Per una nuova Strategia di Lisbona

Written by Stefan Collignon Tuesday, 01 March 2005 02:00 Print

In occasione del Consiglio Europeo di Lisbona del marzo 2000, i capi di Stato e di governo promisero di rendere l’UE «l’economia basata sulla conoscenza più dinamica e competitiva del mondo, capace di dar vita a una crescita economica sostenibile con posti di lavoro più numerosi e migliori, maggiore coesione sociale e rispetto per l’ambiente» entro il 2010. Se tale dichiarazione era intesa a suscitare entusiasmo, allora non è stata capace di centrare il bersaglio. Assumendo un impegno al di sopra delle proprie capacità e promettendo obiettivi irraggiungibili ha di fatto ridicolizzato la politica europea. Con quella che potremmo definire una fuite en avant i governi hanno successivamente aggiunto voci allettanti a una lista sempre più lunga di desideri da realizzare, nella quale risuonavano gli echi dei vari desiderata più o meno cari al proprio elettorato nazionale.

 

In occasione del Consiglio Europeo di Lisbona del marzo 2000, i capi di Stato e di governo promisero di rendere l’UE «l’economia basata sulla conoscenza più dinamica e competitiva del mondo, capace di dar vita a una crescita economica sostenibile con posti di lavoro più numerosi e migliori, maggiore coesione sociale e rispetto per l’ambiente» entro il 2010. Se tale dichiarazione era intesa a suscitare entusiasmo, allora non è stata capace di centrare il bersaglio. Assumendo un impegno al di sopra delle proprie capacità e promettendo obiettivi irraggiungibili ha di fatto ridicolizzato la politica europea. Con quella che potremmo definire una fuite en avant i governi hanno successivamente aggiunto voci allettanti a una lista sempre più lunga di desideri da realizzare, nella quale risuonavano gli echi dei vari desiderata più o meno cari al proprio elettorato nazionale. Ma all’atto pratico l’adesione alla strategia concordata a Lisbona è stata flebile e insufficiente nel produrre i risultati auspicati. Secondo la Commissione europea ciò è dipeso da «un’agenda politica che è divenuta sovraccarica, priva di coordinamento e talvolta afflitta da priorità contrastanti». Le ragioni di questa mancanza di coordinamento non sono state comprese appieno. I governi devono essere comunque esortati a «fare di più».

La Commissione europea ha invocato un nuovo inizio, concentrandosi su un numero limitato di «azioni chiave che prefigurino risultati importanti e immediati»,1 segnatamente gli investimenti, l’innovazione e l’occupazione. Ciò nonostante, per quanto si possa accogliere con favore questa iniziativa in correzione del tiro, non ci si può esimere dal notare che la «nuova» strategia presenta due lacune fondamentali: la politica macroeconomica è stata ignorata e l’intera problematica della governance non affronta in profondità le ragioni della mancanza di coordinamento. La «nuova» strategia di Lisbona pensata dalla Commissione Barroso si traduce quindi in un «meno, ma sostanzialmente lo stesso». Meno, perché la combinazione di politiche macroeconomiche e il capitolo relativo alla coesione sociale sono stati cancellati; lo stesso, perché non si affronta comunque il problema della delega politica né la questione della legittimità ad essa soggiacente.

Cerchiamo di esaminare in primo luogo il saldo delle riforme a cinque anni da Lisbona, per poi valutare le ragioni del fallimento e concludere traendo alcune riflessioni fondamentali sul futuro dell’Europa.

 

Una strategia che non va da nessuna parte?

La strategia di Lisbona ha fissato una serie di obiettivi, taluni dei quali definiti in forma di indicatori numerici. Poiché lì si trattava di obiettivi che risultavano comuni a diverse competenze delle politiche nazionali, a Lisbona fu elaborato il «metodo aperto di coordinamento», concepito come strumento funzionale al raggiungimento di tali obiettivi. Ma i risultati, finora, sono stati deludenti.

 

Di cosa stiamo parlando?

La Strategia di Lisbona trasse ispirazione dalla vigorosa crescita economica registrata negli Stati Uniti durante gli anni di Clinton e dall’incapacità dell’Europa di fare altrettanto. L’economia statunitense aveva vissuto il periodo di crescita più lungo di tutta la sua storia alla fine degli anni Novanta, con un governo capace di stabilizzare la spesa pubblica e di cooperare strettamente con la Banca centrale per ridurre i tassi d’interesse.2 Il livello d’inflazione era basso e la pressione competitiva sul mercato libero mondiale contribuiva a mantenere stabili le rivendicazioni salariali. Di conseguenza la percentuale degli investimenti negli Stati Uniti crebbe dal 16 al 21%, mentre la disoccupazione scese al 4%, toccando il livello più basso dagli anni Sessanta. I nuovi investimenti abbracciarono anche il campo delle innovazioni tecnologiche nelle industrie dell’informatica e delle telecomunicazioni, generando un incremento di produttività dopo un lungo periodo di stagnazione. Questo era di fatto il modello della new economy americana.

In Europa al contrario si registrava un alto tasso di disoccupazione, scarsi investimenti e crescita, e un senso di stagnazione percepibile ovunque. Che questo stato di cose fosse legato all’insufficiente grado d’integrazione dei mercati e delle politiche in seno all’Unione europea era un fatto indiscusso. Nel corso degli anni Novanta i successivi Consigli europei hanno avviato molteplici «processi» per trovare rimedi appropriati: a Cardiff furono adottate procedure per completare l’unificazione dei mercati di beni e capitali, a Lussemburgo si elaborarono riforme di mercato volte a migliorare la situazione occupazionale. Infine, in occasione del vertice di Colonia fu instaurato un dialogo macroeconomico tra i sindacati preposti a negoziare i livelli salariali, ministri delle finanze e Banche centrali al fine di configurare una migliore struttura del coacervo di politiche. Ma tali processi non produssero i risultati voluti. Dopo tutto, la ragione per cui furono definiti «processi» era dovuta proprio al fatto che i capi di Stato e di governo europei non erano riusciti a trovare un accordo sulla sostanza delle politiche da attuare, poiché vincolati dai rispettivi dibattiti interni e dagli interessi di parte dei propri elettorati nazionali. Vi era speranza che grazie al processo di decisione di una politica comune i governi fossero in grado di trovare una soluzione accettabile per tutti. L’unico compromesso possibile non fu altro che un minimo comune denominatore, e non politiche capaci di ottimizzare il welfare. La governance economica europea era diventata un insieme confuso di discussioni sulle riforme in un meccanismo decisionale inceppato.

La Strategia di Lisbona è stata un tentativo di superare queste difficoltà. Lasciandosi alle spalle la formula del «processo», Lisbona ha cercato di dare sostanza ai contenitori vuoti di Cardiff, Lussemburgo e Colonia. La versione finale della Strategia di Lisbona comprende quattro capitoli di natura politica: primo; le riforme mirate a creare una società della conoscenza, con l’obiettivo di permettere all’Europa di recuperare terreno rispetto alla new economy e a migliorare la produttività. Secondo, si prevedeva che tali riforme fossero integrate da una combinazione ottimale di politiche macroeconomiche, al fine di assicurare che il massimo potenziale di prodotto fosse assorbito da una domanda reale da parte del mercato senza creare tensioni inflazionistiche, ritenendo che questo fosse un fattore chiave per alzare i livelli occupazionali. È possibile creare nuovi posti di lavoro solo quando il PIL cresce più velocemente della produttività; la Commissione aveva calcolato che con un tasso di crescita del 3%, l’Unione europea avrebbe raggiunto una situazione di pieno impiego in un arco di tempo di dieci anni. Si discusse dell’opportunità di quantificare il tasso di crescita, fissandolo al 3%, come obiettivo delle politiche, specificando in questo senso il contenuto dell’Articolo 2 del Trattato sull’Unione europea.3 L’Articolo 4 stabilisce infatti che la politica monetaria agisca da sostegno agli obiettivi di cui all’Articolo 2, e segnatamente a quello di «promuovere in tutto il territorio comunitario un sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche, un alto livello di occupazione e tutela sociale, di uguaglianza tra generi, una crescita sostenibile e non inflazionistica, un elevato grado di competitività e di convergenza delle prestazioni economiche(…)», a condizione di garantire la stabilità dei prezzi. Poiché la Banca centrale europea ha definito che la stabilità dei prezzi equivale a un tasso d’inflazione «di poco inferiore al 2%», sembrava ragionevole che anche il Consiglio europeo quantificasse il proprio obiettivo di crescita. Ma questa opzione finì per essere scartata, quando un membro del Consiglio europeo suggerì che si poteva ambire a diventare «l’economia più competitiva del mondo». Terzo; il completamento del mercato dei capitali europeo era considerato misura necessaria a incrementare gli investimenti, soprattutto quelli diretti ai capitali di rischio consacrati all’innovazione tecnologica nelle piccole e medie imprese. Quarto; la Strategia tendeva a riformulare il modello sociale europeo, conferendo priorità all’inclusione sociale e mettendo in grado i governi di affrontare le sfide derivanti sia dalla globalizzazione che dall’invecchiamento della popolazione. Sotto questo punto di vista Lisbona ha di fatto rispecchiato le linee politiche dei governi di centrosinistra al governo in Europa in quel preciso momento storico. Il primo ministro portoghese Antonio Guterres concepì per la prima volta ciò che in seguito sarebbe divenuto la Strategia di Lisbona all’interno di un gruppo di lavoro del Partito Socialista Europeo. Con i successivi governi di centrodestra, l’enfasi posta sulla politica macroeconomica e sull’inclusione sociale perse di vigore e la Strategia di Lisbona finì per essere rallentata.

 

Il «metodo aperto di coordinamento»

Nella preparazione del vertice di Lisbona, la presidenza portoghese dell’Unione europea si trovò ben presto di fronte al dilemma che già si era presentato in passato: per quale ragione i governi nazionali dovevano accordarsi su una serie di politiche europee che avrebbero limitato la loro libertà di manovra sul piano nazionale? La risposta ottimistica e per certi versi ingenua fornita dai politici europei rimandava alla presenza di fattori politici esterni tali da creare incentivi a cooperare. Il Rapporto Kok ha formulato chiaramente questo concetto: «L’efficacia di qualsiasi azione da parte di uno Stato Membro (…) risulta maggiore qualora gli altri Stati membri agiscano di concerto; un’alta marea creata collegialmente ha maggiore capacità e potenza nel sollevare ogni singola barca europea. Quanto più l’Unione europea riuscirà a sviluppare in modo collettivo le proprie iniziative di conoscenza e di apertura al mercato, tanto più forte e più competitiva sarà l’economia di ognuno degli Stati Membri».4 Per anni la Commissione ha insistito sugli «enormi benefici potenziali» derivanti da un’integrazione più ampia e profonda, e sui costi della non-Europa. Resta da spiegare perché questi benefici non si siano realizzati nonostante gli ovvi vantaggi che tutti ne trarrebbero.

La risposta non si limita soltanto alla mancanza di convergenza o a un sostegno insufficiente, come affermato dalla Commissione, ma deve essere reperita nella natura stessa degli incentivi che innescano le dinamiche dell’azione politica. I politologi spiegano con la teoria dell’azione collettiva che l’esistenza di potenziali ricadute positive non basta a garantire un comportamento cooperativo.5 Se non si associano i costi e i benefici delle azioni da intraprendere a ogni singolo attore, il risultato sarà inevitabilmente la mancanza di cooperazione. Tale concetto può essere meglio descritto come la logica divergente di due tipi differenti di beni pubblici: i cosiddetti beni pubblici inclusivi creano effetti esterni che sono tanto più positivi quanto più numerosi sono i membri che partecipano a un gruppo, e poiché è possibile imporre restrizioni all’accesso, ogni singolo attore si sforzerà di contribuire alla generazione di tali benefici. Quindi i suddetti beni inclusivi forniscono incentivi al buon funzionamento della cooperazione, sempre che le eventuali asimmetrie in materia d’informazione siano corrette e tutti sappiano esattamente che cosa è necessario fare. Ad esempio, i criteri di Maastricht hanno contribuito a diminuire l’inflazione perché era nell’interesse di (quasi) tutti gli Stati partecipare ai benefici derivanti dall’appartenenza all’Unione monetaria. D’altra parte la possibilità di escludere chi non avesse ottenuto i risultati fissati, indusse i governi a sforzarsi di adeguarsi ai parametri. Le politiche di stabilizzazione furono dunque fatte «cosa propria» dagli Stati Membri. Il ruolo della Commissione consistette nel monitorare la conformità agli obiettivi e nel porre rimedio agli eventuali squilibri d’informazione così da prevenire situazioni di stallo in seno al processo. Un altro esempio positivo di cooperazione politica attuata secondo tale logica viene dall’esperienza del sistema di navigazione satellitare Galileo e dal progetto Airbus, in cui i vantaggi derivanti dalla cooperazione sono ingenti ma la possibilità di attingervi è chiaramente definita relativamente sulla base dei contributi dei partecipanti al progetto. La logica del bene pubblico inclusivo rende possibile il successo di una cooperazione volontaria tra i governi, se le procedure formali facilitano il flusso di informazioni.

Lo stesso non vale certo nel caso dei beni pubblici esclusivi. In questo caso è impossibile impedire la fruizione del bene collettivo a un membro del gruppo, e risulta quindi difficile, se non proibitivo, imputare ai membri i costi insiti alla produzione di tali beni. Se ne deduce che i beni pubblici esclusivi creano incentivi, spesso però per i free-riders. Un singolo membro può infatti trarre benefici dal deviare dalla strategia perseguita invece da tutti gli altri. Ne consegue che nessuno ritiene proficuo conformarsi, rendendo sempre più improbabile che si producano beni pubblici esclusivi. Questo problema dell’azione collettiva denominato «la tragedia dei beni comuni» è l’elemento cruciale dei deludenti risultati ottenuti dalla strategia di Lisbona. Gli Stati Membri sono spesso accusati di non avere attuato la legislazione comunitaria. La Commissione scrive che «in un certo numero di Stati Membri, mercati chiave come le telecomunicazioni, l’energia e i trasporti sono aperti solo sulla carta, molto dopo la scadenza dei termini che questi stessi Stati membri hanno di fatto sottoscritto».

La ragione va trovata nei problemi dell’azione collettiva. È innegabile che la presenza delle strutture di produzione integrata e delle catene dell’offerta determinino l’interesse di ogni Stato Membro a che gli altri Stati dell’Unione migliorino la propria competitività, e che questo generi un interesse comune dell’Unione nei confronti delle iniziative di riforma.6 Ma nel momento in cui tutti gli altri liberalizzano i propri mercati, può essere vantaggioso per i singoli paesi mantenere più a lungo le proprie restrizioni per conquistare potere di mercato nel contesto del mercato unico allargato. Un altro esempio di coordinamento fallito nel campo dei beni pubblici esclusivi è quello della politica di bilancio sulla base del Patto di stabilità e crescita. Se la politica monetaria tende a mantenere la stabilità dei prezzi, deficit pubblici più alti faranno aumentare i tassi d’interesse d’equilibrio e, di conseguenza, inibendo la crescita economica. Il Patto ha stabilito come norma il bilanciamento di budget adeguati su base ciclica, allo scopo di contenere i tassi d’interesse. Ma in corrispondenza di tassi d’interesse bassi, per il singolo Stato Membro risulta più vantaggioso prendere denaro in prestito piuttosto che aumentare le tasse o tagliare le spese. Quindi all’atto pratico il Patto di stabilità e crescita non viene rispettato, i deficit strutturali sfiorano il 2% del PIL nell’insieme di Eurolandia (e vanno oltre il 3% in Francia e Germania), mentre i tassi d’interesse non scendono, perdendo così l’effetto stimolatore nei confronti della crescita e dell’occupazione.

È possibile dimostrare che questi problemi di incentivazione aumentano con l’aumentare delle dimensioni dell’Unione europea. La giusta risposta politica sarebbe la promulgazione di norme vincolanti dure e restrittive, o il conferimento di una delega politica a un’istituzione europea, in modo da garantire l’applicazione di una politica coerente e uniforme nel pieno interesse dell’Unione.7

In verità è proprio a questo tipo di manovra che i governi nazionali fanno resistenza, in parte perché vogliono mantenere il controllo dei propri programmi politici, e in parte perché ritengono che sia difficile «vendere ancora altra Europa» in un momento in cui l’Europa è già così debole. In una situazione di grande eterogeneità delle preferenze politiche nazionali, un’iniziativa di centralizzazione a livello europeo potrebbe compromettere ulteriormente la legittimità dell’Unione europea.8 Una maggiore delega di poteri non è dunque percepita come un’opzione percorribile.

In ragione di queste limitazioni, Lisbona elaborò il «metodo aperto di coordinamento». Gli Stati Membri si impegnavano a raggiungere obiettivi politici specifici concordati collegialmente, ma avevano facoltà ad attuarli autonomamente. La misura di salvaguardia contro eventuali comportamenti non cooperativi sarebbe stato il controllo multilaterale, tramite la Commissione come fulcro e la pressione dei pari che avrebbero «additato e biasimato» gli inadempienti. Il metodo aperto rappresentava dunque una forma di coordinamento politico ben più robusta della semplice azione volontaria, sebbene abbia poi sofferto della stessa dicotomia dei precedenti tentativi di coordinamento: un’azione unificata volta a fornire un bene pubblico esclusivo su scala europea è stata ancora una volta ostacolata dagli incentivi a «correre da soli». La governance economica dell’Unione rimane dunque afflitta dalla piaga dell’inefficienza, della mancanza di credibilità e da una costante erosione della propria legittimità. Se questo dato di fatto è ormai sempre più diffusamene riconosciuto, sfortunatamente non si può dire lo stesso della logica che si trova alla base di tale fallimento. Nella Comunicazione al Consiglio europeo di Primavera la Commissione sottolinea la necessità di realizzare l’«appartenenza politica» degli obiettivi di Lisbona. Ma ancora una volta, si deve andare oltre le raccomandazioni. L’appartenenza non si stabilisce «semplificando le linee guida esistenti» e nominando un «Mr Lisbona». L’appartenenza implica diritti di proprietà e quindi diritti a limitare l’accesso e a escludere chi non raggiunge i risultati decisi. Questo, ovviamente, non è possibile per i beni pubblici, e quindi la governance economica dell’Europa dovrà essere ridisegnata in termini diversi.

 

Una prestazione deludente

I progressi nel contesto della Strategia di Lisbona dovrebbero essere misurati a raffronto dell’obiettivo fondamentale di creare un’«economia dinamica».9 La crescita economica nell’Unione europea a 15 è stata dell’1,9% nel periodo 2000-2005, oltre mezzo punto percentuale al di sopra di quanto registrato nei 6 anni 1994-1999 precedenti a Lisbona. L’Unione a 25 ha stentato a fare di meglio. Nell’Eurozona il tasso di crescita è stato dell’1,7% nei cinque anni dopo Lisbona e del 2,2% prima di Lisbona. Negli Stati Uniti i tassi di crescita corrispondenti sono stati rispettivamente del 2,7 e 3,9%, in Giappone l’1,9 e l’1,2 e in Corea il 5,4 ed il 5.0%. Europa e America hanno registrato bassi tassi di crescita negli anni recenti, a fronte di una crescita sostenuta in Asia. D’altro canto, il prodotto tendenziale e il PIL potenziale hanno avuto un incremento del 2,1% nell’Unione a 15 (in Eurolandia: tendenziale dell’1,9% e potenziale del 2%). Se ne deduce che la crescita effettiva è rimasta molto indietro rispetto al miglioramento delle capacità dell’economia europea. Si può quindi concludere che la domanda aggregata sia una delle cause fondamentali della mancanza di dinamismo in Europa.

L’agenda di Lisbona era anche intesa a migliorare il potenziale di crescita in Europa: gli Stati Uniti erano riconosciuti come il paese leader nell’innovazione tecnologica, considerata la concentrazione del 74% delle trecento maggiori imprese dell’Information Technology e il 46% delle trecento società con i più alti livelli di investimento nelle attività di Ricerca e Sviluppo, con l’Europa in paragone in grave ritardo. Mantenere gli standard di vita di una popolazione che invecchia richiede a una forza lavoro sempre più esigua di divenire più produttiva. D’altra parte l’Unione europea può contare su un potenziale di crescita notevole. In 15 paesi, e soprattutto nei nuovi Stati Membri, si registra un reddito pro-capite inferiore alla media dell’Unione, e ciò implica grandi opportunità per la crescita. Migliorare il versante dell’offerta dell’economia europea sembra dunque essere un’idea promettente. La crescita potenziale non è migliorata, piuttosto la produzione è cresciuta meno di quanto non avesse fatto negli anni precedenti a Lisbona. Infatti, mentre il tasso d’occupazione è aumentato dell’1,1 raggiungendo il 67,8% nell’Unione europea a 15 e di 1,4 punti fino al 65,7% in Eurolandia, la crescita della produttività della forza lavoro (misurata in valuta nazionale costante) ha subito una flessione. Il prodotto per persona occupata10 è cresciuto in media dell’1,6% tra il 1994 e il 1999 nell’Unione europea a 15 (1,5% in Eurolandia), ma è di fatto sceso all’1,1% negli anni successivi a Lisbona. Nello stesso periodo è passato dall’1,6 al 2,2% negli Stati Uniti ed è quasi raddoppiato in Giappone, elevandosi dall’1,2 al 2,1%. Come conseguenza a queste due tendenze, la crescita del reddito pro-capite ha segnato una battuta d’arresto: nell’Unione a 15 è infatti scivolata dal 2,2 in percentuale media nei sei anni precedenti a Lisbona, all’1.6% di quelli successivi. Anche negli Stati Uniti la crescita ha subito un rallentamento nel corso del secondo mandato Bush, passando dal 2,7 all’1,7%, ma ha fatto registrare un’accelerazione dallo 0,9 all’1,8% in Giappone e dal 4,1 al 4,7 in Corea.

Questi dati tracciano un quadro coerente, seppure poco invitante: nonostante gli ampi dibattiti intorno a riforme strutturali e a elaborati processi di coordinamento tra diverse politiche, l’Europa non fa progressi. Ovviamente non tutto è così negativo. Alcuni paesi hanno riportato risultati migliori in determinate aree. La Scandinavia, ad esempio, è tra i paesi che hanno ottenuto maggiori progressi nel raggiungimento degli obiettivi quantitativi per creare una società dell’informazione, rendendo accessibile Internet a scuole e famiglie, diffondendo la banda larga e rendendo disponibile on-line l’informazione sulle attività di governo, anche se la ragione di questi risultati potrebbe essere data più dalla necessità di comunicazione in paesi a bassa concentrazione demografica che a quella di adeguarsi alle politiche comunitarie. I risultati generali sono comunque insoddisfacenti. Si conferma quindi quanto deducibile dalla teoria dell’azione collettiva, ovvero che i «grandi benefici potenziali» della cooperazione non sono sufficienti per indurre i governi a intraprendere un’azione politica.

 

La «nuova» Strategia di Lisbona

Il Consiglio europeo di primavera del 22 e 23 marzo scorso ha tentato di «rilanciare la Strategia di Lisbona» e ha adottato le regole necessarie per una «migliore attuazione del Patto di Stabilità e Crescita». Riusciranno queste misure a migliorare sia la governance che i risultati dell’economia europea?

 

Un’opportunità di rilancio mancata

La nuova partenza decisa in occasione del Consiglio di primavera per delineare una Strategia di Lisbona più efficace segue tre dorsali. In primo luogo si rinnova l’attenzione sul tema tradizionale della conoscenza e dell’innovazione. I governi nazionali e la Commissione continueranno a produrre i loro rapporti dando vita a un «dialogo genuino».11 Tuttavia nella sostanza, non vi è molto di nuovo oltre agli incentivi fiscali per raggiungere l’obiettivo del 3% del PIL in investimenti per Ricerca e Sviluppo. In secondo luogo gli Stati membri intendono «promuovere un’area capace di attrarre investimenti e lavoro». In questo caso l’obiettivo è quello di «completare il mercato interno e rendere il suo ambiente normativo più favorevole alle attività economiche». Una riduzione del carico burocratico è ovviamente auspicabile, ma è difficile pensare che questa possa da sola innalzare il tasso di crescita europeo fino al 3%. Di gran lunga più rilevante è notare che la controversa direttiva Bolkenstein sulla liberalizzazione dei servizi è stata bloccata dal Consiglio, contrariamente a quanto auspicato dallo stesso presidente della Commissione Barroso. Rimane comunque da chiarire su quale base l’integrazione del mercato interno dei servizi dovrebbe procedere. Se è vero che l’Europa deve rimanere un’ «area capace di attrarre lavoro», è forse necessario ascoltare l’opinione degli addetti ai lavori. Mentre la Strategia di Lisbona ha messo l’accento sulla necessità di ridurre la disparità di retribuzione tra i generi, è arrivato il momento di affermare il principio secondo cui l’Europa è impegnata a garantire «un’eguale retribuzione per un’eguale lavoro in un luogo di lavoro eguale». La realizzazione di questo principio scongiurerebbe il dumping sociale e spingerebbe i nuovi Stati Membri verso i livelli già consolidati nei paesi più ricchi, incrementando profitti e redditi attraverso la fornitura di servizi proprio ai paesi più ricchi. In terzo luogo, crescita e occupazione dovranno sostenere la coesione sociale. Ancora una volta, non vi è in questa affermazione molto di nuovo rispetto alle precedenti dichiarazioni del Consiglio. Sappiamo tutti che l’Europa «deve rendere il lavoro un’opzione reale per tutti». La domanda che resta sospesa è come farlo.

La risposta più consona sarebbe stata una rinnovata attenzione nei confronti della gestione macroeconomica. Coloro che decidono le politiche possono creare un ambiente dove la domanda aggregata stimola la produzione. Le aziende creano posti di lavoro qualora intravedano possibilità di profitto. Abbassare il costo del lavoro attuando riforme strutturali e incrementando la produttività può essere necessario per rimanere competitivi nel settore dei beni e dei servizi commerciabili internazionali. Ma la domanda interna rimane il fattore chiave della performance economica, come dimostrato chiaramente dal Regno Unito. Presupponendo che almeno la metà del settore servizi sia di natura commerciabile, nell’Europa a 15 la porzione del valore aggiunto non commerciale è ancora al di sopra del 43% e potrebbe addirittura andare oltre questa cifra.12 Se ne deduce che vi è una parte significativa dell’Europa in cui i profitti dipendono esclusivamente dalla domanda interna. Inoltre, un’appropriata gestione macroeconomica influenzerebbe la domanda esterna attraverso il tasso di cambio. Ed è qui che l’Europa si dimostra più debole. L’interazione degli sviluppi monetari, fiscali e salariali è infatti ciò che crea gli incentivi per le imprese a sfruttare opportunità di mercato vantaggiose. Sarebbe erroneo, dunque, concentrarsi su una sola variabile.

Nonostante i primi anni di vita dell’Unione monetaria europea abbiano creato una miscela politica positiva, raggiungendo livelli senza precedenti in termini di creazione di posti di lavoro, l’esperienza è stata troppo breve per generare un effetto decisivo sui tassi di disoccupazione. Ciò emerge chiaramente dall’evoluzione dei gap produttivi. La Commissione ha calcolato che in Eurolandia il saldo degli output gap è stato positivo nei tre anni immediatamente successivi all’entrata in vigore dell’Unione monetaria e si è successivamente mantenuto negativo. Nell’epoca d’oro degli anni Sessanta e Settanta, le probabilità per un’azienda di operare in un ambiente economico stimolato da una domanda positiva erano del 35% superiori a quelle di incorrere in un anno negativo. Ma nei 25 anni successivi al 1980, le probabilità di essere colpiti dalla stagnazione sono state superiori del 18%. Al contrario, il rapporto tra anni positivi e anni negativi per le imprese negli Stati Uniti è stato molto più equilibrato.13

Per stimolare la crescita economica sarebbero necessari bassi tassi d’interesse e/o tassi di cambio competitivi, nonché fiducia da parte dei consumatori in una crescita stabile del reddito. Se il costo del lavoro unitario scende perché i salari nominali crescono meno della produttività, la Banca centrale deve diminuire i tassi d’interesse. Ma questo non è avvenuto, nonostante la notevole opera di moderazione salariale svolta dai negoziatori sindacali europei. Negli ultimi 5 anni i salari sono cresciuti in media al ritmo della produttività, più un punto percentuale di premio d’indicizzazione, quindi in misura minore rispetto a quanto prefigurato negli obiettivi della Banca centrale europea. Se i tassi d’interesse non sono calati più rapidamente la ragione è una politica fiscale meno rigida. Soprattutto negli Stati Membri più grandi, i deficit di bilancio adeguati ciclicamente sono andati peggiorando e la maggior parte dei paesi sono ben lontani dal riuscire ad equilibrare i propri deficit strutturali. Ciò non è dovuto né agli shock né ai cicli economici, ma a scelte fondamentali di politica operate dagli Stati Membri. Il che significa sostanzialmente che i governi meno responsabili spingono verso l’alto il tasso d’interesse d’equilibrio, e i sindacati che si comportano invece responsabilmente scongiurano le conseguenze peggiori. La riforma del Patto di stabilità e crescita è divenuta a maggior ragione la variabile chiave per il buon funzionamento di Lisbona.

 

Il Patto di stabilità e crescita, stupido!

Il motto con cui Bill Clinton correva per la presidenza era «È l’economia, stupido!». Clinton vinse le elezioni promettendo di ridurre il deficit, e di stimolare la crescita e l’occupazione. In Europa l’esercizio della politica fiscale è più complicata. Le promesse di ridurre i deficit di bilancio non vengono rispettate, perché tutti sperano di potere approfittare di coloro che ottemperano al Patto di Stabilità. È nota la definizione che Romano Prodi dette del Patto di Stabilità: «stupido, perché rigido». Aveva ragione, poiché la norma che indica di equilibrare i budget strutturali in ogni Stato Membro, e quindi implicitamente anche per la dimensione aggregata, ha impedito di attuare una gestione macroeconomica attiva. Tuttavia, in una Unione monetaria, è l’intonazione della politica fiscale aggregata ciò che conta, in quanto contrappeso alla politica monetaria unica. Per aumentare l’efficacia dell’insieme delle politiche sarebbe necessario trasformare il budget aggregato in uno strumento politico e imporre contestualmente una severa disciplina a ogni singolo Stato Membro affinché tutti si conformino alla politica concordata. La riforma più corretta sarebbe dunque l’introduzione di «maggiore flessibilità nelle posizioni di politica fiscale aggregata e minore discrezionalità per i singoli Stati Membri. Il «nuovo» patto di stabilità e crescita ha fatto esattamente l’opposto: i singoli paesi sono lasciati relativamente liberi di giustificare deficit più elevati, mentre la posizione aggregata è il risultato più o meno casuale di una serie di tentativi scoordinati di free riding. Ne deriveranno tassi d’interesse più alti, minore crescita e maggiore disoccupazione. E l’Europa rimarrà la regione meno dinamica dell’economia mondiale.

Si potrebbe obiettare che dopo l’eliminazione del tasso di cambio come strumento di aggiustamento, i bilanci nazionali si trovano a dover assorbire gli shock asimmetrici dell’Unione monetaria europea. Ma va precisato che il grado di probabilità e di intensità degli shock asimmetrici in seno a Eurolandia si è notevolmente ridotto, e di fatto la crescita economica è divenuta più uniforme. La deviazione standard dei tassi di crescita nei 12 Stati dell’Eurozona è pari solo al 36% del dato del 1999. Il che mette in ancora maggiore risalto l’importanza di un pacchetto di politiche rivolte a Eurolandia nel suo insieme, e indica che un ampio margine di discrezionalità nazionale nelle politiche fiscali non potrebbe rivelarsi che controproducente e dannoso.

Sono state avanzate alcune proposte in seno al dibattito pubblico su come delineare soluzioni istituzionali flessibili ma coerenti all’interno di Eurolandia.14 Una tra le fondamentali è quella di definire quale sia la posizione ottimale in materia di bilancio aggregato, trasformando le Linee guida di politica economica in una sorta di «DPEF europeo». Ciò fornirebbe al sistema la flessibilità necessaria per reagire ai contraccolpi economici come quello del 2001. La posizione aggregata dovrebbe poi essere scorporata in quote di deficit nazionali (o addirittura regionali) relativamente alle quale ogni giurisdizione otterrebbe permessi di deficit. Nel caso in cui una giurisdizione non dovesse utilizzare la propria quota, le sarebbe consentito di vendere i permessi a un’altra autorità intenzionata a indebitarsi di più. Questo sistema, ispirato alla possibilità di scambiare i permessi di emissioni inquinanti, garantirebbe tanto la flessibilità verticale, riflettendo fedelmente le preferenze fondamentali degli uni e degli altri in materia di indebitamento e di tassazione, quanto la flessibilità orizzontale tra diverse giurisdizioni, nonché la coerenza generale della posizione fiscale.

 

La questione della democrazia

La configurazione di un contesto istituzionale migliore per la politica macroeconomica si trova innanzi la stessa problematica affrontata dall’agenda di Lisbona sul versante della domanda: i vantaggi potenziali sono enormi, ma i governi stanno ancora lavorando per raggiungerli. L’Europa deve dunque concentrarsi sul nucleo principale della propria governance: la democrazia. Poiché le resistenze contro un coordinamento politico più efficace sono in ultima analisi da attribuire al problema della legittimazione democratica.

Il problema si pone in questi termini: secondo la definizione classica, uno Stato democratico costituzionale consiste in un ordinamento politico «creato dal popolo e legittimato dall’opinione e dalla volontà del popolo stesso, il che permette ai destinatari delle leggi di considerarsi anche come autori della legge». Il dibattito politico è dunque una condizione irrinunciabile ai fini della formazione di una volontà collettiva, ed è attraverso l’elezione di un esecutivo che gli elettori potranno guardare a se stessi come a coloro che sono in ultima analisi gli autori della legge e quindi l’autorità sovrana. Ma nell’Unione europea le decisioni politiche in questo senso non possono essere ritenute propriamente democratiche. Certo, i cittadini possono revocare il mandato ai governi nazionali in occasione delle elezioni nazionali, dopo che un dibattito nazionale ha definito la volontà collettiva in seno all’elettorato interno. Ma rispetto ai beni collettivi europei, i governi nazionali agiscono in qualità di agenti, per conto di un «principale» che invece è solo una frazione della popolazione europea. Questi agenti nazionali decidono le politiche a livello europeo che riguarderanno tutti i cittadini europei, seppure rappresentando solo la volontà di alcuni cittadini europei.15 Ciò significa che la formazione della volontà democratica in un paese presenta degli elementi esterni, che di fatto influiscono su altri elettorati nazionali. I compromessi politici negoziati a livello europeo sono imposti a una maggioranza di cittadini che non sono stati direttamente coinvolti nel processo di formazione della volontà collettiva e che quindi non si considerano «autori della legge». Questo vale per tutti i singoli paesi, ed è quindi facile capire perché le decisioni di politica europea non possano mai fruire dello stesso grado di legittimazione di cui godono invece quelle adottate in sede nazionale. Ciò crea la percezione dell’esistenza di un «deficit democratico» in Europa. Moravcsik sostiene che questo è semplicemente il modo in cui funzionano le «democrazie industriali avanzate»,16 poiché funzioni tecniche di limitato impatto elettorale sono spesso derogate a istituzioni specializzate. In questo tipo di ambito, la legittimazione dell’output (ossia risultati positivi) prende il sopravvento su quella dell’input (cioè il diritto di scegliere). Ciò poteva essere giustificato nel quadro di un’integrazione europea relativamente limitata, ma nel momento in cui il programma politico di Lisbona inizia a incidere sui costumi di vita dei cittadini europei, e quando il coordinamento delle politiche fiscali coincide con l’assunto intoccabile secondo cui «non c’è tassazione se non c’è rappresentanza», i cittadini europei reclamano il diritto di decidere da soli. Resta il fatto che l’unico canale istituzionale attraverso il quale essi possono esprimersi è quello dell’iter democratico nazionale e non quello europeo. Di conseguenza gli interessi nazionali prevalgono su quelli europei e i problemi che impediscono il corretto svolgimento dell’azione collettiva finiscono per inibire l’attuazione di politiche efficaci. L’Europa è arrivata a un punto in cui la mancanza di legittimazione dell’input va a minare alle fondamenta quella dell’output.

Le prospettive per il futuro dell’Europa sono scure, ma non senza speranza. Ci vuole poco a immaginare che se l’Europa continuerà sulla via dell’approccio intergovernativo e non su quello democratico di Lisbona, a cinquant’anni dall’unificazione europea l’Unione morirà dopo lunga agonia per una situazione di stallo, stagnazione economica e promesse non mantenute. Né possiamo escludere l’eventualità di una crisi più violenta, con l’avvento dei partiti di estrema destra al potere e il blocco di qualsiasi progresso. Al contrario, l’Europa potrà fare un balzo decisivo in avanti e sarà in grado di creare una vera e propria democrazia se le scelte di politica europea saranno il risultato di un dibattito democratico, e quando saranno tutti i suoi cittadini a scegliere il governo europeo, ovvero quando vi sarà una «Repubblica europea».17 Resta tuttavia il dilemma fondamentale: quale governo vorrà dare vita a una democrazia europea se questo significa rinunciare al proprio potere? Forse l’unica via d’uscita è che i cittadini stessi si mobilitino e lavorino in Europa a fianco dei partiti politici. A seguito di decisioni collettive transeuropee, risultato della competizione tra i partiti, emergerà un nuovo consenso democratico imponendo le preferenze dei cittadini per la democrazia sulle resistenze dei governi nazionali.

 

Bibliografia

1 J. Barroso, Debate on the Preparation of the European Council, Parlamento europeo, 9 marzo 2005.

2 B. Woodward, Maestro: Greenspan’s Fed and the American boom, New York 2000.

3 L’autore era allora responsabile del coordinamento delle politiche interministeriali presso il governo tedesco.

4 Wim Kok, Facing the Challenge. The Lisbon Strategy for Growth and Employment, 2004. Cfr: https://europa.eu.int/comm/lisbon_strategy/index_en.html

5 M. Olson, The Logic of Collective Action. Public Goods and the Theory of Groups, Cambridge, Mass: Harvard University Press 1971.

6 M. Monti, Toughen up the reform agenda and make it count, in «Financial Times», 22 marzo 2005.

7 Per una elaborazione completa di tale argomentazione e della teoria che vi sottende, si veda S. Collignon, France and Germany: Economic stagnation as a common destiny?, in corso di pubblicazione, Centre Cournot, Parigi 2005; il testo è disponibile alla pagina web www.stefancollignon.de .

8 A. Alesina e R. Wacziarg, Is Europe Going Too Far?, National Bureau of Economic Research. C.A. Mass., Working paper n. 6883.

9 Tutti i dati riportati nel presente articolo si riferiscono alla base dati AMECO della Commissione europea, eccezion fatta per i casi in cui la fonte è diversamente specificata.

10 La crescita della produttività oraria non è andata molto meglio.

11 Consiglio dell’Unione europea, Conclusioni della presidenza, 23 marzo 2005.

12 Si è ipotizzato che l’industria e il 50% dei servizi fosse commerciabile, e che il restante 50% del settore servizi, più l’agricoltura e l’edilizia fosse non commerciabile. Dati AMECO per il 2002.

13 Collignon, France and Germany, cit.

14 Cfr. Amato, Verso un DPEF Europeo, su «NENS», 4/2002, p. 15-19; A. Casella, Trade-able Deficit Permits, in A. Brumila, M. Buti e D. Franco, The Stability and Growth Pact, The Architecture of Fiscal Policy in EMU, Palgrave, Londra 2001; Collignon (a cura di), Fiscal policy and Democracy, relazione presentata al seminario della Österreichische Nationalbank, Vienna e pubblicato come «ÖNB Discussion paper» n. 4, Novembre 2004.

15 Nelle democrazie rappresentative i membri del parlamento sono eletti a seguito di un dibattito nazionale strutturato attraverso le campagne dei partiti politici. Tali campagne sono elementi costitutivi della formazione della volontà. Nell’UE, il Consiglio opera più come un parlamento perpetuo che sostituisce i propri membri esclusivamente tramite «succedanei» d’elezione, ma non si effettuano campagne perché nessuno è di fatto responsabile al cospetto dell’intero elettorato europeo.

16 A. Moravcsik, In Defence of the «Democratic Deficit»: Reassessing Legitimacy in the European Union, in «Journal of Common Market Studies», Vol. 40, 4/2002, p. 603-24.

17 Cfr. Collignon, The European Republic, The Federal Trust, Londra 2003.