Dopo Berlusconi: la presidenza italiana e l'Europa

Written by Antonio Missiroli Thursday, 01 January 2004 02:00 Print

Il 2003 è stato un anno difficile per l’Unione europea, fra crisi irachena, crisi del Patto di stabilità e crisi della Conferenza intergovernativa (CIG) che avrebbe dovuto varare la nuova «Costituzione». E nella seconda metà dell’anno, la presidenza di turno è stata tenuta – probabilmente per l’ultima volta, se la rotazione semestrale sarà davvero abolita – proprio dall’Italia. Farne un bilancio il più possibile equilibrato, che tenga conto cioè dei vincoli effettivi e del clima generale in cui si è aperta, sviluppata e conclusa, può dunque essere un esercizio utile per meglio capire sia lo «stato dell’Unione» alla vigilia dell’allargamento a dieci nuovi membri e del rinnovo di Parlamento e Commissione, sia la posizione del paese nella nuova Europa che si va – letteralmente – costituendo.

 

Il 2003 è stato un anno difficile per l’Unione europea, fra crisi irachena, crisi del Patto di stabilità e crisi della Conferenza intergovernativa (CIG) che avrebbe dovuto varare la nuova «Costituzione». E nella seconda metà dell’anno, la presidenza di turno è stata tenuta – probabilmente per l’ultima volta, se la rotazione semestrale sarà davvero abolita – proprio dall’Italia. Farne un bilancio il più possibile equilibrato, che tenga conto cioè dei vincoli effettivi e del clima generale in cui si è aperta, sviluppata e conclusa, può dunque essere un esercizio utile per meglio capire sia lo «stato dell’Unione» alla vigilia dell’allargamento a dieci nuovi membri e del rinnovo di Parlamento e Commissione, sia la posizione del paese nella nuova Europa che si va – letteralmente – costituendo.

 

Involuzione dall’alto

Ancora alla fine di giugno, poco prima del passaggio delle consegne dalla presidenza greca a quella italiana, le attese e le incognite principali si concentravano su due aspetti: a) su come Roma avrebbe potuto e saputo facilitare il parto del nuovo «Trattato costituzionale», di cui la Convenzione stava licenziando la bozza finale; e b) su come Silvio Berlusconi, in particolare, si sarebbe mosso fra la Scilla dell’asse franco-tedesco e la Cariddi rappresentata dalle sue presunte «affinità elettive» con Josè Maria Aznar e Tony Blair. I due aspetti erano in realtà collegati, almeno nella misura in cui la ricerca di un’intesa accettabile – politica e costituzionale – fra i due fronti appariva come la condicio sine qua non sia per il varo del nuovo Trattato (con possibile firma finale a Roma nel maggio 2004) sia per una navigazione sufficientemente spedita e sicura verso gli appuntamenti europei della primavera successiva, in un contesto internazionale ancora scosso dalle divisioni sulla guerra (e il dopoguerra) in Iraq. All’epoca, c’era chi propendeva per la tesi della potenziale contraddizione fra l’imperativo europeista, ancorato in una lunga tradizione diplomatica, e l’inclinazione atlantista espressa invece più di recente soprattutto dal presidente del consiglio, malgrado lo status di «non belligeranza» nel conflitto iracheno. Ma c’era anche chi riteneva (o comunque sperava) che proprio la ricollocazione internazionale ed europea voluta dal presidente del consiglio potesse rappresentare una risorsa politica, piuttosto che un handicap, in vista dell’inevitabile ruolo di mediazione che gli sarebbe toccato. Non solo, ma l’Italia aveva anche una tradizione di grande apertura nei confronti degli interessi dei paesi più piccoli e di sostegno a tutti i successivi allargamenti della Comunità/Unione – tradizione che avrebbe potuto aggiungere credibilità allo sforzo di sintesi e di ricompattamento imposto dalle scadenze istituzionali e dalle circostanze politiche.

Tanto vale dirlo subito: il comportamento personale del presidente del consiglio non ha certo facilitato la gestione politica già complessa della presidenza. In almeno tre circostanze – l’ormai celebre discorso di apertura al Parlamento europeo (con la replica alle accuse dell’onorevole Schulz), la conferenza stampa al termine del vertice UE-Russia (la difesa acritica e gratuita della politica di Mosca in Cecenia, poi puntualmente e ufficialmente stigmatizzata dai partners alla successiva riunione dei ministri degli esteri), e la condotta concreta della sessione finale della CIG al Consiglio europeo di Bruxelles (dalle rodomontate dell’ultima ora sulla presunta «soluzione» scritta su un misterioso foglietto, alle barzellette e alle battute fuori luogo, fino all’eccessiva fretta di chiudere i lavori con un nulla di fatto, senza neppure mettere per iscritto le intese raggiunte verbalmente) – Silvio Berlusconi, con le sue reazioni e le sue uscite più o meno estemporanee, ha gravemente danneggiato l’immagine della presidenza e la sua stessa efficacia. Si potrebbero ovviamente aggiungere le occasionali frizioni protocollari con il presidente della Commissione Romano Prodi, che hanno dato l’impressione di proiettare su scala continentale e istituzionale le schermaglie della politica italiana. Tutti comportamenti non nuovi per il personaggio Berlusconi, ma purtroppo ribaditi a un livello inedito per eco internazionale e visibilità mediatica, con conseguenze talora avvilenti per il paese nel suo complesso.

 

Non solo Berlusconi

Detto questo, sarebbe politicamente scorretto e fuorviante attribuire a queste sbavature comportamentali di Silvio Berlusconi gli insuccessi o i problemi in cui è incappata la presidenza, ovvero ignorare ciò che di positivo è stato malgrado tutto raggiunto, anche per merito della presidenza.

La crisi del Patto di stabilità per l’euro, ad esempio, veniva da lontano e, presumibilmente, andrà lontano. Da tempo ormai era chiaro che Francia e Germania non avevano alcuna intenzione di intervenire energicamente sui loro deficit pubblici per evitare le procedure di infrazione previste dal Patto. All’arroganza con cui Francis Mer e Hans Eichel si consideravano – orwellianamente – più eguali degli altri e, perciò, virtualmente non passibili di sanzioni da parte di Bruxelles, ha fatto da pendant l’esitazione e il ritardo con cui la Commissione ha affrontato il problema, prima qualificando come «stupido» il Patto stesso, poi non impegnandosi a sufficienza e per tempo nella individuazione di regole nuove e più flessibili, infine presentando troppo tardi l’idea di adottare sanzioni per poi «congelarle». Insomma, una convergenza di responsabilità negative a cui si è senz’altro aggiunto, nella cruciale riunione dell’Ecofin di metà novembre, anche l’opportunismo del presidente di turno, il ministro delle finanze Tremonti, che non ha esitato a schierarsi con le tanto vituperate potenze «renane» – rovesciando così le consuete alleanze politiche (Spagna e Olanda si sono schierate sull’altro fronte, con la Gran Bretagna pesce in barile) – in previsione di un qualche scambio futuro, ma portando a una debacle di cui è ancora difficile valutare le esatte proporzioni e possibili implicazioni. Da notare inoltre che, in questo caso, l’Ecofin non poteva probabilmente adottare una decisione, ma soltanto una «raccomandazione»: di qui, anche, l’iniziativa assunta nel gennaio successivo dalla Commissione, pur fra mille dubbi, di ricorrere alla Corte europea di giustizia contro l’Ecofin, decisione che, a sua volta, rischia però di aggravare ulteriormente la crisi complessiva del Patto. Ma, appunto, il comportamento italiano non è stato così determinante, e la crisi aveva e ha ben altre origini e motivazioni.

Anche il mancato accordo alla CIG non è principalmente ascrivibile alla gestione italiana. Non è del tutto inconcepibile che un supplemento di consultazioni e trattative – soprattutto quando, nella mattinata di sabato 13 dicembre, Madrid aveva dato segnali di flessibilità sulla questione del sistema di voto – avrebbe potuto portare se non altro a una soluzione-ponte (un accordo-quadro, ad esempio, da finalizzare e ritoccare nelle prime settimane del 2004). Ma una disamina obiettiva della condotta negoziale di alcuni paesi-chiave e degli interessi politici reali in gioco mostra come le chances di accordo a dicembre fossero comunque molto ridotte. A parte la nota rigidità di Spagna e Polonia sui «voti ponderati», infatti, ci sono state la rigidità apparente della Germania sulla «doppia maggioranza» proposta dalla Convenzione (un sistema che, a sua volta, favorisce in modo forse eccessivo proprio Berlino) e quella più sostanziale della Francia, che forse nascondeva invece un interesse più profondo a non pervenire comunque a un accordo in dicembre. In diversi incontri informali con altri partners, infatti, Parigi non aveva nascosto di poter continuare a vivere ancora a lungo con il sistema di calcolo adottato a Nizza (che le assicura ancora la parità formale con la Germania unita), mentre un’approvazione rapida del nuovo «Trattato costituzionale» avrebbe posto il presidente Chirac di fronte al dilemma di un rischiosissimo referendum popolare. Non solo, ma fa tuttora parte dell’approccio francese all’allargamento l’allarme sulla crescente ingovernabilità di un’Unione a venticinque o più membri, con conseguente rilancio della prospettiva delle «due velocità», dei «gruppi pionieri» e/o dei «direttorii» ristretti – puntualmente richiamata dall’Eliseo e dal Quai d’Orsay proprio all’indomani del fiasco della CIG. Più in generale, infine, è sostenibile che molti altri governi di paesi membri dell’Unione (grandi e piccoli, vecchi e nuovi) preferissero rinviare il varo della «Costituzione» per non trovarsi a dover affrontare una lunga campagna elettorale europea centrata sul testo, sui risultati ottenuti e sulle concessioni fatte in materia di interessi «nazionali».

 

Giochi e giocatori

D’altra parte, è anche giusto ricordare che – alla luce dei precedenti degli ultimi venti anni – mai una Conferenza intergovernativa di questo tipo è stata aperta e chiusa con successo in soli tre mesi. In questo senso, il compito che si era ufficialmente prefissa la presidenza italiana era, obiettivamente, quasi proibitivo.

Prima di tutto, il clima generale fra i paesi membri si era deteriorato già prima dell’inizio effettivo della CIG. In parte, ciò era dovuto ai piccoli colpi di mano effettuati dal Presidium della Convenzione, che fra il Consiglio europeo di Salonicco di metà giugno e la chiusura dei lavori a metà luglio, nonostante dovesse limitarsi a una semplice ripulitura tecnico-legale del testo, aveva ritoccato unilateralmente alcuni articoli della bozza finale, in direzione, guarda caso, di alcune richieste francesi (la tutela dell’«eccezione culturale») e tedesche (l’unanimità sulla politica di immigrazione). Uniti a una serie di altri piccoli e grandi abusi procedurali compiuti nel corso del tempo soprattutto dal presidente Valèry Giscard d’Estaing, i ritocchi d’inizio luglio hanno contribuito a creare un clima di diffidenza e ostilità nei confronti del lavoro fatto dalla Convenzione, espresso prima dalle immediate riserve di alcuni governi, poi dal rifiuto pressoché unanime con cui i rappresentanti dei venticinque hanno accolto la proposta fatta dalla presidenza italiana, al vertice informale dei ministri degli esteri di Riva del Garda, di associare proprio Giscard d’Estaing ai lavori della CIG.

Sono poi presto seguite le prime prese di posizione ufficiali dei paesi partecipanti, dalle ormai famose red lines fissate dal governo britannico (unanimità su fiscalità e politica estera) ai noti veti ispano-polacchi sulla riforma del sistema di voto. Per parte loro, i paesi «piccoli» dell’Unione si erano raccolti in un club informale ma numeroso animato da Austria e Finlandia (comprendente peraltro anche la Polonia, che tanto piccola non è, ma non i paesi del Benelux), deciso a battersi contro l’abolizione della presidenza di turno e altri presunti/latenti colpi di mano istituzionali dei «grandi», a cominciare da alcune norme relative alle cosiddette «cooperazioni rafforzate» o «strutturate». Detto questo, era possibile percepire sfumature di tono e di intensità polemica un po’ in tutti i fronti: la Gran Bretagna ha sempre mantenuto un profilo piuttosto basso, cercando di tutelarsi attraverso un rapporto bilaterale con il presidente del consiglio italiano. Greci e portoghesi non si sono troppo esposti sul fronte dei «piccoli», mentre cechi e ungheresi hanno lasciato capire che i polacchi non rappresentavano affatto l’insieme dei nuovi membri. E altri paesi, soprattutto i più nuovi e inesperti, hanno preferito nascondersi, senza impegnarsi a fondo su nessun dossier.

Di fronte a questo piccolo assalto concentrico al fortino della «Costituzione», la presidenza italiana ha scelto: a) di cercare di mantenere la maggiore aderenza possibile al testo della Convenzione; b) di aprire una consultazione a tappeto fra i venticinque sulle parti del testo suscettibili di modifica o chiarificazione, distribuendo all’inizio di ottobre un questionario dettagliato. Pur criticata da alcune delegazioni, questa mossa ha probabilmente favorito un decantamento delle tensioni iniziali. E quando il ministro degli esteri Frattini ha convocato il cosiddetto «conclave» di Napoli, a fine novembre, e presentato proposte su alcuni dei punti più controversi, la presidenza ha forse offerto il meglio di sè, facendo convergere le posizioni dei partner su molte questioni. I riconoscimenti per questa fase della gestione della CIG non sono del resto mancati, e ancora alla vigilia del cruciale Consiglio europeo di Bruxelles un consenso di massima pareva essere stato raggiunto su quasi tutti gli ottanta e oltre punti critici emersi dal questionario. Purtroppo, non è stato così su quelli politicamente più delicati, e il mancato accordo di Bruxelles – in assenza di un testo ufficiale sullo stato dei negoziati presentato dalla presidenza – fa sì che le intese nel frattempo più o meno raggiunte non possano tecnicamente essere considerate come un acquis della CIG, sia pure provvisorio e soggetto alla natura di package deal (non c’è accordo su nulla finchè non c’è accordo su tutto) dell’intero esercizio.

 

All’attivo

Fra i punti su cui la presidenza italiana ha dato un contributo fondamentale ci sono senz’altro quelli relativi alla politica di sicurezza e difesa. La Convenzione aveva già inserito alcune norme innovatrici di notevole rilievo, ma un po’ la vaghezza o l’ambiguità di certe formulazioni, e un po’ il clima di diffidenza reciproca creato dalle divisioni sulla guerra in Iraq le avevano rimesse in discussione. In particolare, le obiezioni si erano concentrate su due articoli della bozza licenziata dalla Convenzione: quello relativo all’obbligo di assistenza militare reciproca in caso di «aggressione armata» (articolo III-214), presentato tuttavia come caso possibile di «cooperazione più stretta» fra alcuni partner; e quello relativo alla cosiddetta «cooperazione strutturata», sempre fra alcuni partner soltanto, in materia appunto di capacità militari (articolo III-213). In entrambi i casi, insomma, era l’aspetto preventivamente «selettivo» delle norme ad aver sollevato tacite riserve ovvero esplicita opposizione.

Nel primo caso, tuttavia, le obiezioni riguardavano anche l’eventuale impatto dell’articolo III-214 (anticipato anche all’ articolo I-40) sia sulla NATO, per i paesi UE che ne fanno parte (e saranno 19 fra pochi mesi, 21 fra qualche anno), sia sullo status di neutralità di Irlanda, Svezia, Finlandia e Austria (e presto Cipro e Malta). In altre parole, tanto gli atlanticisti che i «non-alleati» trovavano la norma pericolosa – nella misura in cui poteva determinare «regimi» di sicurezza separati all’interno dell’UE (la «cooperazione più stretta» fra alcuni) come sull’intero continente – e tale comunque da intaccare potenzialmente la sovranità dei parlamenti nazionali. La soluzione che è stata avanzata, dopo una fitta serie di negoziati, e che si può rintracciare nella proposta presentata alla CIG dalla presidenza il 9 dicembre (prima dunque del Consiglio europeo di Bruxelles), sopprime l’articolo III-214 in quanto tale, inserisce nell’articolo I-40 due esplicite clausole di salvaguardia – una per i paesi alleati, che continueranno a vedere nella NATO la sede principale per la loro difesa collettiva, e una per «le politiche di difesa di certi paesi membri» (i neutrali, appunto) – e non parla più di «cooperazione più stretta». L’impegno, insomma, varrebbe per tutti i partner, e non solo per quelli che aderissero a una cooperazione selettiva, sia pure su base volontaria.

Nel secondo caso, quello della cosiddetta «cooperazione strutturata», le obiezioni venivano invece dai paesi che vedevano nell’articolo III-213 una porta attraverso cui un gruppo ristretto di paesi (e la sponsorizzazione franco-tedesca dell’iniziativa alla Convenzione legittimava il sospetto) avrebbe potuto: a) escluderne altri su basi arbitrarie e soprattutto non negoziate; b) agire a nome dell’Unione – utilizzandone il trade mark, come sostenuto polemicamente dal ministro degli esteri finlandese in un articolo sul «Financial Times» – senza aver mai ricevuto un mandato politico esplicito. La soluzione proposta dalla presidenza (ancora una volta dopo strette consultazioni con Francia, Germania e Gran Bretagna, che si erano attivate separatamente per trovare una soluzione accettabile) ha cercato di tenere conto delle diverse obiezioni: da un lato, ha meglio esplicitato le procedure attraverso cui si arriverebbe a tale «cooperazione strutturata» (ora definita anche «permanente») e si potrebbe successivamente allargarla ad altri paesi interessati al di là del nucleo promotore; dall’altro, ha messo nero su bianco una bozza del «protocollo» su cui si baserebbe la cooperazione, esplicitando cioè i criteri di selezione e adesione. Fra questi, la messa a disposizione dell’UE di forze (nazionali o pluri-nazionali) per operazioni ad alta intensità militare, la partecipazione ai «maggiori programmi di cooperazione industriale europea» nel settore degli armamenti, e certi livelli di spesa (in rapporto al PIL) su ricerca e sviluppo in ambito militare. Questa maggiore trasparenza riguardo alle modalità di funzionamento e di partecipazione alla «cooperazione strutturata permanente» pare aver fatto accantonare le diffidenze e le ostilità che si erano venute a coagulare attorno al testo originario dell’articolo.

Sembra insomma difficile che qualunque futura intesa finale sul «Trattato costituzionale» finisca per discostarsi molto dalle formulazioni depositate dalla presidenza italiana il 9 dicembre scorso, e su cui si è registrato un consenso virtualmente unanime. Alcuni aspetti di questa convergenza potrebbero addirittura essere messi in pratica già prima non solo dell’eventuale entrata in vigore della futura «Costituzione» (prevista per il 2009), ma anche della sua approvazione da parte della CIG (sperabilmente) nel corso del 2004. Tutto questo a conferma del fatto che, nonostante le divisioni sull’Iraq e sulla politica americana, la politica di sicurezza e difesa comune (PESD) rappresenta oggi forse l’aspetto più dinamico del processo di integrazione. Prova ne sia che la presidenza italiana ha fatto avanzare con successo anche tutta una serie di altri dossier legati alla PESD: dall’intesa sulle diverse opzioni per i quartieri generali per missioni militari UE (con o senza la NATO) – basata nuovamente su un negoziato preliminare a tre fra Parigi, Londra e Berlino –, alla creazione di un «meccanismo finanziario permanente» per coprirne i costi; dalla decisione di lanciare già nel 2004 l’«Agenzia europea per gli armamenti, la ricerca e le capacità militari», alla stessa adozione ufficiale, sempre a dicembre, della «Strategia di sicurezza» dell’Unione, presentata in una bozza provvisoria da Javier Solana già nel giugno 2003 e poi ritoccata in alcuni punti secondari. A differenza di quanto accaduto a livello di capi di Stato e di governo, insomma, in questo ambito l’imprinting più eurofederalista del ministero degli esteri e l’inclinazione più euroatlantica del ministero della difesa hanno facilitato l’accordo fra i venticinqe, raccogliendo fra l’altro espliciti riconoscimenti fra i partner.

 

Il paradosso di Groucho

Un bilancio dell’ultima presidenza italiana dell’UE non può trascurare il problema che Roma si trova ora ad affrontare a livello europeo (e non solo): problema non nuovo, certo, ma che si ripropone con un’urgenza diversa ora che è venuta a cadere la foglia di fico della presidenza di turno, che imponeva al titolare di non partecipare a iniziative settoriali dei partner. Si tratta dell’evidente esclusione dell’Italia dal «triumvirato» – «direttorio» più o meno informale, certo non «avanguardia» – che si sta formando fra i Big Three, e di cui il «Financial Times» è divenuto l’organo quasi ufficiale. Dal punto di vista della «taglia» (popolazione, PIL, voti e rappresentanti nelle istituzioni), infatti, l’Italia è a tutti gli effetti un «grande», ma non è considerata tale dagli altri e, forse, non lo si considera davvero neppure lei stessa. D’altra parte, non è semplice per nessun capo di governo, e tantomeno per Silvio Berlusconi, accettare senza reagire un declassamento di fatto di questo tipo, soprattutto quando paesi con meno credenziali (la Spagna o la stessa Polonia) si battono con tanta tenacia per evitarlo, alla CIG come altrove.

Nell’Unione a venticinque e più paesi che si sta preparando, insomma, uno dei problemi più seri per l’Italia, in termini di sostanza come di immagine, potrebbe diventare proprio questo: che fare per entrare in un club che – per parafrasare Marx (Groucho) – si preferirebbe non esistesse e/o di cui, in fondo, non si è ben certi di voler far parte, anche per i costi che potrebbe poi comportare nelle relazioni con tutti gli altri partner?