Le sfide di una sperimentazione

Written by Giuseppe Bertagna Saturday, 01 November 2003 02:00 Print

La sperimentazione scaturita dall’accordo quadro tra MIUR, ministero del lavoro e delle politiche sociali, regioni e province autonome di Trento e Bolzano per la realizzazione, dall’anno scolastico 2003-2004, di un’offerta formativa sperimentale di istruzione e formazione professionale nelle more dell’emanazione dei decreti legislativi di cui alla legge 28 marzo 2003, n. 53 e dai successivi protocolli d’intesa a esso collegati può risultare allo stesso tempo una fortuna e una disgrazia. Una fortuna se permetterà di provare e di disegnare il nuovo sistema di istruzione e di formazione del paese.

 

La sperimentazione scaturita dall’accordo quadro tra MIUR, ministero del lavoro e delle politiche sociali, regioni e province autonome di Trento e Bolzano per la realizzazione, dall’anno scolastico 2003-2004, di un’offerta formativa sperimentale di istruzione e formazione professionale nelle more dell’emanazione dei decreti legislativi di cui alla legge 28 marzo 2003, n. 53 e dai successivi protocolli d’intesa a esso collegati può risultare allo stesso tempo una fortuna e una disgrazia. Una fortuna se permetterà di provare e di disegnare il nuovo sistema di istruzione e di formazione del paese. Una disgrazia se, per la legge dell’inerzia che governa non solo i fenomeni fisici, ma anche quelli umani e sociali, sarà semplicemente un pretesto, o un’occasione, per riaccreditare impostazioni vecchie di cui non pare si possa essere orgogliosi e che sarebbe bene superare.

Per capire l’ampiezza della posta in gioco e, insieme, la perentorietà del giudizio appena manifestato dividerò la trattazione in due parti. Nella prima cercherò di tracciare uno schizzo degli scenari di contesto generale nei quali la sperimentazione si colloca. Questi scenari dovrebbero costituire anche precisi vincoli per attribuire un significato prospettico alla sperimentazione. Nella seconda cercherò di identificare le immediate sfide operative e progettuali che la sperimentazione è chiamata a vincere se intende essere paradigma di innovazione piuttosto che di conservazione.

 

Gli scenari di contesto

Capitale umano, capitale sociale e capitale economico

Il nostro paese è da quasi trenta anni in declino economico. Si parla e si scrive ormai, senza più reticenze autoconsolatorie, di «scomparsa dell’Italia industriale ».1 «Qualsiasi indice utilizziamo di competitività, di innovazione, creatività e talento ci mostra che l’Italia sta perdendo progressivamente posizioni».2

Le cause di questa situazione problematica e, soprattutto, della circostanza che «non sembra esserci la forza morale necessaria per cambiare e costruire un paese consapevole dei suoi limiti, ma deciso a superarli»3 sono, pare ovvio, molte e complesse: storiche, sociologiche, ideologiche, antropologiche, economiche, politiche, psicologiche, perfino giudiziarie.

Come insegna, tuttavia, una lunga schiera di disparati autori che hanno attraversato la storia del pensiero occidentale, da Aristotele a Tommaso d’Aquino, da Adamo Smith a Simone Weil, dai nostri illuministi napoletani, toscani e lombardi del Settecento ai popolari cattolici del Novecento, il declino economico di un paese si radica sempre, fondamentalmente, in un declino della qualità dei comportamenti etici, sociali e civili della società,4 e quest’ultimo, a sua volta, in un ulteriore caduta: quella della qualità educativa, morale e culturale di ciascuno. Nel linguaggio dell’economia: nessun «capitale economico» può esistere senza il «capitale sociale»5 e nessun «capitale sociale» può immaginarsi senza «capitale umano».

 

Centralità della persona umana

Per una società che intende mantenere un forte sviluppo economico e una positiva integrazione sociale, dunque, la «crescita e la valorizzazione della persona umana» (art. 1, legge n. 53/03) sembra un imperativo che ha motivazioni non solo teologiche (se si fa riferimento alla tradizione cristiana); non solo filosofiche (da Boezio a Kant, Rosmini, Ricoeur); non solo giuridiche (nel senso reso manifesto dal Novecento con la cosiddetta scoperta dei «diritti umani», dalla Dichiarazione internazionale dei diritti dell’uomo dell’ONU alla recente Costituzione europea), ma, seppure non si dovessero condividere quelle appena citate, almeno più banalmente e universalmente pragmatiche. Solo un «capitale umano» molto qualificato, armonicamente educato, capace di integrare in modo organico tutte le dimensioni della persona umana e di trasformarle in «cultura» di sé, in altri termini, sarebbe la condizione senza dubbio storica e logica, se non si vuole riconoscere anche ontologica, per un vero e duraturo sviluppo sociale, etico, civile ed economico.

Diventa, perciò, indispensabile ribadire il carattere «personalisticamente educativo» sia dell’istruzione scolastica, sia della formazione professionale. Non a caso l’articolo 1 della legge 30/2000 inaugurò l’espressione di «sistema educativo di istruzione e di formazione», ripresa poi di peso dalla legge n. 53/2003, con la differenza che, mentre la prima legge perdeva di vista il «sistema della formazione» nei successivi articoli che la componevano, la seconda lo elabora, mettendolo al centro delle proprie preoccupazioni riformatrici.

Riferirsi al carattere educativo dell’istruzione scolastica significa ricordare che la padronanza del sapere disciplinare, obiettivo che ha sempre contraddistinto la scuola, è positiva non in sé, ma se alimenta e perfeziona le capacità di ciascuno di ragionare, giudicare, esprimersi, gustare il bello, operare, agire bene con gli altri, nella società, scoprire e attribuire significati alla propria vita e al mondo. In altri termini, se diventa il modo con cui ciascuno «coltiva» se stesso. La cultura, infatti, o diventa «personale», nel senso che si «personalizza», oppure, se resta oggettiva, non svolge alcuna funzione educativa di sé.

Allo stesso modo, riferirsi al carattere educativo della formazione professionale significa ricordare che la padronanza delle abilità richieste dall’esercizio di qualsiasi mestiere non è un valore in sé, ma è tale se e solo se alimenta e perfeziona le capacità di ciascuno di ragionare, giudicare, esprimersi, operare, agire bene con gli altri, nella società, scoprire e attribuire significati alla propria vita e al mondo. In altri termini, se il lavoro diventa un mezzo dell’educazione di ciascuno, non il fine a cui mirare. Se il lavoro fosse, infatti, considerato fine dei corsi di qualifica professionali e tutte le attività formative si riducessero a centrarsi sulle competenze professionali come un oggetto da apprendere per la sua utilità significherebbe piegare la persona umana alle esigenze del lavoro, non procedere al contrario, cioè trasformarlo in un’occasione per valorizzare ed esaltare tutte le dimensioni della persona, da quella intellettuale a quella estetica, sociale, morale e perfino religiosa.

 

Rilancio del valore istruttivo e formativo del “lavoro” e della “professione”

Nella nostra recente tradizione, i sostantivi «lavoro» e «professione» e l’aggettivo «professionale» non godono, in tema di educazione delle persone tramite l’istruzione e la formazione, di buona fama. Tutto ciò che vi ha a che fare, è infatti guardato con sospetto e diffidenza. Prestigio sociale, dignità umana, qualità educativa e spessore culturale sembrano, anzi, essere inversamente proporzionali alla loro presenza. Il lavoro, la professione sarebbero parti della persona umana che non la fanno crescere e non la valorizzano, ma la alienano e la estraniano.6

In questo senso, non sarebbero, né potrebbero essere, «cultura educativa». Non è un caso, infatti, che si parli comunemente di cultura generale disinteressata come se fosse cosa diversa, se non addirittura contrapposta, rispetto alla cultura professionale interessata. Come se, a maggior ragione nella «società della tecnica», potesse esistere la prima senza la seconda e viceversa. Di più. Esisterebbero lavori e professioni «intellettuali » e addirittura «non intellettuali». Lavori, quindi, per i quali c’è la necessità di una cultura professionale più o meno robusta, acquisita con un percorso più o meno lungo, e lavori per i quali è sufficiente un addestramento meccanico breve, quasi a stimolo risposta. Si sono poi distinti i luoghi della cultura, dai luoghi del lavoro e, in questi, tra i luoghi in cui si incontrano i lavori che contengono intelligenza e cultura e i luoghi in cui si incontrano e si svolgono i lavori che richiedono solo «la mano» di chi li esegue, non il suo cuore e tantomeno la sua mente.

L’idea che ogni lavoro, in modo positivo o negativo, perché lo afferma o perché lo nega, contiene sempre l’intera complessità della persona e della cultura umana, per cui, trattato in maniera adeguata e criticamente riflessa, è e deve essere considerato il giacimento privilegiato per impadronirsene, e l’idea speculare per cui ogni lavoro – in modo positivo o negativo, esercitato in maniera adeguata e criticamente riflessa – coinvolge sempre tutta la persona umana e la cultura, e non soltanto qualche suo dominio particolare, più che affermate sembrano di fatto negate.

Naturale, in questo contesto, che si immagini di poter concepire la teoria senza la pratica e viceversa; che si pensi all’educazione intellettuale come a un processo altro dall’educazione manuale, affettiva, sociale; che si consideri il lavoro solo o per lo più una questione di rapporti economici piuttosto che di rapporti etico sociali e,7 quindi, educativi; sul piano istituzionale, che traduce poi un’analoga gerarchizzazione sociale e culturale, che si ritenga l’istruzione liceale classica migliore e più degna dell’istruzione tecnica, questa dell’istruzione professionale, questa della formazione professionale, questa dell’apprendistato e questo, a sua volta, del lavoro tout court. Ebbene, se non si supereranno nelle pratiche educative e didattiche questi consolidati pregiudizi è difficile che ci si possa appellare al valore della centralità della persona umana, esaltare l’unità complessa e ologrammatica, di ogni intervento educativo e, soprattutto, accendere la dinamica che integra in maniera virtuosa il capitale umano, sociale ed economico. Se facendo anche sul piano istituzionale e ordinamentale esattamente l’inverso da quanto disposto con la nostra politica dell’istruzione e della formazione nell’ultimo secolo,8 non si prenderà l’occasione della riforma costituzionale del 2001 e della legge delega n. 53/2003 per restituire, nei processi di insegnamento, dignità educativa e culturale al lavoro e alle azioni umane che lo autorizzano, è probabile che non solo continui inarrestabile il nostro declino industriale, ma anche che aumenti ulteriormente, come ha purtroppo dimostrato la vicenda della legge n. 9/99, il numero dei giovani, già strepitoso e patologico, che manifestano problemi a imparare e a maturare nella scuola (34 giovani su 100, dopo ben 11,5 anni di presenza media nelle aule scolastiche, a causa delle ripetenze, giungono a 18 anni senza aver ottenuto nemmeno una qualifica professionale di primo livello; il 55% dei quindicenni iscritti agli istituti secondari, con punte del 68% per quelli iscritti ai soli istituti professionali, o è respinto o è promosso con i cosiddetti «debiti formativi»).

 

Da un sistema quadripartito a un sistema bipartito

La legge costituzionale 18 ottobre 2003 n. 3, come è noto, identifica due sistemi educativi: uno “di istruzione”, a legislazione concorrente tra Stato e regioni, salvo che per le norme generali e i principi che restano alla legislazione esclusiva dello Stato; e uno di istruzione e formazione professionale a legislazione esclusiva regionale, salvo che per i LEP (livelli essenziali di prestazione) che competono allo Stato. La riforma Moratti ha preso atto di queste disposizioni e non ne ha dissimulato, per le nostre abitudini, il carattere dirompente.

Non ci si riferisce infatti più a «istruzione liceale e magistrale», «istruzione tecnica», «istruzione professionale» e, tantomeno, alla «formazione professionale», come ci aveva abituato a fare il fascismo tra il 1927 e il 1939 e come i successivi cinquanta anni di Repubblica, non solo hanno confermato, ma anche amplificato. Si azzera questa quadripartizione concettuale, linguistica e ordinamentale, perfino burocratica (si ricordino le vecchie direzioni generali del ministero!) e la si riduce, invece, alla bipartizione di cui parla il combinato disposto della Costituzione riformata e della legge Moratti: «sistema dell’istruzione» e «sistema dell’istruzione e formazione professionale».

Il sistema dell’istruzione dai 3 ai 19 anni, dalla scuola dell’infanzia fino ai licei, poi seguito dall’istruzione superiore (università). Il sistema dell’istruzione e formazione professionale collocato in parallelo ai licei, dai 14 ai 18 anni, e nella formazione professionale superiore, parallela all’università, dai 18 ai 21 anni. Ambedue i sistemi, almeno per 12 anni a partire dalla prima classe della scuola primaria, ugualmente educativi e di pari dignità culturale, garantita, quest’ultima, per il primo sistema, dalle «norme generali» e dai «principi» stabiliti dallo Stato e, per il secondo, dai LEP sempre stabiliti dallo Stato e dai relativi standard minimi formativi (SMF) che ne definiscono la misura e il livello, stabiliti dallo Stato d’intesa con le regioni.9

Licei e istituti dell’istruzione e formazione professionale, infine, sono sottoposti alle valutazioni (a) di sistema e (b) degli apprendimenti, condotte dal Servizio nazionale di valutazione, sebbene,10 per l’istruzione e formazione professionale, con tutte le prevedibili concertazioni con le regioni che hanno anche in questo campo responsabilità giuridica esclusiva. Il quadro, come si intuisce subito, è talmente inconsueto per le nostre tradizioni che, leggerlo con le categorie del passato, significa anche fraintenderlo. Per esempio, che senso può avere, nel nuovo contesto, riproporre come se nulla fosse, almeno nel periodo dei 12 anni di dirittodovere di istruzione e formazione per tutti, l’esistenza della tradizionale formazione professionale regionale, quella che ha come fine l’apprendimento esecutivo di un lavoro piuttosto che la «crescita e la valorizzazione della persona umana» attraverso il lavoro? Forse si pensa davvero possa esistere oggi una formazione professionale non solo secondo gli articoli 33 e 34 della Costituzione, ma anche secondo gli articoli 35 e 38, che possa fare a meno di presentarsi anche come «istruzione» e, quindi, assumere a pieno titolo la corretta definizione costituzionale di «istruzione e formazione professionale»?

Analogamente, che senso può avere, nel nuovo contesto, parlare di «istruzione tecnica», magari da «nobilitare» nei suoi corsi aristocratici, facendola transitare tra gli indirizzi del liceo tecnologico? È forse rispettoso immaginare nell’istruzione tecnica attuale corsi nobili, di «cultura tecnico-professionale alta» da promuovere nella serie A dei licei e corsi plebei, tecnico-addestrativi, da lasciare nella serie B nell’istruzione e formazione professionale regionale? Sarebbe questa l’innovazione? Ed è forse possibile oggi immaginare un’istruzione tecnica che non sia al tempo stesso anche formazione professionale e viceversa?

Infine, anche continuare a scrivere di passaggio scontato alle regioni dell’istruzione professionale statale così come essa è non è un significativo contributo all’adombramento del quadro innovativo ricavabile dal combinato disposto del Titolo V e della riforma Moratti? Perché occorre per forza di cose presupporre che nel sistema costituzionale dell’istruzione e formazione professionale regionale si mantengano semplicemente gli istituti tecnici, gli istituti professionali e i centri di formazione professionale che esistono? Perché non si riesce a pensare altro, con altri contenuti e con altra architettura?

Non si tratta di negare i problemi delle fasi transitorie, anche lunghissime. Si tratta soltanto di comprendere che, se grosso modo da ottanta anni, abbiamo licei, istituti tecnici e istituti professionali statali e, da qualche decennio in meno, abbiamo anche (pochi) centri di formazione professionale regionali adesso siamo tutti chiamati a impegnarci a ripensare tutto questo e a ristrutturarlo creativamente, da un lato, dentro un unitario «sistema dell’istruzione» liceale e, dall’altro lato, dentro un non meno unitario «sistema dell’istruzione e della formazione professionale» graduale e continuo dai 14 ai 21 anni, frutto della rifusione organica, adatta ai tempi di una società complessa, tecnologicamente avanzata e piena in ogni dove di conoscenza, dell’attuale istruzione tecnica e professionale statale e dell’attuale formazione professionale regionale. L’uno e l’altro sistema, inoltre, tra loro complementari e interconnessi, non nel senso che si integrino negando le reciproche peculiarità, ma in quello che, avendo pari dignità educativa e culturale, riescono, con appositi interventi (crediti formativi, Larsa) a rendere permeabili i reciproci percorsi formativi.

 

I contenuti delle sfide

La sperimentazione tra il ministero e le regioni di un’offerta formativa sperimentale di istruzione e formazione professionale triennale non è certo inutile, farà sicuramente bene a molti ragazzi, ma non sarà innovativa e prospettica se si limiterà a proseguire le linee di politica scolastica e formativa degli ultimi dieci anni. Ovvero se si limiterà a riproporre l’idea che esiste la «formazione professionale» dell’obbligo formativo di cui all’art. 1, comma 1 della legge 144/99, quella culturalmente ed educativamente meno dignitosa di un parallelo percorso «scolastico», a cui si possa perfino concedere di accogliere i quattordicenni a condizione, però, che accetti di definire percorsi integrati con la scuola (di solito, con i primi anni dell’istruzione tecnica e l’istruzione professionale). Sarebbe un modo per confermare la minorità formativa e culturale di questi percorsi, riscattati soltanto se oggetto di un’investitura scolastica.

La sperimentazione, al contrario, potrà risultare innovativa e lungimirante se vincerà la scommessa di costituire il laboratorio per progettare soluzioni pedagogiche, istituzionali, organizzative e didattiche che, concretizzando in situazione i vincoli posti dallo scenario che si è tracciato, disegnino non solo l’architettura, ma anche, almeno in parte, l’arredamento del nuovo sistema educativo dell’istruzione e formazione professionale introdotto dal combinato disposto della legge costituzionale n. 3 e dalla riforma Moratti. Una scommessa forte e, speriamo, per il bene del paese e dei giovani, anche non velleitaria.

 

La sfida pedagogica

Dare corpo pedagogico ai discorsi sul rapporto tra capitale umano, sociale ed economico, sulla centralità della persona umana, sulla rivalutazione del lavoro nei processi di istruzione e di formazione e sulla costruzione di due sistemi educativi interconnessi e complementari di istruzione liceale e di istruzione e formazione professionale che siano di pari dignità obbligatoriamente per i 12 anni di dirittodovere – ma, si spera, anche e soprattutto dopo, ovvero sia nell’istruzione e nella formazione superiore, sia nel sistema dell’educazione permanente e ricorrente – significa offrire, e giustificare, ai ragazzi, alle famiglie e alla società un messaggio finora inedito.

La sperimentazione non deve vergognarsi di apparire ancora, come i corsi regionali che l’hanno preceduta, una specie di Croce Rossa formativa. I feriti della scuola, e del suo modo di concepire l’apprendimento, esistono, come abbiamo visto. Spesso molto gravi. Restituire la fiducia nelle proprie capacità a ragazzi che si siano persuasi di non averle, e che si sottostimano ritenendosi inadatti a qualsiasi apprendimento e tirocinio culturale solo perché hanno stili di apprendimento diversi da quelli coltivati col paradigma scolastico, è non solo segno di alta professionalità pedagogica, ma un dovere morale e politico da rivendicare con orgoglio. È indispensabile, quindi, che si continui ad assicurare percorsi formativi flessibili, personalizzati che possono contingentemente prescindere da più ambiziose sistematicità.

La sperimentazione, tuttavia, per la prima volta, può anche ambire a presentarsi come un’opportunità per i «migliori studenti della scuola», o meglio anche per chi, a 14 anni, conclusa la terza media, è chiamato a interrogarsi su un proprio progetto di vita positivo, non residuale, nel campo dell’istruzione e formazione professionale. Nessuna predeterminazione. La possibilità di revisioni o addirittura di radicali cambiamenti del proprio orientamento sono «garantiti ed assicurati», impone l’art. 1 comma 1, punto i della legge n. 53/2003. Una sperimentazione, dunque, che non dedichi, collegandosi in rete con le altre istituzioni scolastiche e formative e razionalizzando tutte le risorse umane disponibili in un territorio, la dovuta attenzione alla progettazione e all’attivazione di Larsa personalizzati (laboratori per l’approfondimento, il recupero e lo sviluppo degli apprendimenti) appare davvero inefficace.

Tuttavia, per la prima volta nel nostro paese, esiste la possibilità di offrire ai ragazzi interessati a un percorso di istruzione e formazione professionale regionale, che concludono la scuola secondaria di primo grado a 14 anni, tre garanzie.

La prima: la sperimentazione realizza non soltanto un profilo professionale vecchia maniera, ma è chiamata a declinare per la specifica comunità professionale a cui si indirizza, quella meccanica piuttosto che edile, il profilo educativo, culturale e professionale generale delineato per tutti i giovani che concludono i 12 anni di diritto-dovere di istruzione e di formazione. Ciò significa che nei tre anni di corso previsti dai protocolli di intesa i centri dell’istruzione e formazione professionale regionali che vogliono essere davvero sperimentali e che sono nelle condizioni di farlo possono predisporre un solido percorso formativo che, sul piano della qualità educativa e culturale, è addirittura stato pensato per chi conclude gli studi obbligatori a 18 anni.

La seconda: proprio per questo nessuno può considerare questo percorso di serie B; la pari dignità con il parallelo percorso non solo dell’istruzione tecnica e professionale statale, ma anche dell’istruzione liceale può essere reale. Cambiano i modi, i mezzi, le circostanze; si valorizza molto più che a scuola l’incontro con l’operatività e con il lavoro, ma i risultati in termini di maturazione intellettuale, morale, espressiva, sociale della persona di ciascuno sono se non superiori, almeno di pari livello qualitativo.

La terza è una conseguenza delle precedenti: si tratta di un percorso aperto nel senso che a 17 anni chi, frequenterà a regime, ma anche adesso, con successo questi corsi sperimentali non solo avrà formalmente assolto i 12 anni di diritto-dovere con un anno di anticipo, visto che ottiene una qualifica professionale riconosciuta a livello nazionale ed europeo, ma è posto nelle condizioni di decidere: a) se stipulare immediatamente contratti di apprendistato o di formazione lavoro sulla base di una qualifica riconosciuta; b) se continuare il percorso di istruzione e di formazione professionale iniziato mirando ad ottenere un diploma professionale secondario e poi superiore; c) se frequentare un Larsa per accedere al quarto anno di corsi di istruzione liceale, tecnica e professionale di durata quinquennale; d) se aspettare, quando la riforma sarà a regime, il diploma professionale per frequentare il corso annuale integrativo per sostenere gli esami di stato dei licei.

 

La sfida istituzionale

In base al combinato disposto della legge 18 ottobre 2001, n. 3 (con relativa costituzionalizzazione dell’autonomia  delle istituzioni scolastiche) e dalla legge n. 53/2003, le regioni hanno competenza legislativa esclusiva sull’istruzione e formazione professionale. La circostanza, rispetto al presente, significa soprattutto tre cose.

 

Ritorno al radicamento territoriale

La prima è storica e si esprime nel recupero di una tradizione prefascista, purtroppo da allora prima trascurata e poi addirittura rimossa. A partire dalla sua nascita infatti l’istruzione tecnico-professionale fu, usando il linguaggio attuale, frutto della collaborazione sistematica tra istituzioni pubbliche centrali (Stato, con le sue scuole), amministrazioni comunali (enti territoriali), professionisti e ordini professionali, industria e sindacato (mondo del lavoro).

A favore di un’istruzione tecnico-professionale strettamente connessa alla sfera degli interessi produttivi delle imprese, all’azione degli enti territoriali e ai bisogni delle comunità professionali, del resto, nella seconda metà degli anni Venti, si pronunciarono in più occasioni autorevoli rappresentanti della Confindustria e delle Confederazioni sindacali. Fino all’estate del 1928, la maggior parte dell’istruzione tecnico-professionale dei giovani non fece nemmeno parte delle materie di competenza del ministero della pubblica istruzione e, quindi, dei progetti di riordinamento del sistema scolastico statale. Il passaggio dell’istruzione professionale alla Minerva si perfezionò il 15 giugno 1931 con la legge n. 889 e si realizzò completamente negli anni successivi. Per esempio, la gloriosa Scuola per capimastri costruttori edili di tradizione lombarda, avviata nel 1806, trasformata dal comune di Milano, insieme agli imprenditori edili del capoluogo, in Scuola dei capimastri nel 1872, passerà nel 1939 alle dipendenze del ministero, dopo aver assunto nel 1934 il nome del capitano Carlo Bazzi, medaglia d’oro della grande guerra.

L’intero settore assunse l’assetto istituzionale che avrebbe conservato a lungo, fino alla fine del secolo scorso, e risultarono vincenti alcune linee di sviluppo delle politiche scolastiche e formative successive, che paradossalmente permangono costanti dal regime fascista alla legge 30/2000 (licealizzazione dell’istruzione e formazione professionale, espulsione del territorio e delle parti sociali dalla gestione dei percorsi formativi professionali, mancato riconoscimento dell’intrinseco carattere umanistico anche alla cultura tecnica e professionale).

La restituzione costituzionale dell’istruzione e formazione professionale alle regioni è una prospettiva che va ben oltre, dunque, l’aspetto meramente giuridico contingente. Essa indica anche il programma di recuperare il meglio di una tradizione inopinatamente dimenticata. Si tratta, quindi, di pensare un sistema educativo dell’istruzione e formazione professionale che nasca, si sviluppi e si gestisca appoggiandosi su una sistematica interazione instaurata dalle leggi regionali tra tre soggetti istituzionali (gli enti territoriali; le imprese/sindacati/associazioni professionali; le istituzioni di istruzione e di formazione) e lo Stato. Questo, attraverso i LEP e gli SMF, si pone in posizione di garante nei confronti dei cittadini e delle famiglie sia per il valore nazionale dei titoli di studio rilasciati da tale  sistema sia per la funzione di equità sociale a esso affidata.

Una sperimentazione che fosse impostata con la solita autoreferenzialità dello scolasticismo statalista, questa volta diventato regionalista, e non cercasse al contrario di costruire un prototipo della quadrangolazione istituzionale prima ricordata, sarebbe più di danno che di vantaggio: in fondo, finirebbe per accreditare come insuperabile ciò che si è sempre fatto negli ultimi ottanta anni semplicemente cambiando «padrone»: dallo Stato alle regioni.

 

L’architettura di sistema

Il secondo compito che consegue all’aver costituzionalmente affidato alle regioni la legislazione esclusiva del sistema dell’istruzione e della formazione professionale riguarda la definizione degli ordinamenti di tale sistema. Una importantissima sfida istituzionale a cui è chiamata la sperimentazione è dunque proprio questa: servire alle regioni per immaginare gli ordinamenti del nuovo sistema dell’istruzione e formazione professionale.

Come è facilmente intuibile infatti, non è la stessa cosa ipotizzare un sistema graduale e continuo di istruzione e formazione professionale secondario e superiore che preveda, in linea continua o modularmente aggiuntivi, corsi di tre, quattro, cinque, sei e sette anni, oppure limitarsi a concepire questo sistema soltanto a livello secondario e, soprattutto, con corsi che non superino i tre e i quattro anni.

Una scelta piuttosto dell’altra ha riflessi pesanti sull’ordinamento del sistema dei licei. Nel caso, infatti, che qualche regione opti autonomamente (avendone tutti i diritti) per un sistema dell’istruzione e della formazione professionale che sia poco più che la fotocopia dell’attuale formazione professionale, arricchita soltanto di qualche corso dell’attuale istruzione professionale statale triennale (ad esempio la legge dell’Emilia Romagna), si rivela indispensabile la funzione sostitutiva dello Stato, per esempio immaginando licei artistici, economici e tecnologici ricchi di indirizzi, che si assumano il compito di svolgere una supplenza al mancato potenziamento dell’istruzione e formazione professionale regionale.

Se tuttavia qualche regione (come pare, ad esempio, intenzione della Lombarda) legifererà nel senso di disegnare un sistema dell’istruzione e formazione professionale secondaria e superiore forte, davvero paritario al sistema dell’istruzione prima liceale e poi universitaria, le implicazioni cambiano. Il sistema dei licei statali non è più chiamato a supplire le carenze dell’altro sistema. Gli indirizzi dei licei non servono. Una scelta di questo genere anzi apparirebbe, oltre che uno spreco diseconomico di risorse della nostra unica e unitaria Repubblica, quasi un sabotaggio dell’iniziativa e della responsabilità regionale. Un contro-esempio del principio di sussidiarietà e della buona creanza istituzionale. Contro ogni attesa della Costituzione, e del buon senso, si aprirebbero infatti gli spazi per una Repubblica dove le sue componenti (comuni, province, città metropolitane, regioni, Stato) indulgono più a una reciproca concorrenza oppositiva e distruttiva che a un concorde, sinergico sforzo cooperativo dei soggetti che la compongono, per il bene comune dei cittadini.  

 

Le Indicazioni regionali per i Piani di studio personalizzati

Le regioni, oltre agli ordinamenti di struttura, devono dettare per legge, per il loro sistema dell’istruzione e formazione professionale, nel linguaggio che è affiorato in quest’ultimo anno di discussione sull’applicazione della legge n. 53, anche le Indicazioni regionali per i Piani di studio personalizzati. Affinché, tuttavia, i corsi dell’istruzione e formazione professionale regionali abbiano validità ai fini dei 12 anni di diritto-dovere di istruzione e di formazione di tutti i cittadini italiani e ai fini della spendibilità nazionale ed europea delle qualifiche rilasciate, devono rispettare i livelli essenziali di prestazione (LEP), a loro volta specificati dagli standard minimi formativi (SMF) che ne definiscono la misura e il livello, adempimenti ambedue stabiliti dallo Stato, anche se il secondo d’intesa con le regioni.11 In questo contesto, tuttavia, le istituzioni scolastiche (e sarebbe paradossale che non lo fossero anche i centri dell’istruzione e formazione professionale regionale) hanno riconosciuta per legge costituzionale l’autonomia didattica, organizzativa, finanziaria e di ricerca e sviluppo; questa autonomia, che significa anche valorizzazione della professionalità dei docenti, è promossa dalle norme applicative (DPR. n. 275/99 e, in particolare, i decreti legislativi della legge n. 53/2003), ricordando e confermando che la determinazione degli obiettivi formativi adatti ai singoli allievi, dei relativi standard di prestazione, delle attività e dei metodi con cui trasformarli in competenze personali di ciascuno e, ultimo ma non da meno, della certificazione delle competenze acquisite da ciascun allievo in rapporto agli standard attesi, è responsabilità esclusiva delle istituzioni scolastiche e dei docenti, e non dello Stato o delle regioni o di eventuali accordi verticistici tra Stato e regioni. In compenso, le scuole e i centri sono coinvolti nel processo di valutazione nazionale/regionale sia di sistema sia degli apprendimenti (questi ultimi, però, non nel senso di decidere la valutazione relativa ai singoli soggetti che resta prerogativa esclusiva dei docenti).

Se si assume come legittima questa lettura del quadro normativo, diventa un’altra decisiva sfida istituzionale trasformare la sperimentazione che si è avviata in un laboratorio che realizzi e provi in situazione i problemi di questa nuova distribuzione delle competenze tra i soggetti istituzionali.

Nel caso specifico, ciò vuol dire abbandonare il vecchio schema centralistico, adattivo, domandista e prestazionisitico di gestione dei sistemi di istruzione e di formazione ancora attualmente dominante, secondo il quale è il centro, sia esso lo Stato o le regioni, ad avere il compito di definire a priori non solo le competenze richieste agli alunni per tutte le qualifiche professionali esistenti, ma addirittura gli standard di accettabilità di tali competenze che ogni giovane è tenuto a raggiungere. In questo schema, cioè, tipico dell’ossessione tecnocratica fordista e comportamentista, si chiede alla persona singola di adattarsi alle competenze e agli standard di prestazione a esse relativi, stabiliti astrattamente, a priori, dal centro, e non di riconoscere all’autonomia delle istituzioni scolastiche e dei centri dell’istruzione e formazione professionale la responsabilità di definire le competenze e gli standard che servono allo scopo di far crescere le singole persone e il sistema nel suo complesso.

In altri termini, si sottrarrebbe alle scuole e ai centri la libertà e la responsabilità professionale; a) di ricavare dalle Indicazioni regionali per i Piani di studio personalizzati, rispettose dei LEP e dei relativi SMF, gli obiettivi formativi adatti alle capacità dei singoli allievi di ogni gruppo classe; b) di stabilire, sentendo e coinvolgendo gli altri due soggetti istituzionali che gestiscono i percorsi formativi del sistema dell’istruzione e formazione professionale (gli enti territoriali e le imprese/sindacati/associazioni) gli standard di prestazione o di accettabilità di tali obiettivi, da trasformare poi attraverso apposite unità di apprendimento, in competenze degli allievi; c) di certificare le competenze acquisite da ciascun allievo in rapporto agli standard stabiliti; d) e, soprattutto, di rispondere delle scelte compiute (accountability) davanti al servizio nazionale e regionale di valutazione, ai ragazzi, alle famiglie e alla società civile e professionale, alle parti sociali.

Attuando senza reticenze paternalistiche il principio costituzionale di sussidiarietà (art. 118 della Costituzione), l’art. 8 del DPR 275/99 e la legge Moratti, invece, si può impiegare la sperimentazione come occasione per provare a chiedere a ogni soggetto istituzionale (lo Stato, le regioni e gli enti territoriali, le parti sociali, le istituzioni scolastiche/centri dell’istruzione e formazione professionale con i loro docenti, i giovani/le famiglie) di fare né di più né di meno di quanto sono tenuti a fare, si spera ciascuno con professionalità, responsabilità e creatività.

Allo Stato, di definire i LEP riferiti al Profilo educativo, culturale e professionale stipulato per tutti i giovani italiani sottoposti ai 12 anni di diritto-dovere di istruzione e di formazione, spesi nel sistema dell’istruzione e formazione professionale regionale; e di identificare poi, d’intesa con le regioni, gli SMF, ovvero la misura e il livello dei LEP.

Alle regioni di definire, da maggiorenni, senza proliferanti tutele concertative verticistiche, sulla base del Profilo, dei LEP e SMF, le Indicazioni regionali per i Piani di studio personalizzati dei vari corsi del sistema dell’istruzione e formazione professionale e di mettere a punto il servizio di valutazione sia di tale sistema sia degli apprendimenti degli allievi, in stretta connessione con il servizio nazionale di valutazione. Anche in questo caso, però, come capita per il sistema di istruzione, senza pretendere che le valutazioni degli apprendimenti decidano la promozione o la bocciatura dei singoli allievi che resta affidata ai soli docenti.

Alle istituzioni scolastiche e ai docenti di costruire i Piani di studio personalizzati (compresi gli standard di prestazione degli obiettivi formativi, riferiti agli obiettivi specifici di apprendimento da trasformare in competenze personali degli allievi) e di rendicontare il proprio impegno, sia sottoponendo le proprie certificazioni delle competenze personali alla validazione sociale (sarebbe paradossale, per esempio, certificare competenze relative a una qualifica elettrica, escludendo l’opinione degli elettricisti che operano in territorio), sia partecipando alle prove e alle indagini predisposte dal servizio nazionale di valutazione che avrà anche una partecipazione regionale.

Ai giovani, alle famiglie, alle imprese, alle parti sociali e alla società civile si chiede infine non solo di conoscere con la massima trasparenza il Profilo educativo, culturale e professionale (con relativi LEP e SMF) e le Indicazioni regionali per i piani di studio personalizzati, ma soprattutto di diventare coprotagonisti della costruzione di un progetto educativo che faccia sintesi di tutti i vincoli prima ricordati; in altri termini, di cooperare alla costruzione dei Piani di studio personalizzati e del portfolio delle competenze personali dell’allievo.

Naturalmente, se qualcuno di questi diversi soggetti non dovesse essere in grado o non volesse assumersi le libertà e le responsabilità che per legge e per buon senso pedagogico gli competono, interverrebbe il principio sostitutivo, con lo Stato in posizione di garante dell’equità nazionale.

Del resto, se le norme escludono per il sistema dell’istruzione che lo Stato stabilisca gli standard delle competenze degli alunni, proprio perché le competenze e i relativi standard di accettabilità sono una fondamentale e strategica operazione professionale affidata alle scuole e ai docenti per tutelare l’unicità e il carattere finale di ogni persona (le ricavano dagli obiettivi generali del processo formativo e dagli obiettivi specifici di apprendimento), perché ciò che lo Stato esclude per le scuole alle quali detta le norme generali dovrebbe invece imporlo per i centri dell’istruzione e formazione professionale sui quali può dettare solo i LEP e gli SMF? Solo perché non si fida delle regioni e dei centri dell’istruzione e formazione professionale?

 

La sfida organizzativa e didattica

Sarà perché il sistema di istruzione secondario è mastodontico, mentre il sistema dei centri della formazione professionale su cui si innesta la sperimentazione dei nuovi corsi triennali del sistema di istruzione e formazione professionale è lillipuziano e, in quanto tale, più agile e flessibile. O perché il modello della nostra scuola secondaria si fonda, sul piano organizzativo, o sul paradigma militare (Napoleone, la Prussia) o su quello burocratico o sul paradigma scompositivo della fabbrica fordista, mentre quello dei centri della formazione professionale, anche per la sua giovinezza, è più aperto al modello narrativo e fenomenologico dell’organizzazione che apprende. Sarà perché il primo è più consolidato, mentre il secondo è più incline all’improntitudine. Sarà per molte altre ragioni, è comunque un dato di fatto che, tipologicamente, nella scuola si ragiona per classi, mentre nella formazione professionale si preferisce pensare per teste di allievi o al massimo per gruppi di allievi. Nella scuola la gestione del personale è rigida, appesantita da graduatorie e da norme burocratiche e amministrative spesso disfunzionali al compito, mentre nella formazione professionale si ha una situazione più fluida che consente una maggiore aderenza al compito. Nella scuola si va avanti per orari giornalieri e settimanali degli allievi che si ripetono uguali per 33 settimane all’anno, nella formazione professionale esistono, invece, molti più spazi di flessibilità e di adattamento. Nella scuola i docenti sono organizzati per linee: rigidamente divisi per ore e discipline, fanno altrettanto con la mente degli allievi, nella formazione professionale, invece, si privilegia l’organizzazione per staff, dove i confini delle competenze, al pari degli orari, non sono mai netti e definiti una volta per tutte, perché ciascuno è chiamato a lavorare sui confini delle discipline o dei settori culturali, investendo molto più della scuola sulla collaborazione interdisciplinare e sulla cooperazione educativa. Nella scuola si privilegia l’auditorium, nella formazione professionale è molto più spontaneo il laboratorium. Nella scuola, prevale l’apprendimento promosso attraverso l’insegnamento formale; nella formazione professionale, conta molto anche l’apprendimento promosso attraverso l’esempio (l’applicazione di una regola) e, soprattutto, la testimonianza (dimostrare davanti ad un problema nuovo, non catalogabile in regole e schemi già costituiti, la competenza di risolverlo in maniera pertinente). Nella scuola prevale l’impostazione cognitiva e la preoccupazione epistemica, nella formazione professionale esse sono accompagnate anche da quelle manuale ed etico-affettivo-relazionale: il modello è, per un verso, il chirurgo, «l’uomo delle tre h» degli americani: head, heart, hand – mente, cuore, mano – e, per l’altro, il praticantato (così come chirurgo era, nei secoli passati, prima servente, poi sottobarbiere, barbiere, chirurgo minore o di veste corta, chirurgo maggiore o di veste lunga, finalmente protochirurgo, allo stesso modo, dai parrucchieri agli elettricisti, nessuna professione si può anche oggi costituire senza il passaggio da stadi di dipendenza accompagnata dall’esperto a stadi di indipendenza prima controllata e poi completa). Nella scuola è più facile trovare praticata una concezione della valutazione sommativa; nella formazione professionale sembra prevalere quella diagnostica, formativa e autoresponsabilizzante. Nella scuola prevale l’attenzione all’insegnamento: contano i contenuti da trasmettere, la loro coerente e sistematica distribuzione epistemologicamente corretta, i problemi e i compiti sono quelli interni alla disciplina di insegnamento; nella formazione professionale, si impongono maggiormente invece, le ragioni dell’apprendimento: i problemi, i compiti, i progetti partono dalla persona dell’allievo e la coinvolgono sempre in tutte le sue dimensioni, non è la disciplina che si impone sull’allievo, ma è dall’esperienza che lo coinvolge che scaturiscono gli ordinamenti disciplinari. Nella scuola, domina la programmazione didattica a priori; nella formazione professionale, si procede preferibilmente per scenari e per approssimazioni allo scopo di valorizzare l’adattamento just in time e l’assestamento fenomenologico in itinere. Per questa ragione, mentre nella scuola le unità didattiche sono di solito preparate anche nella loro articolazione precisa prima dell’esperienza di apprendimento degli allievi, nella formazione professionale le unità di apprendimento nascono certamente da un disegno preventivo, ma si completano e si arricchiscono nel corso stesso delle esperienze di apprendimento degli allievi. Le unità didattiche si scrivono prima, le unità di apprendimento si tracciano soltanto prima, si riempiono dei loro dettagli durante e si ordinano, si documentano e si commentano solo dopo che l’apprendimento è avvenuto davvero; questo perché nelle prime conta di più ciò che si vuole insegnare, nelle seconde, ciò che si è imparato, perché e come.

Questa è la tradizione della migliore formazione professionale salesiana e piamartina e delle esperienze regionali maggiormente riuscite. Quella che da tempo è al servizio della persona.

Sappiamo bene che esiste anche una formazine professionale regionale al servizio del lavoro, che non è assimilabile a questa tipologia idealtipica. Ritenendo che debba essere la persona ad adattarsi al lavoro da apprendere, piuttosto dell’inverso, essa, come è noto, sostanzializza il lavoro, lo scompone in unità semplici caratterizzate da precise performance (le unità formative capitalizzabili), predispone deduttivamente attività per stimolare gli allievi a impadronirsene, ne verifica la padronanza e, grazie a questo preteso pitagorismo, può coltivare l’illusione dell’universale e interscambiabile algebra delle unità formative capitalizzate: quattro UFC di un percorso formativo per un lavoro, più sei di un altro, meno due di un terzo ecc. comporrebbero modularmente tutte le competenze possibili e necessarie. Non è il caso di discutere scientificamente l’affidabilità di questa impostazione tayloristica, dove la pedagogia qualitativa si riduce a una fisica dei solidi, quantitativa.

Qui, basta osservare che essa non è quella a cui si è fatto riferimento e che si è assunta a paradigma esemplare. Se si ammette, però, che quella descritta trova udienza in moltissime esperienze, bisogna allora sperare che la sperimentazione dei corsi triennali di istruzione e formazione professionale regionali vinca, questa volta in generale, la sfida di non cedere alla tentazione di indugiare ai modelli scolasticistici. La speranza di trasformare la riforma del Titolo V e la riforma Moratti in un’occasione per cominciare ad andare oltre i modelli di insegnamento che hanno caratterizzato la scuola negli ultimi due secoli troverebbe, infatti, più di qualche motivo per venire disillusa.

 

 

 

Bibliografia

1 L. Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Einaudi, Torino 2003.

2 R. Viale, Il dovere di riflettere sul declino, in “La Stampa”, 10 ottobre 2003, p. 1.

3 Ibid.

4 A. Sen, Lo sviluppo è libertà, Mondadori, Milano 1999; R.D. Putnam, Bowling Alone. The Collapse and Revival of American Community, Simon & Schuster, New York; Putnam., La tradizione civica nelle regioni italiane. Mondadori, Milano 1993; R. Inglehart, Valori e cultura politica nella società industriale avanzata, Liviana, Vicenza 1993; F. Fukuyama, Fiducia, Rizzoli, Milano 1996.

5 J.S. Coleman, Foundations of Social Theory, Harvard Univ. Press, Cambridge Mass 1990; per una rassegna, cfr. L. Sciolla, Quale capitale sociale? Partecipazione associative, fiducia e spirito civico, in “Rassegna italiana di sociologia”, n. 2/2003, p. 261 e sgg.

6 G. Bertagna, Dal paradigma servile al paradigma signorile. Per un recupero del valore dell’istruzione e formazione professionale, in Aa.Vv., Istruzione, formazione, lavoro. Una filiera da (ri)costruire, F. Angeli, Milano 2003, pp. 39-58; Bertagna, L’alternanza tra scuola lavoro. Sfide pedagogiche e culturali, in G. Bertagna (a cura di), L’alternanza scuola lavoro dopo la riforma Moratti, F. Angeli, Milano 2003.

7 Questo, purtroppo, è anche il dettato della Costituzione del 1948 che colloca “la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori” (art. 35, co. 2) nella Parte I, Titolo III riguardante i Rapporti economici, non nel Titolo II riguardante i Rapporti etico-sociali, dove, invece, colloca, giustamente, l’istruzione e la cultura.

8 In Istruzione e formazione dopo la modifica del Titolo V della Costituzione, in “Nuova secondaria”, 15 maggio 2003, n. 9, a. XX, pp. 102-112; Id., Indirizzi del Liceo, abitudini del passato e riforma Moratti, ivi, 15 giugno 2003, n. 10, a. XX, pp. 14-21 ho cercato di documentare come la politica scolastica e formativa del nostro paese dal 1927 al 2001 sia stata tutta volta a licealizzare l’istruzione tecnica e l’istruzione professionale piuttosto che a potenziare queste ultime, e insieme con esse, la formazione professionale, nelle loro specificità.

9 Cfr. articolo 7, comma 1, punto c della legge 53/03.

10 Cfr. articolo 1, comma 3, punto b.

11 Cfr. articolo 7, comma 1, punto c della legge 53/03.