La centralità del cittadino in un sistema sanitario moderno

Written by Giuseppe Benagiano Wednesday, 01 September 2004 02:00 Print

Un paradosso italiano Dire che i cittadini del nostro paese devono essere il punto focale attorno a cui far ruotare il sistema sanitario, affinché esso sia veramente moderno e utile, può sembrare una banalità tanto il concetto appare ovvio. All’atto pratico però, quando i mezzi di comunicazione parlano di sanità in genere ci riferiscono le richieste – spesso giustificate – dei medici e delle categorie ausiliarie. Si dilungano sulla spesa sempre crescente e sulla necessità, che nessuno può negare, di contenerla. Ci ricordano inefficienze, talora anche sprechi, che avvengono quotidianamente e denunciano imbrogli, truffe e altre furberie commesse ai danni del nostro Sistema sanitario nazionale (SSN).

 

Un paradosso italiano Dire che i cittadini del nostro paese devono essere il punto focale attorno a cui far ruotare il sistema sanitario, affinché esso sia veramente moderno e utile, può sembrare una banalità tanto il concetto appare ovvio. All’atto pratico però, quando i mezzi di comunicazione parlano di sanità in genere ci riferiscono le richieste – spesso giustificate – dei medici e delle categorie ausiliarie. Si dilungano sulla spesa sempre crescente e sulla necessità, che nessuno può negare, di contenerla. Ci ricordano inefficienze, talora anche sprechi, che avvengono quotidianamente e denunciano imbrogli, truffe e altre furberie commesse ai danni del nostro Sistema sanitario nazionale (SSN). In questo universo di problemi, le necessità, i desideri, ma anche le preoccupazioni e le paure dei cittadini sembrano non solo passare in seconda linea, ma venire addirittura ignorati, creando nell’italiano medio un senso di smarrimento che talora naufraga nella sfiducia.

Proprio partendo da questo senso di sfiducia – che a volte sembra prevalere nell’opinione pubblica – è possibile valutare esattamente la realtà nella quale oggi la sanità opera nel nostro paese e comprendere, nelle sue vere implicazioni, un paradosso tutto italiano: il divario cioè tra servizi prestati e soddisfazione del cittadino. Si tratta di un paradosso praticamente unico nel mondo occidentale. Secondo una recente indagine dell’OMS – basata su alcuni degli indicatori più attendibili in nostro possesso e pubblicata nel 20001 – complessivamente il sistema sanitario italiano è, nel mondo, secondo solo a quello francese. L’Overall Performance Indicator dava infatti la Francia prima con 0,994 e l’Italia seconda con 0,991. Al tempo stesso, sempre secondo lo stesso studio dell’OMS , se si valuta il grado di soddisfazione dei cittadini per i servizi sanitari di cui usufruiscono, l’Italia scende sotto il trentesimo posto. Un fatto simile non è stato osservato per nessun altro paese europeo e documenta l’esistenza di un problema tanto più grave quanto più migliora la qualità delle prestazioni erogate dal SSN.

Occorre quindi per prima cosa analizzare, comprendere e spiegare questo paradosso per poter poi tentare di risolvere una realtà che sembra sfidare la logica. Per farlo è bene partire da un dato, semplice e accettato in teoria da tutti, ma troppo spesso ignorato nella pratica: l’unica cosa veramente importante, qualunque sia il modello di sanità inizialmente scelto per il paese, è porre in maniera chiara e non equivoca il cittadino con le sue esigenze e priorità al centro del sistema. La sanità, pubblica o privata che sia (intesa nel suo significato moderno di «salute per tutti»), non esiste né per dar lavoro o assecondare le necessità dei medici e del personale sanitario in genere, né per sostenere il mercato. Esiste per «produrre salute» (e non solo per curare le malattie). È per questo che con lungimiranza la Costituzione dell’Organizzazione mondiale della sanità, che risale al 1946, definì la salute come uno stato di completo benessere psico-fisico e sociale e non solo come l’assenza di malattie.2 Parlare quindi di «diritto alla salute» significa oggi parlare del diritto di ciascuno a raggiungere il massimo stato di benessere psico-fisico e sociale a lui permesso sulla base delle proprie peculiari condizioni bio-fisiche.

In questo contesto, insistere sulla centralità del cittadino significa affermare non solo che la cosa più importante per il nostro SSN è servire la comunità nazionale, ma anche che le impostazioni puramente ideologiche devono cedere il passo alla realtà delle aspettative dei cittadini, che vogliono sentirsi «accuditi» e non «sballottati» nel bel mezzo di diatribe tra medici, personale ausiliario, politici, economisti, ecc. I modelli prescelti devono quindi poter mutare per adattarsi nel tempo alle diverse necessità della comunità nazionale.

La terribile dicotomia che viviamo in Italia – con un sistema complessivamente buono, che tuttavia non soddisfa affatto le esigenze dei cittadini – si potrà risolvere solo quando gli italiani si sentiranno al centro dell’attenzione del Servizio sanitario. Perché ciò avvenga, occorre procedere con forza sulla strada di una nuova umanizzazione della medicina. Occorre convincere i medici – distratti da mille preoccupazioni e a volte abbagliati dalla tecnologia – che hanno, sempre e comunque, davanti a loro una persona (e non un semplice «utente» di un servizio) spesso preoccupata, a volte spaventata e persino disorientata. Questo cittadino (termine che sottintende il concetto di «portatore di diritti») ha quindi il diritto, prima ancora di essere curato, di essere informato, rassicurato quando ciò sia possibile, indirizzato e consigliato. Ha, in una parola, diritto di sentirsi al centro dell’attenzione del sistema. Per questo è fondamentale ristabilire un dialogo vero tra medico e paziente. Si deve poi utilizzare questo dialogo per convincere chi è sano a intraprendere stili di vita che mantengano la sua salute e a utilizzare strumenti di prevenzione che identifichino precocemente ogni alterazione possibile. Attraverso il dialogo si deve infine consigliare chi è malato sulle possibilità e le opzioni di trattamento, informarlo sulle probabilità di guarigione e sostenerlo se queste sono minime. Un sistema più umano sarà certamente un sistema più accettato, più efficiente, globalmente più valido.

 

Le responsabilità dei medici nei confronti dei cittadini

Quando si osserva un fenomeno complesso e dovuto a molte cause, logicamente vi sono anche molte responsabilità e gli operatori del settore non ne sono affatto esenti. È per questo che, perché il cittadino del nostro paese divenga protagonista dello sforzo per migliorare la salute degli italiani, occorre anche un cambio di mentalità da parte del personale sanitario, medico e non. Essi devono comprendere che le loro pur legittime esigenze devono essere armonizzate con le esigenze prioritarie dei cittadini. In questo senso in passato sono stati commessi errori un po’ da parte di tutti: i medici ad esempio, hanno, in più di un’occasione, promosso riforme atte a soddisfare più le loro, pur comprensibili, esigenze di riconoscimento del lavoro svolto e di progressione di carriera, che non le vere esigenze delle strutture in cui lavoravano. Basta guardare alla nomenclatura utilizzata negli ospedali – che sfida il senso comune per la sua ermeticità – per capire che è necessario fare più di un passo indietro. È forse utile al cittadino che una Divisione ospedaliera sia oggi definita «Struttura complessa» e la persona che ne ha la responsabilità, che tutti conoscevano con il nome di primario, ia invece definito come «Dirigente di secondo livello di Struttura complessa»? Potrebbero sembrare delle inezie di fronte ai grandi problemi. Sono invece l’indice pericoloso del fatto che non si è messa a fuoco l’essenza del problema. I cittadini hanno talora l’impressione di essere merce di scambio nelle vertenze che coinvolgono il personale sanitario, invece di sentirsi l’oggetto delle loro attenzioni.

I medici devono pertanto capire che, se hanno scelto di operare in strutture pubbliche, queste devono essere il punto focale della loro vita professionale. Naturalmente, in tutto il mondo occidentale è concesso ai medici che operano in strutture ospedaliere di svolgere attività liberoprofessionale. Nei paesi più avanzati però ciò avviene all’interno delle strutture stesse. In passato si è giustamente sostenuto che anche in Italia i medici che operano nel settore pubblico dovessero praticare la propria attività libero-professionale secondo il regime chiamato dell’intramoenia. Infatti il medico che opera anche in una struttura di ricovero privata, quasi inevitabilmente opererà una selezione tra pazienti che richiedono cure lunghe e dispendiose, da inviare alla struttura pubblica, e pazienti che necessitano di interventi meno gravi, ma più remunerativi, da trattenere nella struttura privata. L’errore commesso in passato è stato di ignorare le conseguenze di un dato fondamentale: in molti ospedali non esistono le condizioni minime per un’attività intramoenia. In questi casi ai medici era stato concesso di svolgere attività privata all’esterno, sia pure sotto la gestione formale dell’amministrazione di appartenenza. Senza entrare nel dettaglio, va sottolineato che questo approccio garantisce sì un diritto del medico, ma non risolve il problema di fondo: porre l’ospedale al centro della vita professionale del medico. Per ottenere ciò occorre che anche l’attività professionale sia fisicamente svolta all’interno delle mura della struttura pubblica. In tal modo, il medico sarà sempre materialmente presente in ospedale, sia che svolga attività clinica, pubblica o privata, che attività di ricerca o di insegnamento.

Occorre pertanto dotare al più presto i principali ospedali italiani di strutture idonee a far esercitare l’attività intramoenia all’interno dell’ospedale stesso. Poiché questo rischierebbe di sottrarre fondi alla gestione ordinaria, l’allestimento dei cosiddetti «reparti solventi» può benissimo avvenire anche attraverso joint-ventures pubblico-privato o tramite crediti agevolati alle Aziende che decidono di dotarsi delle strutture per l’attività privata dei propri medici.

C’è infine da prendere in seria considerazione le conseguenze per i cittadini di un problema esclusivo della sanità italiana: la pletora dei laureati in medicina. Seguendo i parametri utilizzati dall’OMS, si può stimare che in Italia vi siano circa 100.000 medici oltre la cifra che occorrerebbe. Infatti, secondo dati OECD: «Il nostro è l’unico paese, con la Grecia, a vantare più medici che infermieri: ce ne sono 100.000 di troppo, esattamente quanti sono gli infermieri che mancano all’appello per poter garantire un servizio di qualità. Il rapporto medici-cittadini è in Italia 5,8‰, in Francia 3‰, in Germania 3,4‰, nel Regno Unito 1,7‰».3 Questo crea un vero e proprio squilibrio tra offerta e domanda di prestazioni sanitarie, falsando il «mercato». È una situazione che si è creata in oltre trent’anni per l’assenza, voluta, di limitazioni all’iscrizione alle facoltà mediche. Quest’inerzia – di cui siamo tutti colpevoli – è stata mascherata con il «diritto allo studio », che si è purtroppo per tanti trasformato in un «diritto alla sottooccupazione». Le facoltà mediche italiane hanno cercato di porre riparo alla situazione creando «numeri programmati» per l’accesso; manca però una politica globale che porti a soluzione il problema, sia pure in tempi lunghi.

Informare ed educare i cittadini Un Sistema sanitario nazionale che abbia il cittadino al centro della propria ragion d’essere deve preoccuparsi non solo di informare, ma anche e soprattutto di educare. Un cittadino informato, edotto non solo dei problemi cui va incontro la sanità pubblica, ma anche delle conseguenze di stili di vita non appropriati, delle modalità di prevenzione delle malattie e dei metodi di cura più moderni ed efficaci, è un cittadino responsabilizzato, che può e deve vedere i servizi che gli sono offerti nella loro realtà (e quindi nei loro inevitabili limiti), senza false illusioni, ma anche con la fiducia di chi sa che molti mali sono oggi trattabili e guaribili e che il SSN è veramente pronto a servirlo. Occorre quindi continuare sulla strada delle campagne per gli stili di vita, per gli screening riconosciuti efficaci, per l’uso preventivo di farmaci in grado di ridurre il rischio delle principali patologie. È anche necessario convincere i cittadini della dannosità di un sistema di miriadi di piccole strutture sanitarie che non sono in grado di sopperire alle loro reali necessità. È questa la premessa indispensabile per un riordino della localizzazione e per un’appropriata tipizzazione delle strutture ospedaliere all’interno delle regioni, tenendo presenti le differenze geografiche e di distribuzione della popolazione. Occorre poi, senza minimamente intaccare il principio del decentramento e della devoluzione, creare strutture inter-regionali e nazionali per tutte le patologie rare e per quelle che richiedono diagnosi e terapie particolarmente complesse.

I mezzi di comunicazione di massa bombardano oggi i cittadini di informazioni su i più variegati argomenti attinenti alla salute. Quest’informazione è però spesso parziale, non corretta, talora fuorviante, perché capace di sollevare speranze infondate. Spesso essa confonde un’idea – in grado magari di aprire nuovi orizzonti terapeutici fortemente innovativi, ma pur sempre solo un’idea – con un metodo pronto per l’uso.

C’è poi il vasto campo delle terapie alternative, eterodosse, che in molti casi, grazie alla risonanza che hanno per le speranze che creano specialmente nei malati più gravi, possono distogliere i cittadini dall’uso di trattamenti meno fantasiosi, ma di comprovata efficacia. Mentre è giusto che la comunità nazionale si faccia carico di esplorare ogni nuova possibilità terapeutica, ciò deve essere fatto senza nuocere ad alcuno, senza eccessivo dispendio di fondi e soprattutto senza creare false illusioni. In questo campo un’informazione corretta, serena e imparziale è essenziale, perché molto spesso una sperimentazione seria finisce purtroppo col distruggere «il sogno», la speranza di tanti malati terminali.

 

Il cittadino e le Aziende sanitarie

Il primo passo verso una sanità migliore, più efficace e più efficiente e, soprattutto, più consona alle esigenze di tutti è quello di stabilire le priorità del SSN ponendosi nella visuale del cittadino comune. Oggi il cittadino medio sente di non avere assolutamente voce in capitolo quando si tratta dei problemi legati alla sua salute. Tutto è devoluto alle Aziende sanitarie locali (ASL) a cui il cittadino può solo rivolgersi, fidando nella comprensione di medici e addetti all’amministrazione. Perché il cittadino medio possa riappropriarsi della gestione della propria salute occorre che egli sia in qualche modo presente nelle Aziende che si prendono cura di lui. Ciò può avvenire creando dei Comitati consultivi di controllo, costituiti e gestiti dai cittadini appartenenti a una ASL. È questa la direzione in cui si muovono alcuni dei paesi più progrediti, nei quali si parla oggi di Consumer-driven health care, cioè di una sanità che abbia chi l’utilizza come motore portante.4 Questi Comitati dovrebbero poter indirizzare le scelte dei dirigenti delle ASL, suggerire modifiche e miglioramenti e creare meccanismi che permettano a chi usufruisce delle prestazioni di influenzare le priorità nell’uso delle risorse. Quest’ultimo punto è particolarmente importante, dal momento che la realtà odierna è caratterizzata dal fatto che in nessun paese del mondo tutti i cittadini possono ricevere in maniera totalmente gratuita tutto ciò di cui hanno bisogno per le loro esigenze di salute. È quindi, sempre e comunque, necessario fare delle scelte. In alcuni paesi dell’Occidente i cittadini possono influenzare queste scelte partecipando alla determinazione delle priorità e questo dovrebbe accadere anche in Italia. Coinvolgendo i cittadini, obbligandoli a scelte difficili, chiedendo loro di controllare che queste scelte siano non solo rispettate, ma gestite oculatamente evitando spese superflue o dettate da esigenze più di prestigio che di vera utilità (o, peggio, da motivazioni clientelari), non solo si renderà trasparente l’intero SSN, ma si avvicinerà il cittadino alla complessità dei problemi che esistono nella moderna gestione della salute di tutti.

C’è poi un’altra problematica fondamentale legata al pieno coinvolgimento dei cittadini nella gestione: quella della separazione dei compiti. Un sistema sanitario moderno deve basarsi su quattro cardini: chi chiede servizi, chi li offre, chi li paga e chi li controlla. In Italia questi quattro soggetti non sono sempre tra loro distinti e indipendenti. A chiedere i servizi sono ovviamente i cittadini; a fornirli sono i privati, le Aziende ospedaliere e le ASL; a pagare sono le regioni, le assicurazioni e i singoli cittadini. Il vero problema sorge nei riguardi del controllo. Oggi tutti i controlli ordinari (come è noto quelli straordinari sono compito dei Carabinieri dei NAS) sono affidati alle ASL, che si trovano così in una chiara situazione di conflitto di interessi. È infatti loro demandato il compito di controllare se stessi. Non è difficile immaginare che i controlli saranno più severi nei confronti dei privati che delle strutture pubbliche, spesso parte integrante delle ASL stesse. Occorre quindi riformare il sistema, porre tutti gli erogatori e gli operatori su una base di assoluta uguaglianza di diritti e di doveri, in modo da permettere al cittadino una vera possibilità di scelta, garantendo al tempo stesso la qualità dei servizi. Il tragico problema della corruzione dei controllori – piaga che colpisce il nostro paese, non solo nel campo della medicina, ma in maniera trasversale in tutti i settori – va affrontato pagando costoro adeguatamente e punendoli severamente se si lasciano corrompere.

Le ASL tuttavia non vanno solo riformate riguardo ai controlli. È la loro stessa natura che deve essere modificata perché, se è vero che gli sprechi e le inefficienze che hanno spesso caratterizzato il passato della sanità italiana hanno spinto verso la sua «aziendalizzazione», è ancor più vero che gli enti erogatori di salute non possono essere «entità commerciali», concetto insito in quello di azienda. In realtà, mentre è assolutamente necessario insistere per una gestione economicamente solida e corretta della sanità, applicare a chi eroga prestazioni sanitarie i principi che regolano le aziende è fuorviante. Un’azienda deve creare profitto; un ente pubblico erogatore di salute, no. I concetti di gestione economica da applicare alle attuali ASL sono quindi quelli delle ONLUS, non quelli delle aziende.

 

I cittadini e le spese per la loro salute

In materia di sanità, i governi hanno, ormai da decenni, posto sempre più l’accento sugli aspetti economici, cosa più che comprensibile quando si pensa che il solo SSN è costato all’erario, circa 77.504 milioni di euro nel 20035 e che, globalmente, la sanità incide sulle tasche dei cittadini per 100.584 milioni di euro (includendo 23.080 milioni di euro relativi alla spesa sanitaria privata).6 I governi non hanno però dato la sensazione che queste cifre enormi siano finalizzate veramente a migliorare le condizioni di salute di tutti, ovunque essi si trovino sul territorio nazionale.

A questo proposito va detto senza mezzi termini che i costi globali per la salute in Italia sono destinati ineluttabilmente a salire per due fattori non modificabili: da un lato, l’aumento dell’aspettativa di vita e la bassissima natalità che producono un invecchiamento progressivo della popolazione e, di conseguenza, un aumento delle spese necessarie a mantenere in buona salute un numero sempre maggiore di anziani; dall’altro, il miglioramento delle tecnologie biomediche che, sebbene rappresentino un validissimo strumento per produrre salute, hanno dei costi sempre maggiori. Ne consegue, come già detto, che non è possibile fornire tutto a tutti. Questo è per i cittadini un argomento obiettivamente difficile, sia perché in passato è stata data loro l’illusione del contrario, sia perché sprechi e inefficienze sono sotto gli occhi di tutti. È tuttavia un discorso non solo assolutamente necessario, ma preliminare a qualunque iniziativa. Un ristabilito rapporto di fiducia tra i cittadini e il loro SSN faciliterà il compito di coloro che dovranno operare le scelte e ne indirizzerà l’opera. Occorre che i cittadini del nostro paese comprendano che è inevitabile stabilire ciò che deve essere garantito a tutti e ciò per cui è necessario che ciascuno contribuisca, almeno in parte (esclusi naturalmente coloro che non possono pagare). Esistono nel mondo occidentale modelli diversi e una variegata gamma di opzioni tra loro anche molto diverse. Dal momento che si tratta di un problema che riguarda tutti i cittadini senza alcuna esclusione, perché la salute è problema di tutti, si dovrebbe seguire l’esempio dell’Olanda, che ha fatto le sue scelte dopo aver ampiamente consultato i propri cittadini.

Nel passato più o meno recente abbiamo assistito a innumerevoli tentativi di mettere sotto controllo la spesa sanitaria. Nella maggior parte dei casi si è però agito «alla periferia del sistema»: sui cosiddetti convenzionati esterni, sui farmaci, sull’industria farmaceutica, e così via. Poiché questi settori influiscono, ma non sono determinanti, per la spesa globale, un taglio anche importante in queste aree ha effetti minori su di essa. È per questo che deve assolutamente essere affrontato il nodo centrale della spesa, che è quello dei costi dell’assistenza ospedaliera, la quale da sola rasenta la metà del totale (47,9% nel 2003, secondo la Corte dei Conti).7 Senza una riduzione del costo di questo settore, non c’è vera soluzione. È giusto ridurre il numero degli ospedali per ottenere sostanziali economie, ma – seguendo la logica della centralità del cittadino – prima di farlo occorre spiegare e far capire ai malati e ai loro familiari che ciò, oltre a razionalizzare la spesa, produce un chiaro miglioramento delle possibilità di cura. Piccoli ospedali non forniti delle attrezzature diagnostiche e terapeutiche moderne inevitabilmente curano male; accorparli potrà obbligare molti a fare 20 chilometri per arrivare in ospedale, ma renderà la loro cura più efficiente, più rapida, globalmente migliore.

Ciò naturalmente deve andare di pari passo con l’istituzione a livello locale di una rete di medicina di base, di strutture per malati cronici, per anziani, per disabili, riservando il ricovero in ospedale alle malattie gravi, che necessitano di diagnostica e terapia altamente specializzate. Poiché il benvenuto e cospicuo aumento della cosiddetta «attesa di vita» (degli anni cioè che, in media, ci si può aspettare di vivere) comporta un aumento delle patologie degenerative dell’età avanzata che necessitano di ricovero a tempo indeterminato, è necessario soddisfare questa esigenza primaria come fatto preliminare alla razionalizzazione dei ricoveri ospedalieri.

Un paio d’anni fa l’Italia ha compiuto un’importante scelta attraverso l’introduzione dei cosiddetti «Livelli essenziali di assistenza»; è però una scelta che è stata effettuata, per così dire, dall’alto senza che i cittadini siano stati ascoltati. In particolare, è una scelta che sembra privilegiare la «cura delle malattie» nei confronti del «mantenimento della salute » (soprattutto degli anziani). Per quanto detto sopra, l’Italia deve invece fare uno sforzo importante nella direzione delle malattie croniche e degenerative.

 

Il cittadino e la devoluzione

Un problema di enorme rilevanza e dalle conseguenze non ancora sufficientemente valutate per i cittadini delle varie regioni d’Italia, è quello della cosiddetta devoluzione. Ne scrive in questo numero Ignazio Marino perciò mi limiterò ad alcune grandi linee.

Le indagini demoscopiche più recenti indicano chiaramente che gli italiani sono a favore di una sanità decentrata, più vicina al cittadino, purché i livelli di assistenza e i costi siano uguali in tutte le regioni. Si tratta quindi di trovare un giusto equilibrio tra l’esigenza, fondamentale, di far quadrare i bilanci e quella, altrettanto fondamentale, dell’equità e dell’uguaglianza di tutti in materia di salute. Il miglior modo per ottenere questo equilibrio è migliorare l’efficienza del sistema che è, obiettivamente, ancora limitata.

A questo proposito, si deve riconoscere che non solo le questioni finanziarie e di gestione quotidiana, ma anche una parte di quelle relative alla programmazione dovranno presto divenire competenza delle regioni. Quest’ultime in effetti stanno già sperimentando vari modelli sia di programmazione che di gestione. La fase attuale è delicata e ha bisogno – prima ancora di dispute ideologiche – di pazienza e persistenza, che permettano di superare senza danni il passaggio tra i due sistemi. Solo questo consentirà un bilancio (anche comparativo) delle varie esperienze, cosa che sicuramente aiuterà quelle regioni che ancora non hanno scelto ad applicare un modello piuttosto che un altro. Occorre non dimenticare mai che il vero motivo del decentramento di questo processo produttivo tutto particolare è quello di dover essere vicino al cittadino e porlo quindi in condizione non solo di poter esprimere la propria opinione, ma di esercitare un efficace controllo.

Attuato il decentramento, è però assolutamente necessario mantenere organismi centrali efficienti, capaci di garantire che vengano forniti a tutti gli stessi livelli di assistenza. È infatti iniquo continuare a tollerare flussi migratori interni alla ricerca di servizi efficienti. Questa duplice necessità è ben evidente in quei paesi dove il decentramento è una realtà da anni; in essi, assieme a una effettiva devoluzione, esistono sia un ministero, che efficienti Organismi centrali. Ciò però avviene in una visione molto diversa da quella attualmente in voga in Italia. 

È quindi urgente precisare i ruoli del ministero della salute alla luce della realtà delle nuove competenze regionali. Cinque sembrano essere i compiti che sicuramente devono restare al governo centrale e quindi al ministero. Innanzitutto, quello «normativo»: debbono necessariamente esservi norme comuni per tutto il paese, anche in previsione della necessità di applicare le norme comunitarie. In secondo luogo, un ruolo di «sorveglianza e controllo»: il decentramento, in un paese variegato e diverso come il nostro, rischia di creare una sanità a marcia variabile, con le regioni più avanzate e organizzate che corrono di più e meglio. Questo fenomeno (che già oggi fa sì che al Nord si sopravviva di più a un tumore che al Sud),8 è fonte di gravi ingiustizie e deve essere combattuto. In terzo luogo, è necessaria una «programmazione nazionale», armonizzata con quella dei nostri partner europei. Le priorità per gli interventi, pur con le necessarie variazioni da regione a regione, vanno coordinate centralmente. L’opportunità di un Piano sanitario nazionale, resta attuale. Quarto, la presenza attiva nel «contesto europeo e internazionale». Noi italiani siamo in gran parte impreparati al ruolo, di primo piano, che ci spetta nel contesto internazionale ed europeo; in particolare (anche se con lodevoli eccezioni) i nostri funzionari spesso sono impreparati a svolgere un ruolo attivo e determinante nelle istanze internazionali. Ciò avviene perché vengono spesso catapultati a una riunione comunitaria o internazionale senza che vi sia stata la necessaria preparazione tecnica. Altri paesi hanno gruppi di funzionari che, nei vari settori, si dedicano unicamente al lavoro internazionale. Infine, la «gestione delle emergenze». Che piaccia o no, le emergenze sono una costante nella vita di una nazione, sia quelle dovute a catastrofi naturali, che quelle provocate dall’opera improvvida o, peggio colpevole, di qualcuno. In Italia, in queste situazioni, ci si ritrova sempre impreparati e passibili di rimprovero.

 

La ricerca scientifica al servizio del cittadino

Nel nuovo contesto è anche necessario ridefinire le Strutture centrali, tecniche e scientifiche, della sanità italiana. Esse non solo devono continuare ad esistere, come avviene dovunque, ma vanno anche potenziate; devono inoltre essere raggruppate in modo efficiente e moderno. Il modello che più di tutti ha avuto successo è quello americano, che conta istituzioni federali forti e ben definite nei ruoli (NIH, CDC, EPA, FDA, ecc). Mentre non vi è dubbio che il modello sia valido, occorre anche una buona dose di realismo: negli Stati Uniti l’obiettivo è stato di dotare i «soli» National Institutes of Health di 20 miliardi di dollari annui. In Italia il bilancio complessivo per ricerca e sviluppo del ministero della salute è, per il 2004, circa 406 milioni di euro.9

Data questa realtà, è necessario creare un sistema integrato che comprenda tutte le istituzioni centrali della sanità italiana; alcune dovranno essere raggruppate in modo organico, altre in maniera puramente funzionale. È quindi certamente utile costituire anche da noi un sistema di Istituti nazionali della sanità, con compiti scientifici, tecnici e di controllo, che agisca come motore pensante della salute dei cittadini.10

Questa nuova entità, che va naturalmente costituita con un apposito decreto legislativo che modifichi la situazione attuale, dovrà essere, da un lato dotata di ampia autonomia, sia amministrativa che di giudizio, dall’altro, essere strategicamente guidata dai poteri legislativo ed esecutivo. Ciò significa che, mentre le priorità di lavoro e l’allocazione dei fondi dovranno essere decise dal governo e ratificate dal parlamento (ad esempio su base triennale), la conduzione del lavoro dovrà poi essere decisa da comitati di ricercatori (includendovi anche studiosi non italiani), evitando rigorosamente il conflitto di interessi. Nel contesto attuale di grave scarsità di fondi, la dotazione che giunge dal Fondo sanitario nazionale dovrà, per forza di cose, essere molto più selettiva di quanto non avvenga oggi, magari con rotazione delle priorità. Solo così i problemi potranno essere affrontati con i fondi necessari a ottenere risultati validi. Utilizzando questo sistema, si dovrà poi «aprire» questi fondi a tutti i meritevoli, senza l’attuale limitazione solo ad alcune istituzioni. Ciò comporta la riforma anche dei cosiddetti Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS).

L’esiguità dei fondi per la ricerca applicata è un argomento sul quale il punto di vista del cittadino non è stato mai focalizzato appropriatamente. Sembra infatti che l’opinione pubblica si disinteressi in Italia della ricerca. Se ciò è vero, entro certi limiti, è anche per colpa di taluni ricercatori che danno l’impressione di lavorare in un mondo e per scopi separati dall’interesse quotidiano dei cittadini. Negli Stati Uniti, dove i risultati dello sforzo della ricerca biomedica applicata sono sotto gli occhi di tutti, è il cittadino a pretendere un continuo aumento dei fondi a disposizione del NIH. Lì infatti il Congresso, espressione attenta degli umori degli americani, spinge continuamente il governo per un incremento nei fondi da dedicare alla ricerca. Sicuramente anche in Italia (come avviene ad esempio con Telethon) se i cittadini percepiscono un campo di ricerca come utile a migliorare la loro vita quotidiana, sono poi pronti a far pressione affinché quella ricerca abbia maggiori fondi a disposizione. Queste brevi osservazioni hanno evidenziato solo alcuni – e non necessariamente i più importanti – tra i molti problemi da affrontare e risolvere. Come in ogni altro campo di valenza globale, in tema di salute prima di agire è necessario riflettere. È necessario accordarsi su una visione la più vicina possibile a ciò di cui i cittadini hanno obiettivamente bisogno e su cui si possa raggiungere il massimo consenso possibile. Mi auguro che questi brevi commenti, uniti agli altri contributi pubblicati in questa sezione monografica, servano ad aprire questa riflessione e diano inizio a una discussione su cosa possa e debba esser fatto per ridare ai cittadini piena fiducia nel loro, pur buono, sistema sanitario.

 

 

 

Bibliografia

1 World Health Organisation, World Health Report 2000. Health Systems: Improving Performance, WHO, Ginevra 2000.

2 World Health Organisation, Constitution of the World Health Organisation, (New York from 19 June to 22 July 1946), WHO, Ginevra 1992.

3 P. Del Bufalo, La sanità italiana, in «Il Sole 24 Ore», 21 Marzo 2001.

4 C.M. Clancy e A.K. Gauthier (a cura di), Consumer-driven Health care: Beyond rethoric with research and experience, in «Health Services Research», 39/2004, pp. 1049-1219.

5 Elaborazioni Saniteia su dati ISTAT di Contabilità nazionale, 2002.

6 Idem.

7 Corte dei Conti, Relazione sulla Finanza Regionale, Istituto poligrafico dello Stato, Roma 2003.

8 F. Berrino, R. Capocaccia, J. Estève, G. Gatta, T. Hakulinen, A. Micheli, M. Sant, A. Verdecchia (a cura di), Survival of Cancer Patients in Europe. The EUROCARE-2 Study, IARC Scientific Publication, Lione 1999.

9 Ministero dell’economia e delle finanze-Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato, Bilancio 2004 del Ministero della Salute, Istituto poligrafico dello Stato, Roma 2004.

10 G. Benagiano, Italy needs an NIH of its own, in «Nature» 389/1997, p. 224; M. Ballmaier, Institute surprise for Italian scientists, in «Nature Medicine», 5/1999, p. 858; Benagiano, Italian changes are not surprising, in «Nature Medicine», 5/1999, p. 967.