Municipalizzazione e interesse pubblico

Written by Alfredo De Girolamo Monday, 03 January 2005 02:00 Print

Riflettere sui cento anni della «municipalizzazione» in Italia può costituire l’occasione per migliorare l’analisi sulle politiche adottate in Italia sui servizi pubblici locali, aumentare il tasso di lucidità nel guardare a un comparto attraversato negli ultimi anni da profonde trasformazioni strutturali, ma anche da un dibattito fortemente ideologizzato e poco rigoroso. La prospettiva storica, forse, può aiutare a fornire una lettura meno legata alla contingenza e alle fasi politiche e culturali del momento. Invero, l’analisi del settore ha sempre risentito, forse troppo, del clima politico generale, del favore che nei vari momenti ha caratterizzato la sfera pubblica e quella privata, delle contingenze economiche.

 

Riflettere sui cento anni della «municipalizzazione» in Italia può costituire l’occasione per migliorare l’analisi sulle politiche adottate in Italia sui servizi pubblici locali, aumentare il tasso di lucidità nel guardare a un comparto attraversato negli ultimi anni da profonde trasformazioni strutturali, ma anche da un dibattito fortemente ideologizzato e poco rigoroso. La prospettiva storica, forse, può aiutare a fornire una lettura meno legata alla contingenza e alle fasi politiche e culturali del momento. Invero, l’analisi del settore ha sempre risentito, forse troppo, del clima politico generale, del favore che nei vari momenti ha caratterizzato la sfera pubblica e quella privata, delle contingenze economiche.

La domanda cui intendiamo rispondere con queste riflessioni è se sia possibile, oggi, dopo cento anni, un’analisi pragmatica del settore dei servizi pubblici locali così come si presenta, per capire a cosa serve, come debba essere organizzato e quale ruolo gioca nella dinamica sociale ed economica attuale.

Il motivo dominante della riforma del 1903 sembra essere stato quello di contenere gli effetti negativi dei monopoli privati nel campo dei servizi pubblici, aprendo la strada all’iniziativa pubblica locale, con la nascita delle aziende municipalizzate nel nostro paese. Sembra evidente che la preoccupazione preponderante di quei tempi, la «percezione» politica del problema fosse quella di contenere gli abusi della presenza privata in settori chiaramente «pubblici». Si tratta di una stagione politica e culturale che, iniziata a livello locale, porterà alla nazionalizzazione delle utilities nazionali.

Agli abusi dei monopoli privati (extraprofitti, scarsa attenzione al servizio pubblico, difficoltà di controllo da parte delle amministrazioni) si risponde non con la liberalizzazione, tecnologicamente ancora impossibile in quasi tutti i settori, ma con la municipalizzazione prima e la nazionalizzazione poi. È questa una fase che si protrae fino agli anni Novanta e in cui la stessa legge 142/90, che pure realizza un’evoluzione del quadro degli strumenti di gestione dei servizi pubblici locali, ben si guarda da introdurre elementi di competitività. Basti pensare alla «concessione a terzi», sempre slegata dall’idea della gara, così come pacifica è ancora per tutti la legittimità dei cosiddetti «affidamenti diretti»: siamo ormai all’ultimo atto di una stagione che volge al termine.

Negli anni Novanta, rispetto ai primi del secolo, la percezione arriva a capovolgersi. La preponderante presenza pubblica nel settore dei servizi pubblici, sia a livello locale che nazionale, fa nascere nell’opinione pubblica e negli analisti politici ed economici una preoccupazione opposta a quella del 1903: le imprese pubbliche appaiono, e sono spesso, inefficienti, caratterizzate da una scarsa cultura di impresa e da eccesso di politicizzazione e sindacalizzazione. L’azienda «municipalizzata» è percepita come uno strumento antico, non più adeguato. Si chiede efficienza, capacità di management, innovazione. In questa fase la risposta alla crisi è più articolata. Si prova, in primo luogo, a «svecchiare» il mondo delle municipalizzate puntando a trasformarle in imprese: aziende speciali prima, società di capitali poi. Quella che nel 1990 era una facoltà – la società per azioni pubblica – coi i decreti Bassanini diventa la strada maestra. Ma non basta: il maquillage societario non è sufficiente a rendere le imprese pubbliche efficienti e la risposta vera alla crisi è la strada della liberalizzazione dei mercati. Su questo fronte si schierano la cultura liberale, ma anche la cultura riformista di sinistra. Il punto di vista predominante diventa quello del consumatore, indifferente alla struttura proprietaria di chi gestisce i servizi ed esclusivamente interessato ad avere buona qualità a prezzi ragionevoli, gestori efficienti: tutti obiettivi raggiungibili con un mercato aperto, col superamento dei monopoli. Su questo fronte, soprattutto, si schiera l’Unione europea, in particolare la Commissione: si susseguono direttive di apertura del mercato nei settori delle telecomunicazioni, dell’elettricità, del gas e dei trasporti, nascono le Autorità di regolamentazione e da tempo sono attive le direttive sugli appalti. Negli ultimi anni del decennio scatta l’assalto ai servizi pubblici locali con le proposte di legge durante i governi di centrosinistra e, infine, al termine del 2001, la proposta del centrodestra, che diventa legge con l’approvazione della Finanziaria 2002 (articolo 35). La linea è quella della concorrenza nel mercato laddove possibile; della concorrenza per il mercato come unica procedura nei settori ancora monopolistici: tutto a gara. Si conclude così una stagione interessante, che ha prodotto importanti modifiche nei mercati dei servizi pubblici locali, ma caratterizzata da un fervore ideologico già oggi, a pochi anni di distanza, scarsamente comprensibile.

In questi ultimi anni sembra di assistere a una nuova inversione di tendenza nella percezione politica e culturale del settore. Gli scarsi successi dei processi di liberalizzazione e di privatizzazione, il consolidarsi delle posizioni dominanti degli ex monopolisti, probabilmente il contesto di crisi generalizzato nell’opinione pubblica sembrano di nuovo rendere «attraente» il modello pubblico, anche – in certo modo – a costo delle sue «inefficienze». Nei sondaggi tornano le preferenze per la gestione pubblica. Le virtù magiche del mercato, della concorrenza e dell’impresa privata lasciano il posto a una più prudente simpatia per la gestione pubblica, seppure con le sue inefficienze e con la sua politicizzazione.

Lo scontro in Europa sui modelli di gestione dei servizi pubblici, la campagna sulla privatizzazione dell’acqua, fino all’approvazione della cosiddetta controriforma: il nuovo articolo 113 del Testo unico degli enti locali come modificato dalla Legge finanziaria 2004. Nel giro di tre anni il pendolo si è spostato di nuovo: non solo la gestione diretta dei servizi non è più un’eresia giuridica, ma le viene addirittura riconosciuto uno status «europeo», come l’affidamento in house. La gara per la concessione viene temperata con l’affidamento diretto e la gara per il partner. Nel giro di pochi anni il dogma della gara è caduto. Torna attuale, invece, la sussidiarietà, la libertà di scelta, l’autonomia degli enti locali.

Il breve excursus storico ci induce a ulteriori domande: siamo condannati in questo settore a ciclici ripensamenti su cosa sia meglio fra pubblico e privato, fra concorrenza e monopolio? Siamo davvero sicuri che questo sia il tema più importante nella società moderna che caratterizzi il settore dei servizi pubblici locali?

Il dibattito di questo secolo, ovviamente, non è stato solo astrattamente ideologico. Erano veri gli abusi delle imprese private monopoliste in settori delicati come i servizi pubblici e tali abusi esistono ancora. Erano vere le inefficienze e l’eccessiva politicizzazione delle imprese locali e anche queste in parte esistono ancora. Molti vizi sono stati corretti: le aziende pubbliche locali sono un po’ meno inefficienti e politicizzate, i monopoli privati sono diventati oligopoli. Alcune regole sono state introdotte: una parziale liberalizzazione, alcune Authorities, una parziale regolamentazione. Ma il dibattito di questi ultimi decenni, incentrato sul superamento dei vizi dell’impresa pubblica tramite processi di liberalizzazione e privatizzazione, ha sottratto energie preziose alla discussione sulle politiche industriali nei servizi pubblici locali.

È questo, a mio parere, il tema centrale dei prossimi anni su cui occorre definire una strategia e superare il ritardo accumulato fino ad oggi. Non devono essere sottovalutati i problemi di regolamentazione e di tutela del consumatore che ancora devono essere risolti: il rafforzamento delle Authorities esistenti, una migliore regolamentazione nel settore dei rifiuti, dell’acqua e dei trasporti. Un ragionevole mix di liberalizzazione e di regolamentazione non può che produrre effetti positivi.

Una politica industriale nel settore dei servizi pubblici locali invece non c’è stata. Il punto di partenza di una strategia non difensiva è la consapevolezza che le imprese di servizio pubblico sono elementi centrali dei sistemi produttivi locali e che la sfida del domani è quella della competitività dei territori, non solo e non tanto della singola impresa. In questo quadro, al centro peraltro delle recenti iniziative comunitarie, il ruolo delle aziende pubbliche locali può essere quello di «motore» dello sviluppo locale, fattore di competitività sia in termini di costo, ma soprattutto in termini di valore aggiunto che queste imprese consegnano al territorio. I servizi pubblici locali sono «un pezzo» di economia del territorio importante, fatta da imprese, risorse umane, know-how, capitali, relazioni, che possono essere messe a servizio dello sviluppo locale, insieme al tessuto produttivo locale. In molti casi, le aziende pubbliche locali sono le imprese più grandi nell’area. Sono nodi importanti di una rete, hanno relazioni commerciali con tutti i residenti e le imprese, generano un indotto rilevante. Infine, ed è forse il punto più importante, le imprese di servizio pubblico locale lavorano in un contesto fortemente contiguo all’innovazione tecnologica e organizzativa e sono inserite in filiere complesse con imprese a valle e a monte. Possono pertanto svolgere una funzione importante nell’attivare progetti innovativi territoriali, capaci non solo di migliorare i servizi a cittadini e imprese, ma anche di promuovere l’innovazione e la ricerca di tutto il distretto in cui operano.

Purtroppo la sensazione che si ha è che non sia ancora chiaro a tutti, spesso neanche agli stessi azionisti, che le imprese di servizio pubblico locale sono un «pezzo» importante del sistema economico: ma è proprio questa la sfida del futuro e per realizzarla occorre prima di tutto una spinta da parte delle imprese. Il processo di trasformazione in vere e proprie aziende, avviato con le riforme Bassanini, deve continuare nella sostanza. Per questo, in primo luogo, le aziende devono crescere di dimensioni, raggiungendo soglie minime non solo idonee a competere sui mercati liberalizzati, ma anche, e forse soprattutto, per poter svolgere il ruolo di «motore dello sviluppo». Dimensione finanziaria idonea, capacità di dotarsi di funzioni di ricerca e sviluppo evolute, capacità di diversificare e di aggredire nuovi mercati: sono tutte funzioni collegate con la dimensione. Il tema della dimensione delle imprese è stato posto ripetutamente in questi anni, ma ad oggi non siamo di fronte a un quadro particolarmente dinamico, né sono stati individuati strumenti di incentivo idonei a questo scopo.

Ma oltre alla dimensione, le imprese locali devono essere maggiormente capaci di fare rete, fra di loro e con il tessuto produttivo locale. Solo così esse possono ambire a svolgere un ruolo di leadership nell’economia locale e diventare soggetti imprenditoriali attivi per la competitività del territorio. Recentemente la sottoscrizione di alcuni «patti» regionali e provinciali, ha consentito alle imprese locali di immaginare un proprio ruolo di «sistema» in un distretto, in un’area, in una regione. Questa è la strada da percorrere, in una logica di governance cooperativa con enti locali e amministrazioni pubbliche.

Una simile strategia di riposizionamento delle imprese pubbliche locali come motore della competitività dei territori deve basarsi sulla risoluzione di un antico problema, quello della legittimità e della capacità dell’ente locale di essere «azionista». In questa logica di sistema l’ente locale può e deve svolgere la funzione di azionista, retto da una specifica mission, che sia quella non solo e non tanto di erogare servizi ai propri cittadini, ma proprio di promuovere lo sviluppo locale. Per fare questo devono essere sciolti alcuni nodi, primo fra tutti il conflitto fra ruolo di azionista e ruolo di regolatore. La costruzione di imprese più grandi da un lato e il tendenziale spostamento delle funzioni di regolazione fuori dal singolo comune (enti di ambito, regioni, autorità nazionali) può consentire di raggiungere questo scopo, in modo molto pragmatico.

Sempre nella stessa logica può essere inquadrato anche il tema della partnership pubblico-privata. Questa formula, oggi legalizzata a livello europeo, non deve essere considerata un escamotage, ma il presupposto essenziale per svolgere la funzione di impresa territoriale. La quotazione in Borsa, la formazione di public company, l’integrazione con altre aziende pubbliche locali, l’apertura a privati locali e nazionali specializzati, sono strategie funzionali al rafforzamento delle imprese pubbliche locali, a condizione che l’ente pubblico trovi un senso alla sua presenza e si doti di strategie pubbliche proprie.

Per concludere, ritengo che alla domanda iniziale si possa rispondere che una riflessione sul passato e sull’attualità del settore dei servizi pubblici locali non solo è possibile, ma si presenta oggi, dopo cento anni, quanto mai necessaria per ridisegnare le funzioni e le competenze dei vari soggetti protagonisti di questa stagione in cui diventa fondamentale, anche sotto l’influsso dei principi comunitari, promuovere con maggiore convinzione politiche industriali serie ed efficaci, passando attraverso la ridefinizione del ruolo degli enti locali. Questo è il nodo che resta da sciogliere.