I nuovi laboratori di idee per una soluzione permanente

Written by Simonetta Della Seta Monday, 01 September 2003 02:00 Print

«Gerusalemme, porto di mare in riva all’eternità», ha scritto il poeta Yehuda Amichai. Un porto che ha conosciuto molte guerre e dove la ricerca della pace pare sempre accompagnata, e perfino sopraffatta, da continue esplosioni di violenza. Qui neppure i politici più audaci, o quelli spinti da maggiore desiderio di pace, sono riusciti a mettere d’accordo un pugno di uomini. E molte trattative si sono arenate proprio sul destino di una città nata per essere, paradossalmente, luogo di pace. A tutt’oggi Gerusalemme è un agglomerato di case costruite in pietra chiara su un crinale sassoso, in cui vive poco più di mezzo milione di persone (la popolazione attuale è di 635.000 abitanti, di cui 424.000 ebrei, 200.000 musulmani e circa 11.000 cristiani).

 

«Gerusalemme, porto di mare in riva all’eternità», ha scritto il poeta Yehuda Amichai. Un porto che ha conosciuto molte guerre e dove la ricerca della pace pare sempre accompagnata, e perfino sopraffatta, da continue esplosioni di violenza. Qui neppure i politici più audaci, o quelli spinti da maggiore desiderio di pace, sono riusciti a mettere d’accordo un pugno di uomini. E molte trattative si sono arenate proprio sul destino di una città nata per essere, paradossalmente, luogo di pace. A tutt’oggi Gerusalemme è un agglomerato di case costruite in pietra chiara su un crinale sassoso, in cui vive poco più di mezzo milione di persone (la popolazione attuale è di 635.000 abitanti, di cui 424.000 ebrei, 200.000 musulmani e circa 11.000 cristiani). Nelle sue pieghe, troppe cicatrici e ragioni della storia. È universalmente accettato che Gerusalemme sia una città unica al mondo. Se non altro per tre aspetti: è città santa a tre religioni (ebraismo, Islam e cristianesimo), è oggetto di conflitto nazionale tra due popoli (quello ebraico e quello palestinese), infine raccoglie una popolazione fortemente eterogenea, per etnia, fede, origini, identità. La valenza di Gerusalemme per le tre religioni monoteistiche e l’importanza dei suoi diversi santuari hanno segnato capitoli complessi di storia che hanno visto forti dispute alternarsi a momenti di convivenza. Una storia che si è articolata per tremila anni sotto domini ebraici, romani, cristiani, islamici e occidentali.1 Ogni nuovo conquistatore ha eretto i suoi monumenti, distruggendo a volte quelli degli altri; ha cacciato i concorrenti o ha permesso loro di convivere. La città però è rimasta fisicamente divisa una volta sola: dal 1949 al 1967.

La questione di Gerusalemme è certamente la più complessa e lacerante del conflitto israelo-palestinese-arabo. Sulla proposta di divisione della città, oltre che sul tema dei rifugiati, si arenò il tentativo di mediazione del Presidente Clinton a Camp David nel luglio del 2000.

 

Le ultime evoluzioni storiche e giuridiche della città

I luoghi santi alle tre religioni sono stati molto spesso nella storia della città motivo di disputa politica. Nel XIX secolo, ad esempio, alcuni paesi europei estesero la propria protezione a Chiese santuari cristiani. Alcune di queste potenze (Francia, Regno di Sardegna, Gran Bretagna, Austria, Prussia, Spagna e Stati Uniti) stabilirono ad hoc dei loro consolati a Gerusalemme. Al fine di regolare lo status del luoghi santi, il governo ottomano ha pubblicato un certo numero di firmani. Il più importante fu emesso nel 1852 e determinò i poteri e i diritti delle varie Chiese sui propri luoghi santi. Un assetto che passò alla storia con il nome di status quo e che tuttora è in vigore per la gestione dei santuari cristiani. Lo status quo fu internazionalmente riconosciuto dopo la guerra di Crimea con il trattato di Parigi del 1856 e riconfermato al congresso di Berlino del 1878.

Né la Dichiarazione Balfour del 1917, con la quale la Gran Bretagna promise il sostegno ad «un focolare ebraico» in Palestina, e neppure i termini del mandato britannico (confermati il 23 luglio 1922) fecero riferimento esplicito a Gerusalemme. Il mandato si definì solo «responsabile» per i luoghi santi affidandoli all’Alto commissario e raccomandando che la Società delle Nazioni nominasse al più presto una commissione ad hoc, cosa che non avvenne. Dopo la seconda guerra mondiale, nel 1947, la Gran Bretagna chiese esplicitamente all’assemblea generale dell’ONU di occuparsi quanto prima della Palestina. Dopo aver creato una commissione speciale – la United Nations Special Committee on Palestine (UNSCOP) – che studiasse la questione, l’assemblea generale dell’ONU, seguendo le raccomandazioni dell’UNSCOP, adottò il 29 novembre del 1947 la famosa risoluzione n. 181 sul futuro governo della Palestina. Con la spartizione tra ebrei e arabi del territorio fino ad allora amministrato dagli inglesi, Gerusalemme fu dichiarata corpus separatum. Un’entità a parte che, rimanendo la culla dei maggiori luoghi santi per le tre religioni monoteiste, avrebbe dovuto essere amministrata internazionalmente. La risoluzione prevedeva anche che la città fosse demilitarizzata e resa neutrale e che, allo scopo di mantenere l’ordine nei suoi santuari, venisse impiegata una forza di polizia reclutata all’estero. I residenti della città sarebbero stati quindi chiamati a votare un consiglio legislativo locale, al quale il governatore ONU avrebbe potuto porre però dei veti. Da un punto di vista economico Gerusalemme sarebbe dovuta rimanere collegata sia allo Stato ebraico che agli Stati arabi confinanti. I suoi abitanti avrebbero dovuto godere di tutti i diritti umani e civili stabiliti dall’ONU. La città sarebbe stata bilingue: vi si sarebbero parlati ebraico ed arabo. L’«entità speciale» Gerusalemme avrebbe infine dovuto abbracciare Betlemme a sud, Abu Dis a est, Ein Kerem (il villaggio di San Giovanni Battista) a ovest e Shuafat a nord. La risoluzione fu accettata dall’yishuv, la comunità ebraica della Palestina, ma non accontentò i paesi arabi, i quali, rifiutando in blocco l’idea di spartire la Palestina con uno Stato ebraico, la respinsero. Quando il 14 maggio del 1948 terminò come previsto il mandato britannico e i rappresentanti della comunità ebraica proclamarono la nascita dello Stato di Israele sulle aree loro assegnate, gli eserciti di cinque Stati arabi lo attaccarono. La dichiarazione di indipendenza di Israele non menziona neppure Gerusalemme, anche se afferma che «lo Stato ebraico salvaguarderà i luoghi santi di tutte le religioni». La battaglia per Gerusalemme fu comunque molto dura e terminò con la resa del quartiere ebraico dentro le mura della città vecchia alla legione giordana. L’armistizio del 1949 segnò, per la prima volta nella storia, una linea di confine che divise in due Gerusalemme: la città vecchia (raccolta nella cinta delle mura) e i quartieri orientali fuori delle mura furono annessi al regno giordano sotto il re Abdallah; il Monte Sion (dove per gli ebrei sorge la tomba di re Davide, per i cristiani la sala del Cenacolo) e le aree occidentali della città moderna furono affidate allo Stato di Israele. L’unico passaggio rimase, per diplomatici e religiosi cristiani, la cosiddetta Porta di Mandelbaum, sui cui lati erano appostati i cecchini. Gli ebrei, espulsi dalla città vecchia dove vivevano da secoli, dovettero accontentarsi di salire sul tetto della tomba di Davide, sul Monte Sion, per cercare di catturare con l’occhio almeno un piccolo scorcio del Muro del Pianto. Un accordo speciale tra Giordania e Israele riguardò il Monte Scopus – dove sorgono l’università ebraica e l’ospedale Hadassah – il quale rimase una enclave israeliana, alla quale l’ONU garantiva di essere raggiunta da convogli umanitari. Lo Stato ebraico estese la sua legge alle aree di Gerusalemme in suo possesso e il 5 dicembre del 1949 il primo ministro di Israele David Ben Gurion annunciò alla Knesset (il parlamento israeliano) che la città era «parte inseparabile dello Stato e sua capitale eterna». Una posizione approvata pochi giorni dopo dalla Knesset. Fu sempre allora che molti palestinesi, cacciati dai loro quartieri dell’area occidentale, cominciarono una lunga vita da profughi assieme ai fratelli evacuati o fuggiti da molti altri villaggi rimasti sotto Israele. Nell’aprile del 1950 una conferenza di dignitari dalle aree conquistate dalla Giordania si riunì a Gerico e di fronte a loro il re Abdallah proclamò l’annessione al suo regno della Cisgiordania e di Gerusalemme. Risoluzione riconosciuta solo dal Pakistan e dalla Gran Bretagna, anche se quest’ultima si dichiarò contraria a considerare Gerusalemme parte del regno hascemita; neppure la Lega Araba approvò la duplice annessione. Dal 1948 al 1952 l’ONU tenne un certo numero di dibattiti sul futuro di Gerusalemme; dopo, fino al 1967, non ebbe luogo però alcuna discussione rilevante.

Un secondo trauma per gli arabi della città sopraggiunse quando nel giugno del 1967, durante la «guerra dei sei giorni», le truppe israeliane occuparono la parte giordana e unificarono la città sotto lo Stato ebraico, proclamandola, con una legge della Knesset «capitale eterna del popolo ebraico». Per gli israeliani si era realizzato un sogno; per i palestinesi si trattava di uno shock che li avrebbe paralizzati per venti anni, fino allo scoppio dell’intifada nel 1987, e poi di quella, ancora più violenta e difficile, scoppiata nel 2000.

Subito dopo la guerra del 1967, Israele estese la sua legislazione ai quartieri arabi della città, non imponendo tuttavia la cittadinanza agli abitanti. La diplomazia israeliana cercava di dimostrare alla preoccupata comunità internazionale che non si trattava di vera e propria «annessione» ma di una forma di «integrazione municipale». Intanto il primo ministro Levi Eshkol aveva radunato i leader spirituali della città assicurandoli che «nessun danno sarebbe stato causato ai luoghi santi di qualsiasi religione». Quando i soldati israeliani avevano raggiunto nel giugno del 1967 la spianata delle Moschee, il generale Moshé Dayan aveva subito ordinato di riconsegnarla nelle mani del Waqf, l’istituzione religiosa islamica, che da allora continua ad amministrare in modo indipendente il Haram (la spianata delle moschee). Così come i rappresentanti delle Chiese proteggono i santuari cristiani. La Knesset varò nel 1967 una legge sulla Preservazione dei luoghiSanti.

Gli ebrei non hanno cercato mai di ricostruire il Tempio, anche se pochi fanatici continuano a minacciarlo. Gli israeliani si recano a pregare di fronte alle grandi pietre del Kotel, che in ebraico significa semplicemente il Muro, sapendo bene che la spianata è santa all’Islam da quattordici secoli. Il fatto tuttavia che il Muro del Pianto si trovi a ridosso del Haram ha creato nei secoli non pochi guai. Gli ultimi cento anni di storia della città sono seminati di incidenti tra fedeli ebrei e fedeli musulmani a causa di questo angolo sacro: ogni scavo, ogni minima variazione dello status quo, risveglia i sospetti reciproci e fa saltare i nervi agli uni o agli altri. Disordini gravissimi erano scoppiati nel 1929, quando i nazionalisti arabi, guidati dal gran muftì Haj Amin Al Husseini, avevano protestato per un paravento introdotto dagli ebrei presso il Muro allo scopo di separare donne e uomini durante le preghiere. L’inizio di una dura rivolta palestinese che avrebbe causato centinaia di morti.

Il 22 novembre 1967 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite adottò la risoluzione n. 242, ancora oggi alla base di tutte le trattative di pace. Tale risoluzione richiedeva a Israele di ritirare il proprio esercito dai (o da) territori occupati, «secondo confini da stabilire», ma non faceva alcun riferimento particolare a Gerusalemme. Nessuna menzione del futuro della città fu quindi inclusa nell’accordo di pace tra Israele ed Egitto firmato a Camp David nel febbraio del 1979 a causa proprio della profonda diversità di vedute. Sadat e Begin si scambiarono però due lettere: il primo affermava che «Gerusalemme araba è parte integrante della Cisgiordania e deve rimanere sotto sovranità araba», il secondo che «Gerusalemme è una città unita e indivisibile, capitale dello Stato di Israele». Anche quando, sulla scia dell’accordo di Camp David, tra il 1979 e il 1982 si tennero alcune trattative tra Israele ed Egitto su una possibile autonomia dei palestinesi della West Bank e di Gaza, le vedute sul futuro di Gerusalemme risultarono inconciliabili: gli israeliani si rifiutarono infatti di ritenere le aree arabe della città parte dell’autonomia. Nel 1980 la Knesset varò una legge fondamentale che confermava «Gerusalemme capitale di Israele e sede di tutti i suoi uffici governativi». La comunità internazionale decise allora di non riconoscere questa decisione (risoluzione ONU n. 465 del 1980) e i paesi che avevano le proprie ambasciate nella Città santa (quindici in tutto) le spostarono a Tel Aviv, ad eccezione di Costa Rica ed El Salvador. I palestinesi e gli arabi temettero sempre di più un’annessione ufficiale di quelle zone alla città ebraica. Mentre il governo israeliano continuava a spiegare alla comunità internazionale che si trattava solo di «integrazione amministrativa», ma di fatto alcune sentenze specifiche emesse dalla Corte suprema dimostravano che i quartieri arabi della città erano trattati come parte dello Stato di Israele.

Nel 1982 il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan tentò di rilanciare un piano per Gerusalemme, ma lo fece poco prima dello scoppio della guerra del Libano e l’iniziativa non ebbe seguito. Anche se gli Stati Arabi, riuniti a Fez, in Marocco, il 6 settembre del 1982, chiesero all’unisono «il ritiro di Israele da tutti i territori occupati nel 1967, inclusa Gerusalemme araba». La dichiarazione di Fez si appellava anche alla costituzione di uno Stato palestinese con Gerusalemme capitale. Nell’agosto del 1988, dopo otto mesi di intifada, re Hussein di Giordania dichiarò che il suo regno non avrebbe più amministrato la Cisgiordania. Il novembre successivo l’OLP, riunita ad Algeri, avrebbe dichiarato la costituzione di uno Stato palestinese con capitale Gerusalemme. Durante l’intifada la Gerusalemme palestinese acquistò un ruolo attivo, sia nella guida delle decisioni politiche che nella «rivolta dei sassi» contro gli israeliani. Un scontro gravissimo ebbe luogo nell’ottobre del 1990 quando fedeli musulmani usciti dalle moschee presero a lanciare pietre sui fedeli ebrei che pregavano presso il Muro del Pianto: la polizia israeliana fece irruzione nella spianata e nei tumulti furono uccisi 18 palestinesi. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU fece appello alla Convenzione di Ginevra per la protezione dei civili in tempo di guerra. Conclusasi la prima crisi del Golfo, il 31 ottobre 1991 fu convocata a Madrid la Conferenza di pace per il Medio Oriente che aprì negoziati tra Israele e i Paesi arabi confinanti ma anche tra Israele e palestinesi. L’invito alla conferenza non riportava alcun riferimento al problema di Gerusalemme, ma israeliani e palestinesi si trovarono subito in disaccordo: secondo Israele le delegazioni negoziali non avrebbero dovuto includere residenti della città; per i palestinesi invece era un punto d’onore. Gli Stati Uniti assicurarono in quell’occasione che non avrebbero riconosciuto un’annessione israeliana dei quartieri arabi.

Durante l’anno 1993 si aprì come è noto un canale negoziale parallelo e segreto a Oslo che portò Israele e l’OLP, il 13 settembre dello stesso anno, a firmare una Dichiarazione di principi in cui si riconoscevano reciprocamente e si impegnavano a continuare le trattative per una soluzione prima transitoria e poi definitiva del conflitto. Con la storica stretta di mano tra Arafat e Rabin sul prato della Casa Bianca erano stati imbastiti i cosiddetti Accordi di Oslo. Due i principi che riguardavano Gerusalemme: i residenti della città est avrebbero potuto partecipare alle trattative; tuttavia il destino della città, pur considerato un punto fondamentale della trattativa, sarebbe stato discusso solo nella fase delle trattative definitive.

Il 30 settembre del 1993 fu firmato un altro Accordo fondamentale, quello tra Stato di Israele e Santa Sede, circa lo status dei cattolici che vivono in Israele: pur non affrontando espressamente la questione politica di Gerusalemme, alcune delle decisioni in esso incluse riguardano la vita di una parte dei suoi cittadini e residenti (l’anno successivo sarebbe stato firmato anche un accordo tra Santa Sede e OLP). Sul destino di Gerusalemme il Vaticano pone peraltro moltissima attenzione e continua ad auspicare, in vista di una soluzione politica tra le parti, «garanzie di uno statuto internazionale» per i luoghi santi.

La città è dunque parte troppo delicata del conflitto e di un suo assetto definitivo, cuore che continua a essere teatro di attentati e incidenti. Violenti scontri scoppiarono nel settembre del 1996, quando i palestinesi si ribellarono per l’apertura da parte del governo Netanyahu di un tunnel archeologico a ridosso della Spianata. I tumulti più recenti risalgono all’ottobre del 2000 e segnarono l’inizio del nuovo stato di guerra. Seguirono la visita sulla spianata di Ariel Sharon, allora capo del Likud e dell’opposizione, dal febbraio 2001 primo ministro di Israele. Con le proteste a quella passeggiata, percepita dai palestinesi come una «provocazione politica» cominciava la seconda intifada, che fu chiamata, non a caso, Intifada Al Aqsa.

 

La città oggi: i cambiamenti urbani, la battaglia per la supremazia demografica e culturale

Risulta chiaro a ogni visitatore che Gerusalemme raccoglie oggi, di fatto, due città: una israeliana (espansa a est e a ovest anche in quartieri «insediamento» sorti dopo il 1967) e una palestinese (discriminata in vari servizi pubblici e sociali); una ebraica (che prospera sotto uno Stato ebraico) e una araba (che soffre di essere culturalmente in minoranza).

Dal 1830 la maggioranza della sua popolazione è ebraica: inizialmente una maggioranza relativa che poi è andata via via crescendo e creando, al di là dei confini politici della città, una forte sproporzione demografica tra quartieri ebraici ed arabi. Con l’«unificazione» dopo il 1967 sotto gli israeliani, questo squilibrio assume un carattere fisico, politico e culturale. Fisico, dal momento che Israele – nel suo sforzo di farne la capitale del paese – ha ingrandito sia l’area municipale della città che quella urbana; politico, a causa della estensione della giurisdizione israeliana anche ai settori arabi della città; urbano, con la costruzione di enormi quartieri ebraici-fortezza (considerati dai palestinesi «insediamenti») tutto attorno alla città (soprattutto sulle aree occupate nel 1967) e recentemente anche di una contestatissima «barriera di separazione»: costruzioni tese ad allargare la città e allo stesso tempo a separarla in modo netto dal resto dei Territori palestinesi. In questo nuovo assetto, che continua peraltro a mutare sul terreno di giorno in giorno, gli ebrei di Gerusalemme vedono crescere la loro capitale, seppure non riconosciuta dalla comunità internazionale, mentre i palestinesi di Gerusalemme sentono la loro presenza sempre più minacciata da un punto di vista non solo politico ma demografico, culturale e identitario. In una situazione di conflitto territoriale così forte, aspirazioni, interessi, necessità e priorità diverse fanno accavallare alla guerra per la sovranità una battaglia quotidiana, quanto impari, tra le due fasce di popolazione per la supremazia identitaria sulla città. I palestinesi accusano ad esempio Israele di voler «giudaizzare» Gerusalemme, cancellandone i caratteri arabi. Gli israeliani ribadiscono il loro impegno a proteggere la libertà religiosa di tutte le religioni e ricordano come invece, sotto i giordani, furono gli arabi a distruggere ogni segno dell’identità ebraica della città (bruciando perfino sinagoghe e libri sacri). I palestinesi temono di essere definitivamente schiacciati anche demograficamente: difficilissimo per loro rinnovare una carta di identità che testimoni la residenza a Gerusalemme, quasi impossibile ottenerne una nuova. I residenti palestinesi della città si lamentano per le difficoltà di comunicazione con il resto dell’Autonomia palestinese. Chi abita a Gerusalemme è costretto a vivere in un imbuto: non può raggiungere né Ramallah a nord, né Betlemme a sud e a volte neppure la stessa spianata delle Moschee nel cuore della città. Gli israeliani ribattono: si tratta di misure di sicurezza per difenderci dagli attentati. Sicurezza contro autodeterminazione, lotta per la sovranità contro convivenza, battaglia per l’identità culturale contro uno sfrenato allargamento metropolitano. Sono questi gli ingredienti della vita attuale di Gerusalemme, segnata sempre più dagli attentati ma anche da posti di blocco, presenza di polizia, e una separazione fisica tra i quartieri degli uni e degli altri. Soprattutto dopo le due intifade, gli ebrei non frequentano i quartieri arabi e i palestinesi hanno sempre più timore a circolare in quelli ebraici. In un luogo dove tutti i cittadini di Gerusalemme chiedono di poter vivere in pace e aspirano alla protezione dei luoghi santi, la mancanza reale di una soluzione si respira nell’aria ed è dettata ormai dalla stessa topologia della città. La sua divisione non è segnata da un confine ma da barriere psicologiche di paura, di diffidenza, di odio.

 

Verso una soluzione: le posizioni della comunità internazionale, di Israele e dei palestinesi

La comunità internazionale ritiene la questione di Gerusalemme ancora aperta e irrisolta. Decine di risoluzioni dell’ONU hanno dal 1947 a oggi menzionato il problema della città. «Lo status di Gerusalemme – sottolinea un documento redatto dalle Nazioni Unite nel 1997 – è una delle questioni più sensibili e contese del conflitto arabo-israeliano con ramificazioni che vanno oltre le stesse parti coinvolte. A causa del loro significato emotivo e quasi esplosivo, i negoziati su Gerusalemme saranno affrontati all’interno di una trattativa per la soluzione definitiva del conflitto».2 Per l’ONU la questione di Gerusalemme va affrontata prendendo dunque in considerazione tutte le parti interessate e in fondo può ancora ispirarsi alla risoluzione n. 181 emanata nel 1947, «che nel tentativo di trovare una soluzione permanente, pur dividendo la Palestina in due Stati, uno arabo e uno ebraico, manteneva l’unità della città affidandola a un controllo internazionale». «Questa formula, tuttavia, non si è potuto applicarla e l’armistizio del 1949 ha formalizzato de facto la divisione della città». Come abbiamo già scritto i successivi sviluppi storici hanno quindi visto l’occupazione dei quartieri arabi della città da parte di Israele nel 1967 e l’annuncio dello Stato ebraico (1949, ribadito poi dalla legge del 1980) di farne la propria capitale unita. Dichiarazioni, come si è visto, mai riconosciute dall’ONU.

La posizione che raccoglie gli atteggiamenti della maggior parte della comunità internazionale, e quindi dell’ONU, è attualmente quella che si è formata dalla guerra del 1967 a oggi. Benché la risoluzione ONU del 1947 non prevedesse la divisione della città vecchia, dopo la risoluzione n. 242 delle Nazioni Unite, il confine della città che precede la guerra dei sei giorni resta per molti versi punto di riferimento per i negoziati. Nonostante le trasformazioni urbane e municipali alle quali la città è stata sottoposta dal 1967, internazionalmente non viene riconosciuto alcun trasferimento di giurisdizione e/o di sovranità israeliana alle aree che non erano sotto Israele prima del 4 giugno 1967. L’ONU non ha tuttavia avanzato proposte concrete, ma si limita a ribadire i principi affermati più volte: il carattere particolare di Gerusalemme, la necessità di preservare i diritti e i luoghi santi di tutte le religioni e la necessità di garantire i diritti nazionali civili e politici di tutte le comunità presenti nella città. Accanto alla posizione dell’ONU esiste infine quella espressa più volte dal Vaticano che auspica, in vista di qualsiasi soluzione politica tra le parti, «garanzie di statuto internazionale» per i luoghi santi.3

La posizione ufficiale israeliana è univoca, accettata da quasi tutto l’arco parlamentare e si basa sui seguenti punti: «la rivendicazione ebraica di Gerusalemme ha una storia di tremila anni e si rifà alla scelta della città come capitale ebraica da parte del re David; il legame degli ebrei con la città è unico ed è sancito da un profondo vincolo religioso per cui Gerusalemme, sede del Tempio, è rimasta un punto di riferimento nell’ebraismo, al punto che sempre nella storia la città ha mantenuta una presenza ebraica; sullo status di Gerusalemme israeliani, ed ebrei, hanno sempre trovato il consenso nazionale fra di loro; storicamente Gerusalemme è una città unita e non divisa (tagliata in due solo tra il 1948 e il 1967); Israele respinge l’idea del corpus separatum proposto dalla risoluzione ONU n. 181 dal momento che nessun trattato o accordo ha mai trovato applicabile tale soluzione; lo Stato ebraico ha considerato Gerusalemme sua capitale permanente dalla sua nascita nel 1948; la Knesset, il suo parlamento, vi risiede dal 1949; una legge la dichiara “capitale unita” nel 1967, pur preservandone i luoghi santi di tutte le religioni; una legge fondamentale la conferma “capitale unita e completa dello Stato di Israele” dal 1980; nel maggio 1995 l’allora primo ministro Itzhak Rabin affermò che la città è anche “cuore eterno del popolo ebraico”; Israele riconosce tuttavia che Gerusalemme è una città unica che ha un ruolo significativo per l’identità religiosa di milioni di fedeli delle tre fedi monoteistiche e che il mondo arabo vi individua uno dei luoghi più santi all’Islam e per questo motivo è pronto a intraprendere negoziati per una soluzione definitiva del conflitto che prendano in considerazione anche le questioni legate a Gerusalemme».4

Va tuttavia ricordato che durante i negoziati di Camp David, mediati dal presidente americano Bill Clinton nel luglio del 2000, l’allora primo ministro di Israele Ehud Barak mostrò una nuova intenzione di dividere la città, affidando i quartieri ebraici (anche della città vecchia) alla sovranità di Israele e quelli arabi a una sovranità – o forse solo a una forte forma di autonomia – palestinese, mentre per i luoghi santi si sarebbe dovuto studiare un’amministrazione di tipo religioso. La proposta di Barak, che a quanto pare puntava a dichiarare Gerusalemme capitale di due Stati (quello di Israele e quello di Palestina), non fu mai compilata ufficialmente su un documento scritto, ma emerse più tardi da una serie di articoli e interviste giornalistiche. Com’è noto il piano non ebbe seguito dal momento che le trattative si arenarono; in gran parte, sembra proprio sulla questione di Gerusalemme.5

La posizione palestinese ribadisce che «Gerusalemme è sempre stata storicamente parte della Palestina e il retaggio palestinese ha forti radici nella città».6 «Gerusalemme è legata alla storia, alla terra e al popolo di Palestina, ai loro credi musulmani e cristiani e ai loro luoghi santi. Sia per i palestinesi musulmani che per quelli cristiani Gerusalemme è di grande importanza non solo come città santa ma anche come centro politico, geografico, economico e culturale della Palestina. È la capitale del popolo palestinese per difendere la quale a migliaia hanno sacrificato la vita. È il simbolo dell’identità e della nazionalità palestinese e dei diritti inalienabili del nostro popolo». I palestinesi ricordano quindi di aver sempre respinto ogni dichiarazione e proposta che limitasse i loro diritti sulla città a favore invece di quelli degli ebrei, e considerano «illegale» il modo in cui gli israeliani dichiararono i quartieri ebraici di Gerusalemme loro capitale nel 1949. Per i palestinesi quindi tutte le aree invase da Israele con la guerra del 1967 (sia i quartieri orientali che la città vecchia) sono da considerarsi a tutt’oggi «territori occupati». «I palestinesi non hanno mai accettato la sovranità proclamata da Israele sull’intera città, ma anzi hanno resistito boicottando in tutti i modi la gestione municipale israeliana cercando come possibile di preservare il carattere arabo della città orientale». Viene ricordato oltretutto che subito dopo l’occupazione israeliana lo sceicco Abdel Hamid Al Sayeh emanò una fatwa che con chiara posizione respinse anche da un punto di vista islamico la possibilità di essere governati dagli ebrei/israeliani. Il Consiglio islamico palestinese creò allora un comitato di guida che raccoglieva i più autorevoli esponenti laici e religiosi, le istituzioni e i tribunali islamici, ma anche le maggiori organizzazioni mediche educative e commerciali, indipendenti dall’interferenza israeliana. Nel 1988 il Consiglio nazionale palestinese dell’OLP dichiarò ad Algeri l’indipendenza dello Stato palestinese e proclamò Gerusalemme sua capitale. A ogni riferimento fatto pubblicamente al proprio Stato (da parte di Arafat, ma non solo) viene ribadita da allora la stessa formula, che vede Al Quds (Gerusalemme, letteralmente «La Santa») rimessa al centro della rivendicazione nazionale e politica palestinese. L’Accordo fondamentale tra Santa Sede e OLP, firmato nel 1994, ribadisce tuttavia, all’ottavo paragrafo, l’appello «a uno statuto speciale per Gerusalemme, garantito internazionalmente che riguardi: la libertà religiosa e di coscienza per tutti, l’eguaglianza di fronte alla legge delle tre religioni monoteistiche, delle loro istituzioni e dei loro fedeli, un’appropriata identità e carattere sacro per la Città, per il suo significato universale e il suo retaggio religioso e culturale, libertà di accesso e di preghiera in tutti i luoghi santi, l’applicazione dello status quo vigente dove esso è applicato».7

 

Verso una soluzione: il principio della indivisibilità

Nonostante gli enormi divari tra la posizione israeliana e quella palestinese esiste un accordo diffuso tra israeliani e palestinesi, allargato a diversi interlocutori, dagli egiziani, al Vaticano, a Israele, almeno su un punto: Gerusalemme non deve essere nuovamente divisa fisicamente. Gli israeliani si appoggiano sul loro principio di «capitale unita del popolo ebraico», i palestinesi parlano di una città «non divisa ma con sovranità separata, o quantomeno condivisa». La domanda che si sono posti tutti coloro che lavorano oggi a una soluzione per Gerusalemme è se effettivamente la via della divisione integrale sia giusta e realmente perseguibile, o se essa non contenga in sé forti elementi di debolezza per la città stessa. L’ultima sfida, la più plausibile, appare oggi quella di non dividerla, ma piuttosto di condividerla. Per riuscirci, bisognerà conciliare: la battaglia dei palestinesi per annunciarvi la capitale di un loro Stato indipendente, la determinatezza degli israeliani di mantenerla unita e loro, la preoccupazione dei cristiani perché siano protetti i luoghi di Gesù. Nonché l’aspirazione di tutto il mondo islamico perché il Nobile Recinto con le due moschee resti accessibile a tutti i suoi fedeli, e quella dell’ebraismo perché i resti del Tempio, simbolizzati dal Muro del Pianto, rimangano raggiungibili per gli ebrei di tutto il mondo.

 

Verso una soluzione: il laboratorio di proposte

A ragionare su questo rebus sono in molti: israeliani, palestinesi, studiosi internazionali. Gerusalemme è anche laboratorio di proposte. Un importante compendio pubblicato dopo gli Accordi di Oslo da due studiosi israeliani8 riporta, a quella data, 117 documenti fondamentali che riguardano il destino di Gerusalemme. Un volume pubblicato nel 1996 dal PASSIA (Palestinian Academic Society for the Study of International Affairs) raccoglie 344 testi (Documents on Jerusalem, Gerusalemme, 1996): 8 sono attinenti alle posizioni musulmane, 18 a quelle cristiane, 3 a quelle ebraiche, 75 a quelle israeliane, 48 a quelle palestinesi, 43 a quelle dei Paesi arabi o di organizzazioni e stati islamici, 59 a quelle degli Stati Uniti, 16 ai Paesi europei e all’Unione Europea, 66 all’ONU, 8 a commissioni internazionali indipendenti. «Ogni possibilità di raggiungere una pace tra israeliani e palestinesi dipenderà dall’abilità delle due parti in conflitto nel formulare proposte e raggiungere accordi che permetteranno loro di risolvere la questione di Gerusalemme»,ribadisce Gershon Baskin, uno dei due direttori dell’IPCR (Israel/PalestineCenter for Research and Information), istituto che negli ultimi anni ha pubblicato diverse ricerche sul futuro di Gerusalemme.9 Il testo più recente pubblicato è quello dell’esperto israeliano Menachem Klein, particolarmente interessante dal momento che l’esperto israeliano fu consigliere di Shlomo Ben Ami, ministro degli esteri nel governo Barak e uno dei principali negoziatori nella trattativa che condusse a Camp David e che incluse, come già riportato, una proposta (seppure rimasta orale) su Gerusalemme.10 Klein ritiene tutt’oggi che sia necessario rompere il tabù e trattare il destino di Gerusalemme, mentre la maggior parte dei negoziatori è stata convinta dai tempi di Oslo che senza aver raggiunto un accordo su altre problematiche non si sarebbe arrivati a discutere Gerusalemme. «Difficile immaginare d’altronde che le parti possano affrontare una questione così complessa per negoziarla se non hanno ripristinato almeno la fiducia reciproca», spiega Cecilia Albin, studiosa inglese che lavora da anni sulla questione di Gerusalemme.11 «La disputa su Gerusalemme rimarrà insoluta finché le parti in conflitto rimarranno attaccate solo alla propria percezione della realtà e vincolate a posizioni incrollabili», le fa eco Meron Benvenisti, ex vicesindaco della città.12

Tutto però deve essere pronto, sulla carta: gli esperti sanno che la questione di Gerusalemme sarà forse l’ultima ad essere discussa, e probabilmente risolta, ma deve essere egualmente preparata per prima. Ne è convinto Sari Nuseibeh, presidente dell’Università Al Quds e noto intellettuale palestinese, il quale ha preparato assieme all’esperto israeliano Ami Ayalon un progetto dal titolo «Destination Map», con il quale si tenta già di disegnare i particolari della realtà alla quale potrebbe portare un processo di pace, e la stessa Road Map. «È necessario anche capire che cosa può aspettarci in concreto alla fine di questo percorso – spiega Nusseibeh, che ha raccolto attorno al progetto migliaia di firme palestinesi e israeliane – e quindi immaginare già come saranno i due Stati, quello ebraico e quello palestinese, ma anche come gestire Gerrusalemme». «Nella Destination Map, Gerusalemme sarà una città aperta, capitale di entrambi gli Stati, e con libertà totale di religione. Le aree arabe passeranno sotto sovranità palestinese, quelle ebraiche rimarranno sotto Israele, ma nessuno dei due Stati amministrerà direttamente i luoghi santi: tranne che per il Haram che sarà sotto i palestinesi e il Muro del Pianto che sarà sotto gli israeliani per il resto dei santuari vigerà uno status quo garantito internazionalmente». Anche al Centro Peres per la Pace di Tel Aviv sono allo studio progetti di fattibilità attorno a soluzioni simili e soprattutto alla gestione dei luoghi santi.

 

Verso una soluzione: un’iniziativa italiana

Proprio a ridosso dei negoziati di Camp David mediati dal presidente Clinton tra Barak e Arafat, su Gerusalemme si svolse in Italia una complessa attività di carattere riservato. Il progetto, sviluppato dal Centro italiano per la pace in Medio Oriente, e finanziato dalla Unione Europea, nell’ambito del programma «People to People», dal ministero degli Esteri italiano, dalla regione Toscana e dal comune di Milano, portò alla realizzazione di nove ricerche «in profondità», sui diversi aspetti (politici, religiosi, municipali e sociologici), svolte da esperti israeliani, palestinesi e italiani, e a due seminari a porte chiuse: nel dicembre 1999 e nel giugno 2000. Il lavoro italiano è stato sviluppato in collaborazione con due tra i più prestigiosi think tank israeliani e palestinesi: Economic Cooperation Foundation, diretta da Yair Hirschfeld e Ron Pundik, i due negoziatori segreti dell’accordo di Oslo, e Arab Study Society, il Centro di studi e iniziativa della Orient House, che faceva allora capo a Feisal El Husseini, il ministro dell’ANP per Gerusalemme, mancato pochi mesi più tardi. Al centro del progetto è emersa un’interessante proposta di scomposizione del concetto di sovranità per quanto riguarda il futuro della città vecchia, ovvero il centro storico di Gerusalemme circondato dalle mura. In tale prospettiva, la sovranità perderebbe il suo carattere assoluto, per essere accettata come concetto relativo e specifico. Mentre per la parte esterna alla città vecchia il piano discusso in Italia prevede una divisione integrale della sovranità tra i due Stati, nella Città vecchia la sovranità territoriale sarebbe «di Dio», «of God». Per la sovranità personale, sulle popolazioni, i palestinesi abitanti a Gerusalemme, dovunque situati, sarebbero sotto sovranità dell’ANP, e gli israeliani sotto sovranità israeliana (la cosa interessa d’altronde anche gli israeliani, che non vogliono più accollarsi i servizi per i 200.000 palestinesi che abitano la città). Per la sovranità funzionale, essa verrebbe articolata in base alle diverse funzioni: alcune funzioni sarebbero divise (scuola, sanità, servizi sociali ecc.); altre funzioni sarebbero condivise (sicurezza, ecc.). Per altre funzioni possono essere previste forme di presenza internazionale (questioni religiose e gestione luoghi santi, scavi archeologici, comitato per gestione emergenze, ecc.). Per quanto attiene specificamente alla questione dei luoghi santi, viene proposto come si è detto un comitato ad hoc, il JRC, Jerusalem Religious Council, con la funzione di sovrintendere a tutti questi aspetti, con presenze di rappresentanti religiosi, municipali e politici interessati.

 

Verso una soluzione: la Road Map per Gerusalemme

Anche nella Road Map, il percorso formulato dal Quartetto per il Medio Oriente (Stati Uniti, Unione Europea, Federazione russa e Nazioni Unite) per procedere verso una soluzione del conflitto israelo-palestinese, la questione di Gerusalemme viene affrontata ufficialmente non subito ma nella terza fase, quella dell’accordo sullo status permanente, previsto per il 2005. La Road Map non articola tuttavia alcuna proposta concreta sul futuro della città. Un gruppo di studiosi israeliani e palestinesi, riuniti dall’IPCRI nell’aprile del 2003 ha steso un testo intitolato «Road Map for Jerusalem», inviato sia al Quartetto che al governo di Israele e all’Autorità nazionale palestinese.13

La «Road Map per Gerusalemme» parte dal presupposto che “«lo status finale di Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele e dello Stato di Palestina è imperativo e dovrebbe essere correlato all’applicazione di tutti gli stadi della Road Map». «La centralità di “Gerusalemme – viene ancora spiegato – è un unico demanio urbano con un significato storico, religioso e spirituale per tutti i popoli del mondo e in particolare per i popoli di Israele e di Palestina: quindi dovrebbe diventare il modello della convivenza israelo-palestinese che rifletta una cultura di pace tra le tre religioni monoteistiche». Secondo il documento elaborato dagli esperti dell’IPCRI la soluzione per Gerusalemme potrà essere raggiunta, come per la Road Map, in tre fasi. Esse prevedono in Israele e nei territori palestinesi, come nella città: la fine del terrore e della violenza; la normalizzazione della vita palestinese; la costruzione delle istituzioni palestinesi; il congelamento di ogni attività di insediamento israeliano; un periodo di transizione focalizzato sulla creazione di uno Stato indipendente palestinese e sulla definizione di confini provvisori; la firma di accordi permanenti e la fine del conflitto, anche su Gerusalemme.

Il piano dell’IPCRI descrive quindi nei dettagli i passi che debbono essere fatti nella città in ciascuna fase. Nella prima lo scopo è innanzitutto quello di riportare la vita della città alla situazione precedente allo scoppio dell’intifada Al Aqsa il 28 settembre del 2000, con la riapertura tra l’altro di alcune istituzioni palestinesi chiuse, quindi l’avvio dell’assegnazione di poteri municipali anche ai palestinesi che dovranno ricevere appropriati budget per provvedere a erogare i servizi ai quartieri orientali della città. Nel secondo periodo lo scopo è proprio quello di completare il passaggio dei poteri municipali ai palestinesi per quanto riguarda la parte est della città e l’organizzazione di elezioni nazionali in Palestina che vengano estese anche alla Gerusalemme araba. La terza fase è infine quella dei negoziati politici, assistiti dal Quartetto, che dovranno portare la città a fungere appunto da capitale di due Stati, ma anche a una risoluzione speciale sullo status dei luoghi santi. In questa fase saranno anche istituiti corpi speciali di polizia che dovranno garantire la sicurezza della città e sarà necessario porre fine a ogni reclamo di tipo territoriale, per poter finalmente dichiarare il termine del conflitto, in generale, e su Gerusalemme.

 

 

 

Bibliografia

1 Per ulteriori approfondimenti sulle origini di Gerusalemme cfr. l’articolo di L. Sandri su questo numero di «Italianieuropei».

2 Cfr. The Status of Jerusalem, United Nations, New York 1997.

3 Numerosi sono gli interventi pubblici che, durante l’ultimo decennio, hanno spiegato e confermato la posizione della Santa Sede. Soprattutto prima della visita del Pontefice a Gerusalemme e in Terra Santa nel marzo del 2000. Tra questi interventi: il discorso del Papa al corpo diplomatico, 14 gennaio 1996; il discorso pronunciato dall’arcivercovo Jean Louis Tauran a Gerusalemme nell’ottobre del 1998 in occasione di una conferenza di vescovi cattolici sotto gli auspici del Patriarcato latino. Vedi anche Special file: The Pope and Jerusalem, in «Jerusalem Quarterly», 8/2000.

4 La posizione, così come è articolata, e ripresa dal documento ufficiale su «Lo status di Gerusalemme» del ministero degli Esteri israeliano.

5 Aggiornato a questo proposito il saggio di L. Fragiacomo, The Prospects for a Shared Jerusalem, Jerusalem in «Quarterly File», 11-12/2001.

6 Cfr. Documents on Jerusalem, Passia, Gerusalemme, 1996.

7 Cfr. The Plo-Vatican Agreement, in «Jerusalem Quarterly file», 8/2000.

8 Cfr. R. Lapidoth e M. Hirsch, The Jerusalem Question and Its Resolutions: Selected Documents, Londra, 1994.

9 Cfr. G. Baskin e R. Twite, The Future of Jerusalem, Gerusalemme 1993.

10 Cfr. Bar Ilan University e Jerusalem Institute for Israel Studies, The Jerusalem Problem: TheStruggle for Permanent Status, Londra, 2003, e Jerusalem - the Contested City, Londra, 2000.

11 C. Albin, The Conflict over Jerusalem: Some Palestinian Responses to Concepts of Dispute Resolution, Gerusalemme, 1996.

12 M. Benvenisti, Jerusalem, Problems and Options, The West Bank Database Project, 1985.

13 Jerusalem in the Performance based Road Map to a Permanent Two States Solution to the Israeli-Palestinian Conflict, IPCRI, aprile 2003.