.

In questo contesto assume rilievo la questione della costruzione del muro di sicurezza destinato a separare la Cisgiordania – o più esattamente la parte di essa il cui possesso è considerato essenziale dagli israeliani – dal territorio ebraico. La decisione appariva giustificata nel tragico contesto della seconda intifada, ma il suo carattere unilaterale la rende pericolosa qualora il clima complessivo dovesse cambiare. Sarebbe necessario, a quel punto, un approccio comune alla questione, anche eventualmente per definire un percorso della barriere che minimizzi i disagi e le sofferenze inflitte ai palestinesi. È chiaro però che il muro di sicurezza dovrà avere carattere provvisorio, altrimenti in futuro un eventuale accordo sarà ancora una volta aleatorio ed effimero.

Resta il fatto che nella questione degli insediamenti la componente religiosa ha maggior peso delle ragioni di sicurezza ed è essenziale nell’estremismo dei coloni. Anche se, oggi, nella loro stragrande maggioranza dovrebbero essere definiti pendolari, dal momento che gli insediamenti più consistenti e più recenti sono suburbi dei maggiori centri israeliani, i coloni, tenendo artificiosamente in vita uno dei miti del sionismo, continuano a creare fatti compiuti che complicano maledettamente la vicenda.

Già si sono registrate pronunce rabbiniche che denunciano sul piano religioso la rinuncia a terre facenti parte di Eretz Israel e giustificano a priori il rifiuto di obbedienza dei militari ultraortodossi nell’eventualità che il governo sia costretto a rivolgersi all’esercito per lo smantellamento degli insediamenti di Gaza. Ci sono dunque tutte le premesse per uno scontro all’interno della società israeliana assai più aspro e diffuso di quello svoltosi al momento dell’abbandono del Sinai. Certo nessuno può dubitare delle capacità decisionali di Sharon. Ed anche fidando nella capacità della sinistra israeliana d’influire sulle scelte del premier, non sembra dubbio che anche il primo passo in materia di abbandono degli insediamenti sarà penoso, e ancor più penosi saranno quelli successivi, avvalorando il giudizio fornito sopra sulla minore disponibilità israeliana di portare a compimento il processo di pace.

Resta a questo punto da considerare l’ultimo fattore, quello del contesto internazionale nel quale potranno svilupparsi le trattative future. La caratteristica principale, e negativa, di tale contesto è stata la sua mutevolezza, tanto a livello regionale quanto globale.

I problemi del mondo arabo, ai quali si è fatto cenno, hanno fatto registrare dopo la seconda guerra mondiale, una mutevolezza straordinaria, con evoluzioni interne agli Stati, rivoluzioni, cambi di regimi e di alleanze, che ogni volta si sono ripercossi sulla vicenda palestinese, con conseguenze non inferiori a quelle dei bruschi cambiamenti della politica israeliana, legati a loro volta alla vivace dialettica democratica dello Stato ebraico. A livello globale, oltre agli effetti generali della contrapposizione tra Stati Uniti e Unione Sovietica, nel passato hanno contato molto i cambiamenti e le svolte della politica americana: basti pensare che, dal 1967, ben otto presidenti e dodici Amministrazioni hanno guidato la politica degli Stati Uniti nella questione palestinese. In linea di massima, si può individuare una tendenza stabile che, con la notevole eccezione di Kissinger, si riassume in un maggior favore verso Israele e nella profusione di un maggiore impegno nella questione palestinese da parte delle Amministrazioni democratiche rispetto a quelle repubblicane. Ciò non impedisce che la politica americana abbia registrato svolte e oscillazioni decisive sia nella questione arabo-israeliana sia in quella israelo-palestinese, anche dovuta alla complessità dei problemi e al tempo necessario ai dirigenti di maggior spicco per impadronirsene.

Quanto agi altri protagonisti del sistema delle relazioni internazionali, l’Unione Sovietica aveva precocemente assunto una posizione filoaraba, ma il suo ruolo è stato nella vicenda del tutto conforme a quello svolto globalmente: gestire un equilibrio apparente in modo che i propri protetti non fossero travolti e potessero, le poche volte che ne erano capaci, sviluppare iniziative a proprio vantaggio, senza peraltro poter alterare gli equilibri esistenti. Non vi è dunque da meravigliarsi se la sua scomparsa, non certo compensata dalla pur persistente presenza russa nello scacchiere,7 ha aumentato di molto l’importanza del ruolo degli Stati Uniti.

L’Europa occidentale, pur generalmente meglio predisposta nelle sue componenti principali (e specialmente con la Francia ) in senso filopalestinese ha mantenuto nella vicenda la caratteristica principale della sua politica internazionale, quella cioè di procedere in ordine sparso per l’incapacità, invero decrescente, di elaborare ferme e definite posizioni comuni.

Arafat non è stato certo il solo a rimanere spiazzato nelle proprie aspettative a proposito della politica dell’Amministrazione di G.W. Bush che, nonostante il proprio iniziale pragmatismo in politica estera, assunse subito nella questione palestinese una posizione di netto distacco. Questa scelta contraddiceva non soltanto l’attivismo dell’ultimo Clinton, ma anche una regola di esperienza largamente accettata nella diplomazia americana: l’impegno da profondere per conseguire risultati politici è una precondizione indispensabile nella questione palestinese.

Il distacco americano ha contribuito non solo all’accantonamento delle proposte per realizzare una tregua, con le successive elaborazioni che hanno condotto dal «piano Mitchell» alla Road Map, ma anche all’aumento della violenza nel conflitto asimmetrico della seconda intifada, rendendo man mano più difficile la ripresa di qualsiasi discorso e indebolendo in entrambi gli schieramenti le posizioni favorevoli a continuare nella ricerca di un accordo.

L’abbandono di ogni forma di pragmatismo da parte dell’Amministrazione Bush, collegato ma non esclusivamente dovuto agli attentati dell’11 settembre 2001, e l’adozione aperta della linea neoconservatrice hanno ulteriormente sbilanciato la posizione degli Stati Uniti a favore d’Israele. Nel nome della comune lotta al terrorismo, il tradizionale e certo ben delimitato distacco dei repubblicani americani nei confronti delle posizioni israeliane ha ceduto il passo all’approvazione totale della linea dura attuata dal governo Sharon.

La situazione è nuovamente cambiata con l’inizio del secondo mandato di Bush e con il lancio della politica di estensione della democrazia nel Medio Oriente. E, da questo punto di vista, la risposta palestinese non poteva essere più pronta, dimostrando che esistono tutte le condizioni per la nascita di uno Stato palestinese in condizione di sopravvivere in un territorio delimitato e continuo, come del resto la stessa Amministrazione Bush ha riconosciuto. Ma, anche per questa come per Sharon, i problemi verranno dallo smantellamento degli insediamenti: la democrazia, in questo caso, postula il sostegno più fermo alle decisioni di un governo sostenuto dalla maggioranza di un parlamento liberamente eletto, com’è quello di Sharon. Purtroppo, nell’elettorato della destra religiosa americana è diffuso il favore per l’annessione a Israele della Cisgiordania sulla base di interpretazioni più o meno astruse delle scritture che, almeno in un caso, attribuiscono addirittura ad Eretz Israel anche la Trangiordania.8

Il programma dell’estensione della democrazia in Medio Oriente va probabilmente inteso come un’estensione al piano politico della lotta al terrorismo, sinora limitata al piano militare, con un’impostazione che sin dall’inizio appariva drammaticamente inadeguata. Vi sarebbe dunque di che rallegrarsi, se, dal punto di vista delle prospettive di pace in Palestina, essa non rischiasse di sollevare altre problematiche. Non v’è dubbio che la soluzione definitiva dei sacrosanti problemi di sicurezza d’Israele comporti anche la necessità di un accordo definitivo con la Siria. Sembra però lecito – nonostante ciò che ne pensino alcune mosche cocchiere italiane della politica americana – avanzare il dubbio che la pur necessaria, rapida evacuazione delle truppe siriane dal Libano sia la forma migliore per iniziare il processo di estensione della democrazia e favorire la sicurezza d’Israele. Gli equilibri politici libanesi sono sempre stati delicati e nessuno meglio di Sharon è in grado di apprezzarlo, dal momento che fu la sua guerra del 1982 ad alterarli definitivamente e a consolidare l’occupazione siriana del paese dei cedri.

Da tutte le considerazioni sin qui svolte si evince con chiarezza che il cammino da compiere per attuare nella sua forma corretta il principio dello scambio tra la terra e la pace già sancito implicitamente nella risoluzione 242 delle Nazioni Unite è ancora lungo e accidentato. Risulta anche che protagonisti del processo dovranno essere il governo israeliano e quello dell’entità palestinese, sebbene il peso del passato impedisca di lasciarli soli nel cammino.

Sembra infatti difficile che gli altri attori che con la loro politica definiscono il contesto internazionale possano ulteriormente contribuire alle soluzioni di dettaglio, dopo i grandi progressi compiuti nel secondo mandato di Clinton. Questi già definivano con sufficiente chiarezza una soluzione complessiva. Quel che questi soggetti – il Quartetto – potranno fare utilmente, attraverso un adeguato uso degli incentivi prevalentemente economici e delle pressioni politiche, è garantire un sostanziale equilibrio nella trattativa diretta. Ciò non potrà non tradursi in un sostegno alla parte più debole, vale a dire, oggi, quella palestinese.

Ancora una volta, il destino della Palestina sta nelle mani di quanti nei due schieramenti hanno raggiunto la convinzione che solo l’ostinato uso della ragione può consentire il contemperamento di posizioni fideistiche ed emotive che troppi lutti hanno portato alla regione. È in questo processo che si misurerà anche la sincerità della conversione di Sharon, se, cioè, egli sarà capace, con il coraggio e la forza già abbondantemente dimostrati in passato, di usare la fermezza all’interno della società israeliana e, con la pazienza e la ragionevolezza che deve ancora dimostrare, di misurare le reazioni a possibili provocazioni provenienti dal campo avverso.

In questo modo potrà essere possibile ricreare gradualmente un clima di fiducia in cui elaborare l’accordo complessivo, sostanzialmente già definito a Taba, e ulteriormente precisato a Ginevra dai pacifisti di entrambe le sponde, consentendo la nascita di uno Stato palestinese vitale e, a Israele, la conservazione di limitate porzioni di territorio per gli insediamenti ormai consolidati e che non interrompano la continuità territoriale della nuova formazione statale.

Se non ci sarà un colloquio reale e diretto, se gli attentati e le rappresaglie continueranno, se lo smantellamento degli insediamenti – autorizzati o arbitrari che siano – sarà centellinato o, addirittura, essi saranno aumentati, le sofferenze non avranno fine. Ma, a quel punto, il sionismo avrà perduto il carattere di nobile utopia di un popolo disperso e spesso perseguitato, eppure «scelto, sicuro di se stesso e dominatore», secondo le parole di de Gaulle, per divenire l’ultimo dei tragici miti del Novecento.

 

 

Bibliografia

1 Per l’attività dei due principali esponenti del sionismo nelle sue fasi iniziali, Herzl e Weizmann, si veda D.J. Goldberg, Verso la Terra promessa. Storia del pensiero sionista, Bologna, 1999, rispettivamente alle pp. 105-117 e 141-142.

2 Così si esprime un documento inserito nel sito internet delle Nazioni Unite intitolato «Identical letters dated 22 February 2005 from the Chargé d’affaires a.i. of the Permanent Observer Mission of Palestine to the United Nations addressed to the Secretary-General and the President of the Security Council».

3 Il lancio di pietre contro gli ebrei è stato una forma di lotta degli arabi palestinesi fin dai tempi del mandato britannico. Un episodio particolarmente significativo di uso delle pietre è quello verificatosi a Hebron nell’agosto del 1929. Cfr. T. Segev, One Palestine, Complete. Jews and Arabs under the British Mandate, Londra 2000, p. 319. Ma il lancio delle pietre ritorna come elemento tradizionale anche in altre occasioni: così la seconda intifada ebbe avvio dal lancio di pietre dalla spianata delle moschee sul muro occidentale del tempio di Gerusalemme. Un episodio con precedenti specifici anche durante il mandato.

4 Per questa valutazione dell’importanza della prima intifada si veda M. Tessler, A History of the Israeli-Palestinian Conflict, Bloomington, In., 1994, pp. 683-696.

5 Per la ricostruzione dell’evoluzione di Hamas fino dalle origini cfr. G. Kepel, Jihad. Expansion et déclin de l’islamisme, Parigi 2001, pp. 478-491. Il fatto che il libro sia uscito in perfetta contemporaneità con gli attentati dell’11 settembre 2001 pur parlando di «declino dell’islamismo» non toglie validità all’analisi complessiva e differenziata del fenomeno dell’integralismo islamico.

6 La questione sembra essere assai più complessa. La versione di Clinton è esplicitamente nel senso indicato nel testo (cfr. My Life, New York, 2004, pp. 943-946), ma occorre tener conto della sua frustrazione per non essere riuscito a ottenere in extremis un successo di portata storica. In realtà, Arafat accettò le proposte di Clinton il 3 gennaio 2001, chiedendo però alcuni chiarimenti (cfr. W.B: Quandt, Peace Process. American Diplomacy and the Arab-Israeli Conflict Since 1967, Washington D.C. 2001, p.372). Dennis Ross, uno dei principali collaboratori di Clinton in questa vicenda, esprime un giudizio articolato e autocritico, sottolineando come tutta la trattativa finale fu condotta senza tenere in adeguato conto le condizioni esistenti sul campo anche con Barak a capo del governo e Peres ministro degli esteri. Cfr. Ch. Elderlin, Le reve brisé, Parigi 2002, pp. 274-275. Il giornalista francese giunge a smentire la versione prevalente, avvalendosi di testimonianze dirette e di documenti originali e opera di una minuziosa ricostruzione delle vicende in questione, condotta dal punto di vista dei pacifisti israeliani.

7 Sull’azione svolta dalla diplomazia russa in questa fase cfr. Y. Primakov, Russian Crossroads. Toward the New Millennium, senza luogo di ed., 2004, pp. 196-201. L’uomo politico russo, riferendosi ai suoi contatti con Netanyahu, allora primo ministro israeliano ed espressione dell’estrema destra, esprime il giudizio che proprio i più decisi esponenti della destra possono dare un contributo al raggiungimento della pace. Un’opinione che lascia ben sperare sulla possibile evoluzione futura di Sharon.

8 W. Russel Mead ha recensito su «Foreign Affairs» (nov.-dic. 2004, p. 150) tre volumi, comprati in una libreria cristiana in Georgia, nei quali, tra l’altro, si sostengono le tesi indicate nel testo e conclude che «(…) pubblicazioni come queste stanno contribuendo a definire il futuro della politica degli Stati Uniti nel Medio Oriente più della maggior parte dei libri pubblicati da studiosi con credenziali ed opinioni più convenzionali».