Non basta il patriottismo umanitario

Written by Gian Enrico Rusconi Thursday, 01 January 2004 02:00 Print

Il patriottismo umanitario e del lutto che abbiamo registrato in Italia in occasione della tragedia di Nassiryia è il segno della rinascita del senso d’identità nazionale e di patriottismo in Italia? In realtà occorre distinguere tra la latenza di un sentimento di comunità e l’incapacità della politica di dargli una risposta adeguata. Davanti a Nassiryia la politica stessa è rimasta sorpresa, persino intimidita dalla reazione spontanea della gente. Si sono pianti i «nostri» giovani caduti, ma non ci si è pronunciati sulla giustezza o meno di una linea politica che ha procurato quel sacrificio. Tutto è rimasto sospeso.

Il patriottismo umanitario e del lutto che abbiamo registrato in Italia in occasione della tragedia di Nassiryia è il segno della rinascita del senso d’identità nazionale e di patriottismo in Italia?

In realtà occorre distinguere tra la latenza di un sentimento di comunità e l’incapacità della politica di dargli una risposta adeguata. Davanti a Nassiryia la politica stessa è rimasta sorpresa, persino intimidita dalla reazione spontanea della gente. Si sono pianti i «nostri» giovani caduti, ma non ci si è pronunciati sulla giustezza o meno di una linea politica che ha procurato quel sacrificio. Tutto è rimasto sospeso.

Sono ricomparse le bandiere tricolori, è venuto meno il pregiudizio ideologico anti-nazionale, è tornato anche il lessico patriottico, gestito per altro quasi esclusivamente dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Ma la classe politica, come tale, non è affatto in grado né di esprimere né di produrre una nuova cultura politica che sia capace di creare un’autentica identificazione con la politica nazionale. Non sa da che parte cominciare. Gli argomenti del patriottismo costituzionale e della religione civile repubblicana, presi a prestito da qualche libro (o, più frettolosamente, dalla sua quarta di copertina) rimangono epidermici.

In compenso nel corso della vicenda giudiziaria del crocifisso nell’aula scolastica di un paesino dell’Abruzzo abbiamo assistito a un incredibile corto-circuito, per cui è diventato emblema identitario nazionale il simbolo della croce, anche se riformulabile in termini universali (come ha detto lo stesso presidente della Repubblica alla TV).

Molti, a sinistra, hanno già rimosso tra fastidio e imbarazzo quanto è accaduto. Ma quella vicenda e soprattutto la reazione dell’opinione pubblica, riprodotta dai grandi giornali d’opinione, non possono essere archiviate come un incidente. Sono il sintomo di un problema di fondo, latente, che la cultura di sinistra laica e dei cattolici liberali (ormai in via d’estinzione) è impreparata o restia ad affrontare e che lascia così agli opportunismi della nuova cultura catto-populista e alla mancanza di pudore della destra. Come dimenticare lo striscione degli estremisti di destra in difesa della italianità davanti alla scuola abruzzese del crocifisso, immagine che ha fatto il giro di tutti telegiornali, senza commento? Si tratta del nesso tra identità nazionale e confessione religiosa in una congiuntura storica che è ossessionata da rivendicazioni identitarie, esasperate da presunte o reali minacce esterne, identificate come islamiste. Da qui il maldestro surrogato di religione civile che viene ad assumere nel nostro paese la religione-di-chiesa.

I termini della questione sono nuovi, ma sono maturati lungo tutti gli anni Novanta. La tematica dell’identità nazionale, accantonata per decenni dalla cultura politica e storica alta (ma tenacemente conservata nella cultura popolare) è stata messa all’ordine del giorno una dozzina di anni fa. Inizialmente ha incontrato la diffidenza della storiografia accademica; ma poi questa stessa nel giro di qualche anno si è riappropriata autorevolmente del tema, sfornando libri su libri sulla nazione Italia. Dubito tuttavia che essa abbia risposto alla domanda di identità nazionale del tipo avanzato allora e oggi. La storiografia ha corretto luoghi comuni, ha ristabilito alcune verità storiche, ha colmato lacune di conoscenza. Ha fatto opera di rettifica, ma non di riproposizione culturale. Questo non è il mestiere della storiografia – si è obiettato – ma è il compito della politica, della cultura politica.

In effetti la politica negli anni Novanta, dunque la sinistra al governo e comunque in posizioni di responsabilità, avrebbe potuto intraprendere questa strada. Ma ha peccato di svogliatezza su un tema importante, in un momento importante. Naturalmente è anche una questione di attrezzatura concettuale di cui la sinistra è sprovvista. Ma a questo si rimedia facilmente se si è convinti della sua necessità. La sinistra invece ha esitato. Lo stesso rischioso impegno della «guerra umanitaria» in Kosovo avrebbe potuto offrire l’occasione di declinare in modo originale la nuova affidabilità internazionale dell’Italia con la ridefinizione dei suoi «interessi nazionali». Ma anche qui il centrosinistra ha mancato la sua occasione. Così nella competizione e nel ricambio elettorale, che è seguito a quella vicenda, si è creata l’impressione che il ritorno di sensibilità collettiva per l’interesse nazionale e per la nazione fosse una carta elettoralmente vincente (sia pure ausiliaria) della destra, a dispetto del fatto che la destra italiana è assolutamente priva di originalità e di innovazione proprio nella riflessione sul tema della nazione. Su questo punto infatti la destra vive parassitariamente di rendita culturale e di polemiche anacronistiche.

Poi inaspettatamente la congiuntura internazionale impone una drastica accelerazione (11 settembre, intervento militare americano in Afghanistan e in Iraq, mobilitazione contro il terrorismo, frattura tra America ed Europa, tensioni intra-europee). Questi eventi alterano alcuni parametri rispetto ai quali si misurano gli interessi e le stesse identità nazionali. Il governo italiano impone al paese obblighi di intervento in Iraq ancora più impegnativi e rischiosi di quelli del Kosovo, perché svincolati da un esplicito sostegno delle Nazioni Unite, che avevano sempre offerto la possibilità di sintonizzare l’azione «disinteressata» dell’Italia con i suoi interessi. La minaccia terroristica, l’unilateralismo americano e la disgregazione del fronte europeo prendono in contropiede la politica italiana. Il governo decide l’intervento in Iraq, senza valutare bene l’intero quadro a rischio. La reazione corale alla tragedia di Nassiryia mette a disposizione un potenziale umanitario che assume anche la veste tricolore ma rimane fragilissimo senza una solida linea politica.

Riprendiamo gli altri fili degli anni Novanta. All’inizio del decennio i moventi dell’interesse per la nazione erano sostanzialmente tre: la minaccia secessionista della Lega Nord; la retorica post-nazionale europeista e la rivisitazione della storia italiana in alcuni nodi cruciali, legati alla dimensione patriottica della Resistenza e ad alcuni connotati della guerra civile. Alcuni di questi motivi rimangono tutt’oggi sul tappeto (in particolare la riflessione storiografica non ha raggiunto ancora un assestamento convincente); altri sono coniugati in modo differente rispetto a dieci anni fa. Questo vale per la rilevanza politica del secessionismo/leghismo. Oggi si tende a dimenticare che per alcuni anni la sfida secessionista al nord è stata reale ed è stata contenuta anche grazie alla reazione spontanea di molta parte della popolazione che si è sentita «italiana» in senso «nazionale», smentendo le diagnosi di molti dotti intellettuali. Adesso la questione del leghismo è diversa: accantonata ufficialmente l’opzione apertamente secessionista, la sopravvivenza politica della Lega (attaccata ora alla parola «devoluzione» sempre sospetta di separatismo) è legata a doppio filo alla leadership personale di Berlusconi dalle cui concessioni sostanziali o simboliche dipende totalmente. La sordina e/o la ripresa dell’appello antinazionale della Lega sono del tutto dipendenti dal complesso gioco di potere all’interno della coalizione. Da questo punto di vista non è chiaro sino a che punto il conflitto con Alleanza Nazionale coincida davvero con l’oggettivo rapporto di tensione tra «federalismo» e «interesse nazionale» in generale. O non sia una variabile del rapporto di forza partitica all’interno della coalizione.

Vi è inoltre un paradosso. A chi si chiede come possano coesistere nello stesso governo Lega e AN, si può ricordare che entrambi i partiti coltivano un’idea di fondo di nazione molto simile. Infatti quella localista, regionalista della Lega e quella storica di AN, sono pur sempre, nella sostanza, etno-nazioni, basate cioè su indicatori di territorio e di tradizione cultural-religiosa anziché su criteri di cittadinanza. Perché sorprendersi allora che questi due partiti siano stati i difensori più zelanti del crocifisso come emblema nazionale?

Quanto al federalismo, è con grande disinvoltura che in Italia, nel giro di pochi anni, si è enunciata la sua compatibilità con l’identità nazionale e con la persistenza di alcune strutture politiche unitarie essenziali. In effetti per un federalismo funzionante si tratta di un principio ovvio. Per l’Italia invece e per le rivendicazioni devoluzioniste sul suo territorio si tratta di una affermazione scaramantica.

La classe politica italiana nel suo insieme non ha alcuna esperienza e cultura politica federale. L’esperienza dei presidenti regionali (pomposamente chiamati governatori) è ancora troppo recente, troppo modesta e iperpoliticizzata perché possa offrire punti di riferimento solidi. In breve, il principio dell’unità e integrità nazionale nel federalismo all’italiana (alla Bossi) vale solo nominalisticamente, data l’assenza di qualsiasi cultura e prassi di cooperazione orizzontale tra le aree regionali.

A ben vedere, lo stesso nominalismo caratterizza anche la questione del rapporto armonico tra Unione europea e singoli Stati nazionali. Ripensando ai dibattiti di anni fa, viene da sorridere ricordando la convinzione (il timore e/o l’augurio) che l’identità europea potesse sciogliere definitivamente in sé quanto restava delle identità nazionali. Si parlava del «post-nazionale» come di un fenomeno ovvio, inarrestabile. Negli atteggiamenti e nelle aspettative degli italiani, tutte le indagini demoscopiche registravano i massimi valori di adesione all’europeismo postnazionale. Ma tali valori si esprimevano in formule assolutamente generiche e innocue. Era un europeismo per niente impegnativo e costoso, che collimava perfettamente con il debole sentimento di identità nazionale. Rimaneva l’esercizio culturale della possibile coesistenza di più identità collettive non conflittuali, scalari (dalla regione all’Europa). Si trattava, in verità, di operazioni culturali per nulla influenti a livello politico, paghe di polemizzare contro veri o presunti residui nazionalisti e contro le insorgenze antieuropeiste dei localismi. In effetti a livello europeo alcune regioni, soprattutto quelle più sviluppate e strutturate (come i Länder tedeschi) hanno usato e usano il modello federalista europeo («l’Europa delle regioni») in un gioco di sponda antinazionale (contro le proprie capitali), con il risultato tuttavia di spingere altre regioni (più deboli) a rivalutare lo Stato nazionale centrale come fattore di riequilibrio e di equità tra le regioni stesse.

Date le sue anomalie d’origine, il separatismo nostrano della Lega ha tentato inizialmente di usare la carta europea contro lo Stato nazionale ma poi, soprattutto con l’adozione della moneta unica, il leghismo si comporta in modo assolutamente opportunistico – ora contro Bruxelles ora contro Roma – usando la retorica dei «popoli europei» presentati per definizione come oppressi dalle capitali, qualunque esse siano.

Con la seconda metà degli anni Novanta il tema dell’identità nazionale versus identità europea si confronta con la problematica assai più stringente del rafforzamento delle istituzioni politiche e delle loro competenze decisionali. Il dibattito si arricchisce dei motivi del «deficit di democrazia», delle relazioni tra le istituzioni dell’Unione, dei processi di costituzionalizzazione, delle fonti della legittimità politica, della questione del «demos europeo». In questo contesto, gli Stati nazionali non appaiono più semplicisticamente come stadi da superare o relitti del passato (secondo la prima facile lettura federalista) ma luoghi storici dove l’esperienza dei diritti fondamentali e i processi di legittimazione delle cittadinanze hanno trovato espressioni e garanzie nazionali che valgono, e dietro alle quali non si può tornare. Il contrasto tra istituzioni comunitarie europee e istituzioni nazionali non è riducibile al contrasto tra avanzate istanze comuni e interessi egoistici regressivi. Certo: non è sbagliato leggere le difficoltà crescenti dell’Unione europea dopo Nizza, e soprattutto dopo la mancata approvazione della bozza del Trattato costituzionale a Bruxelles, come una paralisi dell’Europa politica. O, se si vuole, una rivincita degli Stati nazionali, come si è letto in moltissimi commenti. In effetti di colpo tutti i discorsi sulla comune identità politica e sulla solidale costruzione europea si rivelano fatui davanti ai comportamenti squisitamente nazionali, nella forma più elementare: si parla di Spagna e Polonia contro Francia e Germania.

Tutto questo è vero, ma occorre fare un’osservazione critica. È stato un troppo benevolo europeismo che ha creato aspettative eccessive, quasi che l’Unione europea potesse di punto in bianco cessare di essere, nella sostanza, una associazione di Stati nazionali. Agli Stati spetta, in ultima istanza, la decisione di che cosa mettere insieme e in che modo. Accelerazioni o anche proposte moderate, come quelle contenute nel Trattato costituzionale, per superare questa situazione verso una direzione più federale hanno trovato ferma opposizione. Ma di questo si scandalizza chi si è lasciato sedurre dalla retorica europeista. La ricomparsa della politica nella sua schietta forma nazionale dovrebbe far riflettere. I moralisti che alzano la voce contro «gli egoismi nazionali», dimenticano che l’Europa è nata originariamente dalla convergenza degli interessi nazionali concreti, economici e di difesa militare di un nucleo di Stati dell’Europa occidentale. È nata attaccata al cordone ombelicale del Patto atlantico. Le sue origini non sono frutto di un puro idealismo come oggi qualcuno racconta, cercando di creare un vago senso di colpa. L’Europa ha funzionato perché ha conciliato gli interessi materiali nazionali di tutti i suoi membri. È stato un atto di realismo politico.

È possibile oggi riattivare una dinamica analoga a quella delle origini, puntando sugli Stati protagonisti storici? È possibile ricominciare dai sei, facendoli agire come uno, seguendo lo schema di stretta cooperazione che Francia e Germania stanno realizzando in questi ultimi anni?

Non facciamoci distrarre dalle formule verbali «nucleo duro», «Stati pionieri», «Europa a due velocità» ecc. Ciò che conta, nella sostanza, è l’insostituibilità del ruolo-guida di Germania e Francia che è stato determinante alle origini (insieme con l’Italia). Da qualche tempo questo ruolo sembra oggi essere sacrificato all’autoaffermazione difensiva dei due Stati con effetto paralizzante per le regole comuni.

Può darsi che, mesi fa, Francia e Germania avessero buone ragioni per entrare in conflitto frontale con la Commissione sui criteri di tolleranza dei parametri di Maastricht. Ma lo hanno fatto in modo pessimo. Hanno così perso la chance di convincere gli altri partner che dietro ai loro interessi nazionali contingenti vi è un problema di interesse comune. Hanno perso quel prestigio che sarebbe stato necessario per sostenere la Carta costituzionale contro le nazioni protestatarie. O quantomeno per togliere la sgradevole sensazione che a Bruxelles ci sia stato semplicemente un braccio di ferro tra interessi nazionali equivalenti (a Parigi come a Varsavia, a Berlino come a Madrid).

Alle origini della costruzione europea l’Italia c’era, ed era in posizione di rilievo. L’attuale governo italiano di centrodestra e la sua cultura politica sono all’altezza della nuova difficile situazione? In realtà oggi – al di là delle generiche dichiarazioni ufficiali – non si vede a Roma alcuna linea precisa di condotta in rispondenza a una altrettanto precisa idea politica dell’Europa. D’altra parte sarebbe esagerato rimproverare al governo di voler ricercare una qualche (velleitaria) «via» o «interesse nazionale» da contrapporre al comune interesse europeo. Il governo italiano di fronte al riproporsi della questione europea sta assumendo un atteggiamento passivo e attendista. Non mostra nessun zelo per uscire dalla impasse attuale, ma intende piuttosto approfittarne soprattutto per riposizionarsi di fronte all’alleato americano. Per fare «una bella figura» ai suoi occhi. Ma anche così non si vede una chiara strategia. A tutt’oggi i costi dell’intervento in Iraq appaiono maggiori dei vantaggi. Non è chiaro sino a quanto reggeranno le giustificazioni ideali (dovere solidale della lotta al terrorismo, ricostruzione civile dell’Iraq) se non ci saranno concreti riscontri politici, se non economici.

Siamo così riportati al patriottismo umanitario da cui siamo partiti. L’espressione può suonare suggestiva, alludendo a una sintesi tra tricolore e valori universali. Ma non basta combinare buone intenzioni umanitarie con professionismo militare (secondo il modello del nostro carabiniere) per giustificare interventi in aree di crisi, dove l’espressione normale del conflitto è il terrorismo, nelle forme di massacro di massa che stiamo registrando. Il tempo del dilettantismo nelle missioni internazionali umanitarie è finito. I buoni sentimenti patriottico-umanitari non reggeranno ad altre prove. Anche nelle operazioni di sostegno della pace accanto alla professionalità degli uomini e delle donne impegnate sono necessarie solide motivazioni politiche. Occorre un forte, esplicito, sostegno delle organizzazioni internazionali a livello politico, di intelligence, di cooperazione operativa.

Le forze politiche italiane, al governo e all’opposizione, sono in grado di fornire i presupposti politico-culturali capaci di sostenere questa linea di impegno internazionale, attraverso cui si esprime anche un robusto senso di identità nazionale?