Giustizia: sussurri e grida

Written by Giovanni Di Cagno e Massimo Brutti Wednesday, 01 September 2004 02:00 Print

Giurisdizione e interpretazione delle norme, organizzazione giudiziaria e diritti dei cittadini, figure e culture degli operatori del diritto, controllo di legalità e suoi effetti sui poteri nella società e nella politica: partiamo da questo elenco di problemi per aprire una riflessione nuova in tema di giustizia. Una riflessione che riguarda il rapporto tra norme e casi concreti, il peso che hanno i giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, i ceti professionali coinvolti nello ius dicere e in primo luogo la magistratura, le concrete forme organizzative della sua autonomia, e poi l’impatto sociale dell’attività giudiziaria. Una riflessione che riguarda, insomma, elementi essenziali dell’esperienza giuridica contemporanea e, tra questi, il dovere di garantire l’uguale tutela dei diritti, auto-obbligazione fondamentale per la politica democratica che ormai supera la dimensione tradizionale della cittadinanza legata allo Stato-nazione.

 

Giurisdizione e interpretazione delle norme, organizzazione giudiziaria e diritti dei cittadini, figure e culture degli operatori del diritto, controllo di legalità e suoi effetti sui poteri nella società e nella politica: partiamo da questo elenco di problemi per aprire una riflessione nuova in tema di giustizia. Una riflessione che riguarda il rapporto tra norme e casi concreti, il peso che hanno i giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, i ceti professionali coinvolti nello ius dicere e in primo luogo la magistratura, le concrete forme organizzative della sua autonomia, e poi l’impatto sociale dell’attività giudiziaria. Una riflessione che riguarda, insomma, elementi essenziali dell’esperienza giuridica contemporanea e, tra questi, il dovere di garantire l’uguale tutela dei diritti, auto-obbligazione fondamentale per la politica democratica che ormai supera la dimensione tradizionale della cittadinanza legata allo Stato-nazione.

 

1. Se prendiamo in esame i contributi della cultura giuridica italiana degli ultimi decenni, specie quella meno conservatrice e accademica, non si può dire che manchi la consapevolezza delle questioni in gioco. Eppure, sembra di ascoltare ragionamenti a bassa voce, sussurri, che sono inevitabilmente soverchiati dalle grida di cui è pieno oggi il sistema politico, puntualmente amplificate dai media. Quei sussurri non si traducono in elaborazione programmatica e perciò non riescono a scacciare dalla scena pubblica le polemiche tempestose e volgari, le semplificazioni contrapposte. La stessa battaglia contro l’illegalismo diffuso in ampi settori delle classi dirigenti italiane e contro l’attacco condotto dalla destra all’indipendenza e all’autonomia dell’ordine giudiziario, non riesce ad andare oltre un impegno difensivo e non si traduce in una proposta di riforma compiuta che sia rispondente alle attese, a cominciare da quelle di una larga parte degli operatori del diritto.

Perciò oggi compito del centrosinistra, sui temi della giustizia, è ripartire da un’analisi realistica dell’esperienza giuridica italiana e costruire un nuovo programma, che vada oltre l’impianto difensivo sul quale finora ci siamo attestati.

C’è bisogno di una riforma della giustizia? Noi crediamo di sì. In questa prospettiva, la Fondazione Italianieuropei ha promosso un ciclo di seminari: per riflettere sulle idee guida di un progetto possibile, per tessere nuovamente il filo di una elaborazione con più respiro e di una proposta proiettata sui tempi medi, al di là di questa legislatura, da fondare su un consenso ampio degli operatori e ovviamente realizzabile nell’ambito di rapporti di forza in parlamento diversi e opposti rispetto agli attuali. Nelle pagine che seguono riassumeremo gli spunti già emersi e cercheremo di mettere in luce quali siano i temi da approfondire e i cardini possibili di un progetto alternativo al vuoto di governo e ai colpi di mano legislativi di questi anni.

L’innovazione deve riguardare settori rilevanti della legislazione, dall’ordinamento giudiziario alle norme processuali, deve riguardare i rapporti tra diritto interno e istituzioni europee e deve toccare anche alcune parti del dettato costituzionale, non certo allo scopo di alterare il modello pluralistico fondato sull’indipendenza della giurisdizione, ma per rafforzarlo e dare ad esso credibilità agli occhi dei cittadini. Siamo convinti, infatti, che sia possibile tutelare con efficacia l’indipendenza e l’autonomia della magistratura solo definendo e avviando una seria politica di riforma del servizio-giustizia e del governo della giurisdizione.

Nella babele di grida che ci invade c’è poco spazio per le riflessioni e le proposte. Se il capo del governo accusa i giudici di aver fomentato una guerra civile; se il ministro guardasigilli addita la «politicizzazione» dei magistrati come causa della crisi della giustizia; se la maggioranza parlamentare adotta risoluzioni di censura di provvedimenti giurisdizionali; se vengono varate leggi unicamente per risolvere problemi processuali di imputati eccellenti; se viene proposto un nuovo ordinamento giudiziario con lo smaccato intento di minare l’indipendenza dei magistrati erodendo i poteri del governo autonomo della giurisdizione; allora, conveniamone, è davvero difficile ragionare.

Eppure bisogna ragionare, perché la necessaria indignazione di fronte alle leggi-vergogna non è sufficiente, e perché sarebbe tragico se l’indignazione dovesse essere considerata alternativa alla riflessione e alla proposta.

 

2. Ragionare di giustizia significa, anzitutto, riflettere sulla necessità che ai processi di globalizzazione economica si accompagni non solo un’analoga globalizzazione dei diritti e delle libertà fondamentali, tradotta in regole comuni, ma anche la realizzazione di istituzioni e di autorità che siano in grado di tutelare quei diritti, senza confini e al di là dei meccanismi ormai insufficienti degli Stati nazionali.

Oggi, sempre più spesso, le regole nascono direttamente dalla prassi dei rapporti economici globali, tendendo inevitabilmente ad atteggiarsi in funzione degli interessi prevalenti, mentre nel caso di controversie vengono attivati sistemi di decisione di tipo arbitrale totalmente svincolati dal controllo delle giurisdizioni statuali. Così, il primo problema sul tappeto è quello di come dar vita a vere forme di giurisdizione sopranazionale.

Le istituzioni dell’Unione europea rappresentano una sede ove già si creano e vengono avanti tali forme di giurisdizione. Si tratta di garanzie che possono fondare e rendere più forti i diritti di una popolazione vastissima, e possono divenire un esempio, un punto di riferimento, per aree del mondo diverse dall’Europa, dove la sfida dei diritti è ancora più difficile e aspra.

Il processo di costruzione dello spazio europeo di sicurezza, libertà e giustizia è in una fase ormai talmente avanzata (si veda ad esempio la figura del Procuratore europeo prevista dalla nuova Costituzione) da imporre come ineludibile la ricerca di princìpi (che possono naturalmente incidere sulle Costituzioni e sugli ordinamenti nazionali) e di garanzie comuni agli Stati-membri, con l’armonizzazione dei diversi sistemi giurisdizionali. È significativo in proposito l’orientamento assunto dal Parlamento europeo, secondo il quale i princìpi cui dovrebbe conformarsi l’istituzione del Procuratore europeo dovrebbero essere piena indipendenza dal potere politico e obbligatorietà dell’azione penale.

Un programma per la giustizia deve insomma definire, nel suo capitolo introduttivo, un modello di giustizia europea da porre alla base delle iniziative e delle scelte del nostro paese.

 

3. In secondo luogo, occorre riflettere sui caratteri omogenei che la giurisdizione è venuta assumendo in tutte le democrazie contemporanee, sulla natura dei processi legislativi nelle democrazie e sull’evoluzione della stessa domanda di giustizia, che non soltanto estendono l’ambito di intervento del giudice, ma sempre di più lo inducono a formulare giudizi di valore. Il suo potere, anche se per definizione è «neutro» rispetto agli interessi che si misurano e si contrappongono nel processo (tale è il senso della divisione dei poteri e dell’indipendenza), non è però un potere «adiaforo», esente dai valori. Senza voler approfondire questo aspetto, che ha implicazioni teoriche complesse, ricordiamo che la cultura giuridica democratica in Italia ha più volte sottolineato il rapporto fra interpretazione giuridica e Costituzione, proprio per individuare una base condivisa cui ancorare le inevitabili scelte dell’interprete (attraverso le quali egli costruisce in concreto la norma da applicare). Del resto, nell’esperienza giuridica nessuna disposizione positiva opera se non attraverso il filtro dell’interpretazione e quindi come norma che questa compone. Certo, il richiamo alla Costituzione lascia un ampio margine al pluralismo, poiché i tre termini Costituzione-legge-giudizio sono anch’essi oggetto di discussione e di valutazioni difformi. Ma questo pluralismo non è proprio soltanto dell’Italia. Che di esso si discuta pubblicamente, che anzi le diverse visioni animino l’associazionismo dei magistrati, costituisce – noi crediamo – una risorsa non trascurabile per la cultura giuridica italiana.

Attenti studiosi come Carlo Guarnieri e Patrizia Pederzoli hanno constatato che «il rilievo sociale e politico della giustizia deve essere ormai annoverato tra le caratteristiche condivise da tutte le democrazie», sottolineando come il fenomeno tragga origine dal «mutato rapporto tra Stato e società, innescato dal declino del tradizionale lasseiz-faire e dal rapido sviluppo del welfare state».1 Insomma, la «politicità» della funzione giudiziaria (e dell’interpretazione, da cui possono nascere valori che si aggiungono o si sostituiscono a quelli delle dottrine consolidate) rappresenta ormai un dato comune a tutte le democrazie, anche considerato che «il giudiziario partecipa (…) al processo mediante il quale vengono prodotte le “decisioni collettivizzate sovrane”, la cui cogenza poggia cioè in ultima istanza sull’uso legale della forza»,2 decisioni spesso assunte con quella discrezionalità che costituisce l’essenza stessa dell’agire politico.

Come ha ben spiegato Alessandro Pizzorno, è innegabile «che le cause dell’espansione del potere giudiziario siano esogene e non endogene». Esse cioè non vanno ricondotte «a particolari meccanismi delle istituzioni giudiziarie, né tanto meno, è ovvio, alla volontà di determinati gruppi di magistrati, bensì al formarsi di condizioni nuove sia nella società sia nelle istituzioni politiche del regime rappresentativo, e quindi alla nuova natura della legislazione e della domanda di giustizia che ne consegue».3 Il ragionamento non vale solo per il nostro paese, ma riguarda in forme diverse tutte le società democratiche, caratterizzate da una moltiplicazione di domande sociali, da leggi che tengono insieme valori e risposte diverse (il compromesso normativo è un prodotto dei parlamenti contemporanei) e da interpretazioni non uniformi ma pluralistiche.

Dunque, non si può dire che la specificità del caso italiano consista nella «politicizzazione» della giustizia. Questa espressione ricorre spesso nelle invettive della destra. Ma il presidente del consiglio, quando ne parla, costruisce attorno ai propri casi personali una teoria del complotto che non ha riscontro nelle cose. E chi lamenta lo straripamento del potere giudiziario in Italia si riferisce in realtà alla crisi drammatica dei primi anni Novanta. Ancora non abbiamo tratto tutte le lezioni che dovevamo da quella crisi, e non è questa la sede per discuterne. Ci pare tuttavia evidente che il ruolo allora assunto dai processi penali, il peso delle accuse di corruzione che hanno travolto una parte del personale politico di governo, la enfatizzazione mediatica delle indagini e delle accuse, il ricorso alla custodia cautelare come strumento di difesa sociale, gli stessi comportamenti di alcuni magistrati non siano stati il prodotto di una soggettiva politicizzazione dei giudici, ma piuttosto di due convergenti e storiche debolezze, che si sono incontrate e potenziate a vicenda. Da un lato la debolezza del sistema politico italiano, rattrappito nell’assenza pluridecennale di un ricambio di classe dirigente, che ha generato un’allarmante perdita di rappresentatività e di moralità pubblica, dilatando la corruzione; dall’altro la debolezza storica del sistema delle garanzie sul versante del processo penale.

 

4. La giustizia italiana è sicuramente malata: non di «politicizzazione», come pretende il ministro Castelli, bensì di lentezza. I tempi dei processi sono ormai tali da non assicurare una prevedibile tutela dei diritti dei cittadini: ciò vale tanto per il civile e l’amministrativo, quanto per il penale; il che, non solo fa vivere al cittadino la giustizia come nemica, ma altera completamente il rapporto degli stessi operatori con il processo e le sue regole.

Quando la prescrizione del reato rappresenta un esito probabile (o l’esito più probabile) del giudizio, è pressoché inevitabile che l’avvocato metta in atto comportamenti ostruzionistici per difendere il proprio cliente non «nel» processo, ma «dal» processo. Ed è altrettanto inevitabile che il magistrato tenda a rispondere a questi comportamenti con atteggiamenti culturali ugualmente sbagliati, ad esempio in tema di valutazione della esistenza di elementi che legittimino la custodia cautelare. D’altro canto, la lentezza della nostra giustizia è tale da incidere negativamente sulle stesse prospettive di sviluppo economico, considerato che uno degli indicatori presi in esame dalle grandi corporations per decidere la migliore allocazione degli investimenti è proprio quello relativo all’efficienza, alla certezza e alla rapidità dei sistemi giudiziari dei diversi paesi. Il nostro, purtroppo, è tra i più disastrati!

Ma da che cosa dipende la peculiare lentezza della giustizia italiana? Secondo alcuni (tra i quali numerosi magistrati) è essenzialmente un problema di scarsità di mezzi. Secondo altri (compreso il governo) tutto dipenderebbe dalla neghittosità dei magistrati. In realtà, è vero che i mezzi sono scarsi, che negli ultimi anni il ministero della giustizia ha palesato una drammatica incapacità di selezione della spesa e che addirittura il ministro ha teorizzato l’inutilità di maggiori investimenti finché non arriverà la riforma dell’ordinamento giudiziario. È anche vero che non sempre i magistrati sembrano consapevoli dell’esigenza di contribuire con un maggiore impegno individuale all’equilibrio del sistema (secondo un recente studio del CSM, il magistratomedio di Corte d’Appello impiega in udienza solo il 12% del proprio tempo lavorativo dichiarato; non è un po’ poco?), e che seri intoppi ordinamentali contribuiscono a rallentare i processi (i tempi necessari al CSM per sostituire un magistrato, ad esempio, sono lunghissimi anche per il permanere di «privilegi» corporativi, quale la facoltà di revoca delle domande di trasferimento dopo la conclusione della già laboriosa procedura di valutazione).

Ma il problema non sta (o almeno, non sta prevalentemente) nell’impegno dei magistrati o nell’ordinamento giudiziario. Occorre avere il coraggio di ammettere che l’abnorme durata dei processi in Italia dipende essenzialmente da un orientamento culturale diffuso e profondo, da un modo di concepire l’applicazione delle regole e la funzione delle controversie. E proprio per questo il nodo non è di facile soluzione.

In tutte le società democratiche prolifera la domanda di giustizia, ma solo da noi non vi è sufficiente consapevolezza da parte degli addetti ai lavori dell’esigenza prioritaria che questa domanda trovi una risposta in tempi ragionevoli. Non è, purtroppo, una novità: siamo in presenza di un vizio di fondo della cultura giuridica italiana, tradizionalmente ossessionata dalle procedure formali, dalle regole astratte, e storicamente poco attenta al rapporto tra forma e sostanza, vale a dire al tema della concreta efficacia e produttività dell’agire delle amministrazioni pubbliche.

La prova migliore di questa disattenzione ci viene dal dibattito sul nuovo articolo 111 della nostra Costituzione. La maggior parte delle riflessioni teoriche sembrano incentrarsi sui primi tre princìpi sanciti dalla nuova norma costituzionale (parità delle parti, terzietà del giudice e assunzione della prova nel contraddittorio), mentre pochi si interrogano su come assicurare effettività al quarto principio – la ragionevole durata del processo – quasi che una parte non secondaria della cultura giuridica italiana ritenesse davvero che un processo possa essere «giusto» anche durando un tempo irragionevole.

In realtà, si continua a perpetuare un equivoco, a contrapporre, cioè, l’esigenza di celerità dei processi a quella di assicurare ogni «garanzia» al convenuto nel processo civile e soprattutto all’imputato nel processo penale. Messa così, la questione sembra irresolubile: come si fa a rinunciare alle garanzie? Sennonché, l’articolo 6 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo, come interpretato dalla competente Corte di Strasburgo, nonché il nuovo articolo 111 della Costituzione, hanno ormai portato a configurare la ragionevole durata del processo come un vero e proprio diritto soggettivo del cittadino europeo, la cui violazione non a caso dà luogo a un risarcimento.

Dunque, non può esservi alcuna contrapposizione tra garanzie individuali e speditezza del processo! La ragionevole durata è una garanzia individuale essa stessa, cui ognuno ha diritto esattamente come ha diritto alla difesa. Il problema è trovare un giusto bilanciamento tra le diverse garanzie, e non a caso in Europa si parla di processo «equo».

Da noi, invece, soprattutto nel processo penale, abbiamo assistito negli ultimi anni all’assurdo proliferare di un’infinita serie di regole procedurali, formali, tutte spacciate per insopprimibili «garanzie» dell’imputato, nel più assoluto disinteresse per la loro conciliabilità con un processo «giusto» anche in quanto non infinito. Per fare un solo esempio, la cosiddetta udienza preliminare è ormai diventata un vero e proprio autonomo grado di giudizio, che può durare anche anni: altro che «udienza»!

In realtà, un vero e proprio codice di procedura penale non esiste più. C’è una stratificazione di micro-sistemi, e il processo che da questi risulta non è irragionevole perché lungo, ma è lungo perché irragionevole.

Dobbiamo perciò avviare un ripensamento di sistema relativo all’insieme delle garanzie; il che è possibile per il processo penale solo chiedendo alla cultura giuridica italiana di lavorare a una riscrittura del codice. Non vogliamo andare ora al di là della diagnosi e della indicazione di una esigenza; ma consideriamo necessario uno specifico lavoro seminariale su questo tema, affinché il programma del centrosinistra in tema di giustizia per la prossima legislatura comprenda in sé la proposta di una ridefinizione e di un nuovo bilanciamento delle garanzie.

Forse, dovremmo partire dalla consapevolezza che non esistono modelli processuali perfetti. Sistema accusatorio e sistema inquisitorio presentano entrambi pregi e difetti. È stato sbagliato pretendere di sommare tutte le garanzie del processo inquisitorio con tutte quelle del nuovo rito accusatorio. È stato velleitario pensare di costruire un tertium genus, illudendosi di assumere tutti i pregi di entrambi i sistemi scartandone tutti i difetti. Così si è dato vita a un pasticcio, in cui ad esempio il pubblico ministero è diventato «parte» (tanto che lo si vorrebbe separato dal giudice), ma il giudice non è diventato del tutto «terzo» (tanto che il giudice dell’udienza preliminare non si limita a giudicare, ma può ordinare nuove indagini).

Sarebbe necessario, allora, riconsiderare il lavoro degli ultimi anni, e tornare a interrogarsi sui presupposti teorici e di valore dei diversi modelli processuali (il modello accusatorio è conciliabile con quella «ricerca della verità» che in tanti continuano a considerare fine del processo? è compatibile con la sopravvivenza di un grado di appello generalizzato?). E sarebbe altrettanto necessario riflettere sull’esigenza di assicurare intrinseca coerenza al sistema processuale, senza rifuggire da ipotesi di modelli distinti a seconda della gravità dei reati (strada del resto già praticata per il processo penale dinanzi al giudice di pace).

 

5. La questione delle garanzie sul terreno della giustizia (che investe il rapporto tra cittadini e amministrazione giudiziaria e la posizione delle parti nel processo) viene spesso agitata per sostenere la necessità di introdurre contrappesi alla politicizzazione e all’eccesso di potere dei giudici. Ma le garanzie riguardano i cittadini. Come si è detto, comprendono i diritti di libertà e di difesa, ma anche il diritto all’efficienza dei meccanismi giudiziari. Riguardano l’impatto della giurisdizione sulla società, non la sua collocazione nel sistema costituzionale. I rapporti tra ordine giudiziario e potere politico appartengono invece ad un altro ambito di discorso e devono essere retti da altre regole. Non è attraverso il processo che possono essere definiti, né tanto meno ricorrendo alla moltiplicazione di norme che rendono più impervio il percorso delle decisioni giudiziarie. Dunque, dobbiamo affrontare direttamente il tema giustizia-politica, partendo da alcune premesse fondamentali.

Anzitutto, il modello di relazioni tra poteri privilegiato dalla nostra Costituzione, vale a dire il modello pluralistico, è oggi pienamente valido. Esso va oltre la classica tripartizione dei poteri, per comprendere una molteplicità di centri di potere, autonomi sia in ragione di funzioni sia in ragione di territorio, con una gamma di rapporti diversi tra i vari poteri e la sovranità popolare, della quale nessun organo costituzionale ha il monopolio e con la quale tutti i poteri hanno un qualche rapporto più o meno mediato. Le riforme devono ispirarsi a questo modello e consolidarlo, con gli adattamenti necessari alla complessità sociale del nostro tempo.

Ciò significa che non può esistere alcuna gerarchia tra potere politico legittimato dal voto popolare e poteri neutri di controllo, i quali godono di forme differenti di legittimazione. E, ancora di più, significa che l’indipendenza e l’autonomia dell’ordine giudiziario rappresentano il nocciolo intangibile del sistema dei controlli.

L’oggettiva politicità assunta dalla funzione giudiziaria rende necessario che la giurisdizione resti assolutamente estranea alla politica intesa – secondo una delle definizioni weberiane – come competizione per il potere tra vari gruppi regolata mediante il voto. L’estraneità deve essere non solo di sostanza ma anche di forma, e va disciplinata con norme su ineleggibilità, incompatibilità e incarichi extra-giudiziari ben più pregnanti rispetto alle attuali (è inaccettabile, ad esempio, che un magistrato in servizio possa esercitare funzioni politiche, come oggi è possibile per le cariche di sindaco, consigliere comunale, provinciale e regionale, assessore ecc.).

Nelle democrazie contemporanee i cittadini vengono garantiti non solo dalla magistratura, ma da tutta una serie di autorità amministrative che al tempo stesso disciplinano determinati settori sociali e vigilano sul rispetto di determinati diritti, svolgendo attività in parte simili a quella del giudice. Queste autorità amministrative devono essere costituzionalizzate, con la definizione di un comune statuto di autonomia e indipendenza da altri poteri, e con l’individuazione di comuni regole di operatività.

L’insieme dei poteri neutri, proprio in quanto non tutelato rispetto a possibili invadenze del potere politico dalla forza che deriva dalla legittimazione popolare, deve godere di peculiari garanzie di indipendenza, che dovranno essere tanto più intense quanto più l’attività esercitata incida nella vita sociale, politica ed economica. Il che significa pensare a un sistema a cerchi concentrici, in cui le garanzie di indipendenza siano sempre più stringenti man mano che ci si avvicina a quel «nocciolo intangibile» che deve essere rappresentato dalla giurisdizione. Infine – e non sembri inutile la sottolineatura – quanto più sono pregnanti le funzioni di regolazione e controllo esercitate dalle autorità neutrali, tanto più dovranno esservi forme definite di responsabilità e doveri di autonomia rispetto agli altri poteri, in primo luogo i poteri della politica.

L’esercizio di funzioni giurisdizionali deve essere distinto dall’esercizio di altre funzioni neutre di controllo, posto che la diversità di funzioni dovrebbe comportare diversi statuti di autonomia e di indipendenza, mentre l’esercizio delle stesse funzioni postulerebbe un’identità di tutele e di responsabilità.

Tutti coloro che esercitano funzioni giurisdizionali, dunque, dovrebbero rientrare nel «nocciolo intangibile» di cui abbiamo detto: stesse tutele, stesse responsabilità. Su queste premesse, riteniamo lo schema dell’unità della giurisdizione del tutto ragionevole. E coerente sia con il venir meno della distinzione teorica tra diritti soggettivi e interessi legittimi sia con il conseguimento dell’odierno statuto di piena autonomia e indipendenza del giudice amministrativo di primo grado.

Ma anche indipendentemente dall’unità della giurisdizione, niente impedisce di ipotizzare un sistema unico di tutele e di responsabilità per tutti i magistrati (ordinari e amministrativi), che potrebbe limitarsi ad alcune regole comuni fondamentali (ad esempio in tema di status dei magistrati, di accesso, di progressione in carriera, di organizzazione del lavoro ecc.), ma che potrebbe anche significare l’istituzione di un comune organo di governo autonomo, eventualmente diviso in sezioni.

Quanto alla responsabilità dei magistrati, il discorso non può né deve essere limitato alla responsabilità intesa in senso burocratico-disciplinare, ma deve investire più in generale quella che Silvestri ha chiamato la «responsabilità politica» verso l’ordinamento-comunità.

Non v’è dubbio, tuttavia, che la giustizia disciplinare rappresenti uno degli snodi fondamentali attraverso cui la collettività può verificare la corrispondenza tra accresciuto potere del magistrato e forme di sua responsabilità. E non v’è dubbio che il sistema di giustizia disciplinare per chi esercita funzioni giurisdizionali abbia bisogno di una profonda riforma, sia perché solo la magistratura ordinaria è soggetta oggi a effettive regole disciplinari, sia perché anche per questa (nonostante la serietà del sistema attuale di controllo sulla deontologia) vi è un elemento di debolezza, costituito dalla compresenza nello stesso organo (il CSM) di «giudici» che si esprimono sulle medesime vicende e su identici profili deontologici, sia in sede amministrativa sia in sede disciplinare.

La soluzione, discussa in un seminario di Italianieuropei, potrebbe essere quella di un’unica Corte di garanzia e giustizia per tutte le magistrature, i cui membri siano nominati tra i componenti degli organi di governo autonomo (o delle sezioni di un organo unico), da cui essi uscirebbero al momento della nomina. Una Corte, questa, che dovrebbe essere competente in unico grado anche a giudicare sui ricorsi avverso i provvedimenti degli organi (o dell’organo unico) di governo autonomo, eliminando così una delle più singolari anomalie del sistema attuale (il giudice amministrativo che annulla provvedimenti relativi allo status dei magistrati). 

 

6. Nella nostra democrazia (a differenza di quanto avviene nei paesi di common law, nei quali il magistrato o è elettivo ovvero viene nominato da autorità legittimate elettoralmente) la fonte della legittimazione democratica dei magistrati risiede sia nella loro competenza e professionalità, sia nella indipendenza e nell’autonomia che caratterizzano le loro funzioni, alla luce dei princìpi costituzionali. Perciò, la necessaria affermazione di un nuovo quadro di responsabilità dei magistrati non passa attraverso un CSM più debole, espropriato di una parte rilevante dei suoi poteri, come vorrebbe la proposta di legge-delega del governo, ma anzi richiede un rafforzamento dell’intero circuito di governo autonomo della magistratura (preferiamo non chiamarlo «autogoverno», e non si tratta di un semplice problema semantico), che permetta anche di superare il vero e proprio inceppamento che si è progressivamente determinato nei meccanismi della progressione di carriera senza demerito (la cosiddetta «selezione negativa»).

La prima esigenza, in proposito, riguarda la riforma dei cosiddetti «rami bassi» del sistema di governo autonomo della magistratura ordinaria. Più che pensare a nuove regole di valutazione della professionalità dei magistrati dovremmo stabilire nuove regole concernenti i valutatori. Nei fatti non è il CSM a operare le valutazioni di professionalità. Sfornito di strutture ispettive, esso quasi sempre si limita a ratificare le valutazioni operate dai Consigli giudiziari. È proprio la composizione esclusivamente togata di questi, è l’eccessiva vicinanza dei valutatori eletti agli elettori valutandi, è la routine dei giudizi tutti positivi (salvo rarissime eccezioni) ad aver inceppato il sistema.

Indipendentemente dai sistemi di valutazione, dunque, è necessaria una riforma dei Consigli giudiziari basata su un triplice asse: 1) maggiore distanza tra valutatori eletti ed elettori da valutare, con elezione su scala regionale e non distrettuale; 2) inserimento a pieno titolo di componenti «laici» qualificati, eletti dai Consigli regionali ed espressione della sovranità popolare, secondo i principi fissati negli articoli 1 e 101 della Costituzione; 3) attribuzione di nuove competenze esclusive (quali ad esempio l’intero governo della magistratura cosiddetta onoraria, la valutazione sulle situazioni di incompatibilità o l’autorizzazione all’espletamento di incarichi extragiudiziali di rilievo locale).

 

7. Se, come riteniamo, l’azione penale deve restare obbligatoria, non si può più eludere il tema della «responsabilità» delle Procure nella definizione delle priorità tra i reati da perseguire. A nostro avviso la fissazione di regole di priorità e il controllo sulle scelte non possono contraddire il modello pluralistico delineato dalla Costituzione: non possono, cioè, essere affidati né all’esecutivo né al parlamento. Scelte siffatte, invece, ben potrebbero essere attribuite al CSM, che, sulla base di opportune attività istruttorie dei Consigli giudiziari riformati, definirebbe le priorità dell’azione penale anche tenendo conto della domanda di giustizia su base territoriale. A ben vedere, si tratterebbe di un’estensione e un completamento del cosiddetto «diritto gabellare». Già oggi, infatti, il CSM concorre sostanzialmente nel determinare le priorità dell’azione penale attraverso le circolari sulle tabelle e l’approvazione dei criteri di organizzazione degli uffici giudiziari. Così, la relazione annuale al parlamento del CSM si risolverebbe in una trasparente assunzione di responsabilità.

Il rafforzamento dei poteri del CSM – si ribadisce, preferibilmente unico per tutte le giurisdizioni – e la sua dichiarata assunzione di responsabilità lato sensu politiche di fronte al paese, imporrebbero ovviamente un maggiore equilibrio tra componente laica e togata, che potrebbe essere ricercato sia attraverso un aumento del numero dei laici, sia attraverso la modifica dei meccanismi interni, che oggi consentono di fatto alla componente laica di bloccare i lavori del Consiglio.

 

8. Come si vede, abbiamo tralasciato in questa rassegna di possibili riforme il problema che ha sciaguratamente catalizzato in questi anni tutto il dibattito sulla giustizia: la separazione delle carriere. Il fatto è che si tratta di un falso problema. Il PM può essere davvero «altro» rispetto al giudice solo se non è un magistrato, ma un funzionario dell’esecutivo ovvero un cittadino eletto dal popolo. Se è questo che si vuole, si abbia il coraggio di dirlo apertamente; né sarebbe scandaloso, visto che vi sono democrazie in cui il sistema è proprio questo. Ma se, come riteniamo, la nostra cultura giuridica e la nostra esperienza respingono l’idea di un PM espressione del governo, ovvero di una maggioranza di elettori; se, cioè, riteniamo giusto che l’azione penale continui a essere esercitata da un magistrato indipendente e non da una sorta di poliziotto con maggiore preparazione giuridica, allora la separazione delle carriere tra giudici e PM non ha senso.

Il problema, infatti, non è quello della «vicinanza» o «colleganza» che renderebbe il giudice succube del PM (con questo ragionamento, bisognerebbe separare le carriere anche tra giudici di primo grado e di appello). Il problema vero è che non tutti i PM si preoccupano sufficientemente della «tenuta» probatoria delle loro indagini. Il rimedio, allora, non può essere la separazione delle carriere, che darebbe vita a un soggetto istituzionalmente non vivificato dalla «cultura della prova» e tuttavia protetto da tutte le guarentigie dei magistrati. Il vero antidoto contro l’assenza di un’adeguata cultura della giurisdizione in alcuni PM è esattamente l’opposto della separazione delle carriere: è la circolazione obbligatoria e periodica dei magistrati nelle diverse funzioni, con l’obbligo di esercitare funzioni giudicanti (sì da formarsi nella «cultura della prova») prima di accedere a quelle requirenti. Insomma, prima di tutto giudici, poi se si vuole PM, ma dopo un certo periodo di nuovo giudici. Anche considerato che qualunque funzione, esercitata per troppo tempo e nello stesso luogo, può determinare problemi e cadute di credibilità.

 

9. Infine, occorre riprendere il filo di una seria riflessione sull’avvocatura, partendo dal dato che nessuna riforma della giustizia sarà efficace senza un rapporto di effettivo dialogo tra magistrati e avvocati. Per troppo tempo considerati problemi minori, sono ormai venuti al pettine tutti i nodi di una professione in tumultuosa quanto incontrollata espansione: nodi che vanno sciolti riconoscendo, anzitutto, che la definitiva consacrazione dei profili pubblicistici della professione di avvocato (si veda ad esempio la legge sulle indagini difensive) postula la costruzione di nuovi e più incisivi modelli ordinamentali, ispirati a princìpi di indipendenza e di responsabilità. Ma qui si apre un capitolo nuovo, che richiede un supplemento di analisi e di riflessione da condurre con gli avvocati e con le loro associazioni. Questo lavoro comune è indispensabile per la formazione di un programma di governo del centrosinistra.

 

 

 

Bibliografia

1 C. Guarnieri e P. Pederzoli, La democrazia giudiziaria, Il Mulino, Bologna 1997.

2 Guarnieri e Pederzoli, La magistratura nelle democrazie contemporanee, Laterza, Bari 2002.

3 A. Pizzorno, Il potere dei giudici, Laterza, Bari 1998.