Riforma del welfare: una legislatura persa

Written by Paolo Onofri e Stefano Toso Monday, 01 September 2003 02:00 Print

Ormai diversi mesi fa, con l’approvazione del disegno di legge delega per la riforma del sistema tributario (legge 80 del 2003), il governo aveva definitivamente formalizzato il proprio impegno elettorale (al primo punto del «Contratto con gli italiani») di abbattere la pressione fiscale. L’attuazione della riforma prevedeva l’emanazione, entro due anni dall’entrata in vigore della delega, di più decreti legislativi e, nel biennio successivo, di eventuali e ulteriori decreti di carattere integrativo e correttivo.

 

Ormai diversi mesi fa, con l’approvazione del disegno di legge delega per la riforma del sistema tributario (legge 80 del 2003), il governo aveva definitivamente formalizzato il proprio impegno elettorale (al primo punto del «Contratto con gli italiani») di abbattere la pressione fiscale. L’attuazione della riforma prevedeva l’emanazione, entro due anni dall’entrata in vigore della delega, di più decreti legislativi e, nel biennio successivo, di eventuali e ulteriori decreti di carattere integrativo e correttivo. Per quanto concerne la tassazione personale, la riforma prevedeva l’introduzione di un nuovo tipo di imposta sul reddito, l’IRE, in sostituzione dell’IRPEF. Il modello teorico di riferimento della nuova imposta era quello flat-rate, modello che prevede una o al massimo due aliquote marginali (l’articolo 3 della legge delega ne contempla due, una al 23% fino a 100.000 euro, l’altra al 33% oltre i 100.000 euro) e un sistema di deduzioni dalla base imponibile necessario a garantire progressività all’imposta e a tenere conto di altre caratteristiche economiche del contribuente (condizioni familiari, spese meritorie, ecc.). La delega non chiarisce in modo esauriente alcuni elementi del nuovo sistema a regime (struttura delle deduzioni, minimo esente, ecc.), peraltro cruciali per individuarne in modo chiaro gli obiettivi e gli effetti. Nonostante ciò, simulazioni operate da vari istituti di ricerca sulla base delle informazioni sinora disponibili concordano nel ritenere che il passaggio all’IRE entro il 2006 produrrebbe effetti fortemente sperequati sulla distribuzione personale del reddito delle famiglie e sgravi d’imposta a favore soprattutto del 10% più ricco delle famiglie.1

Il lettore sarà stato sorpreso dalla coniugazione dei tempi al passato. Sono le recenti dichiarazioni del ministro dell’Economia e delle Finanze, almeno come riportate dai giornali, che hanno sollecitato tale coniugazione. Il senso di tali dichiarazioni era che le imposte non saranno ridotte non solo perché la situazione del bilancio non lo consente, ma perché sono necessarie risorse per le politiche sociali e per le politiche dello sviluppo. Non era la riduzione delle imposte a costituire la politica di sviluppo teorizzata da questo governo? Svolta a «U» nella strategia di politica economica? Ritirata ufficiale rispetto ai «sogni» della campagna elettorale? Oppure, semplicemente, risposta tattica a una difficoltà politica prolungata? L’interpretazione di una ritirata sarebbe coerente con i passi indietro compiuti con i DPEF del 2002 e del 2003, rispetto al «sogno» del DPEF del 2001. Ma è stato tale il peso assegnato alla riduzione delle imposte nella campagna elettorale che un mutamento così repentino appare molto sorprendente. Allo stato attuale non riteniamo, comunque, vi siano elementi per considerarla una ritirata definitiva. Ci atterremo quindi agli accadimenti già verificatisi.

La nuova IRPEF avviata con il 2003 (4,3 miliardi di euro di gettito in meno rispetto a quanto già previsto dalla normativa vigente) appare coerente con il disegno di riforma complessivo contenuto nella legge delega, nonostante l’attuale scala formale di cinque aliquote differisca ancora dalla struttura dual-rate dell’imposta a regime, nonostante la trasformazione delle attuali detrazioni in deduzioni dalla base imponibile riguardi per ora solo quelle a favore dei redditi di lavoro e nonostante, infine, le detrazioni per carichi di famiglia e gli oneri detraibili per spese meritorie rimangano inalterati. Stime dell’impatto sulla distribuzione personale del reddito indicano che, contrariamente alle attese alimentate dal Governo, le modifiche apportate hanno esercitato un impatto pressoché nullo sulla disuguaglianza dei redditi familiari.2 L’analisi della distribuzione per decili degli sgravi fiscali mostra inoltre che al 20% più povero delle famiglie sono andati guadagni trascurabili (inferiori all’1% del reddito disponibile equivalente) e che l’incremento percentualmente più sensibile, nell’ordine di un punto e mezzo percentuale circa, si è avuto per le famiglie che occupano i decili mediani, dal quarto al sesto (cfr. tabella 1). In termini assoluti, circa il 70% dell’ammontare complessivamente restituito alle famiglie è andato a favore degli ultimi cinque decili, dal sesto al decimo. Già la prima tranche della riforma dell’imposta personale, apparentemente concepita per privilegiare i redditi medio-bassi, ha finito quindi per destinare la quota maggiore degli sgravi fiscali alla metà più ricca della distribuzione, a scapito in particolare delle famiglie dei primi due decili che, avendo un’IRPEF lorda non sufficientemente «capiente» da avvalersi delle maggiori detrazioni, già prima delle modifiche introdotte non pagavano l’imposta.

Ridurre il carico fiscale, dovrebbe essere noto, non è un sistema efficace per aiutare i contribuenti poveri o più bisognosi (pensionati, lavoratori a basso reddito); non fa che aumentare il fenomeno dell’incapienza. Andando a vantaggio delle classi di reddito mediane, anziché di quelle con più elevata propensione marginale al consumo, le modifiche dell’IRPEF nel 2003 non hanno verosimilmente conseguito gli obiettivi sperati, anche sotto il profilo macroeconomico dello stimolo alla crescita e della ripresa della domanda di consumo tra le famiglie. 

Tabella 1

In altre parole, nonostante il Governo abbia anticipato la parte della riforma considerata più favorevole alle classi di reddito meno abbienti, il bilancio del primo modulo della riforma dell’IRPEF non è particolarmente soddisfacente, sul piano dell’equità. In aggiunta, ciò che ora rimarrebbe da fare è l’attuazione del modulo della riforma più favorevole ai redditi medio-alti! Quelli più elevati beneficerebbero quindi del passaggio dell’aliquota marginale massima dal 45% al 33% e della forte attenuazione del principio della progressività. Si tratterebbe di un bonus di circa 15 miliardi di euro! Che sia sorto qualche dubbio sulla sua praticabilità politica è più che legittimo.

Nei prossimi anni il problema del controllo del disavanzo, di fronte alla riduzione progressiva delle entrate una tantum, continuerà a dominare la scena, così come, per altri versi, è stato nel biennio 2002-2003. In questi anni alle una tantum dal lato delle entrate si sono affiancati strumenti di controllo diretto della fornitura di prestazioni sociali (contenimento della spesa sanitaria e riduzione dell’offerta di servizi a livello locale) e il rallentamento, se non l’interruzione vera e propria (emblematico il caso della sperimentazione del reddito minimo di inserimento, RMI), del processo di riforma del settore dell’assistenza, avviato nel quinquennio precedente e a cui avrebbe dovuto fare da volano l’approvazione, sul finire della passata legislatura, della legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali (legge 328 del 2000).

Per quanto concerne il rafforzamento degli strumenti di controllo diretto della fornitura di prestazioni sociali, con particolare riferimento alla spesa sanitaria, l’accordo Stato-regioni dell’8 agosto 2001, poi confluito nella legge 405 del 2001, ha previsto che le regioni aderissero alle convenzioni in tema di acquisti di beni e servizi, adempissero agli obblighi informativi sul monitoraggio della spesa, rispettassero il Patto di stabilità interno e si impegnassero a mantenere la stabilità della gestione sanitaria applicando misure strutturali di contenimento della spesa. Il risultato più immediato del citato accordo Stato-regioni è stato quello di attivare, nel biennio 2001-2002, manovre di consolidamento finanziario da parte delle regioni. Tali manovre sono coincise in più di un caso con inasprimenti delle aliquote dei tributi propri regionali (in primo luogo l’addizionale IRPEF) e con misure disincentivanti la domanda di prestazioni sanitarie (reintroduzione dei ticket sanitari su farmaci, prestazioni specialistiche e ospedaliere).4

Le misure di inasprimento tributario messe in atto da alcune regioni nel 2002 hanno allarmato il Governo centrale, ancora affezionato, allora, alla retorica del «meno tasse per tutti». La paura di una progressiva sostituzione tra riduzione del prelievo che affluisce nelle casse del Governo centrale e inasprimenti della tassazione a livello di enti locali ha indotto il governo a bloccare, con la Finanziaria per il 2003, i margini di manovra degli strumenti impositivi in mano alle regioni e ai comuni, tra cui gli aumenti delle addizionali IRPEF. Il blocco di tali margini di manovra ha posto di fatto un limite alle spese regionali, che vengono di nuovo ancorate ai trasferimenti statali, e ha fatto segnare il passo alle istanze di decentramento fiscale e di maggiore autonomia impositiva contenute nella legge di riforma del Titolo V della Costituzione.5 Gli strumenti disponibili in possesso degli enti locali rimangono a questo punto il taglio delle prestazioni, l’improbabile recupero di aree di efficienza tecnica e il contenimento della domanda attraverso forme di compartecipazione al costo della fornitura delle prestazioni. Lo spostamento verso regole di controllo diretto della spesa per assicurare il rispetto della disciplina di bilancio è confermato dalle modalità di controllo applicate alle prestazioni extra-sanitarie di intervento regionale, per le quali si applicano le rinnovate regole del Patto di stabilità interno.6 Se, come appare plausibile, la politica di contenimento della spesa locale si tradurrà in minori prestazioni sociali o in incrementi tariffari, gli sgravi erariali decretati con la prima tranche di riforma dell’IRPEF rischiano di essere compensati da misure di segno opposto, a livello decentrato, sui bilanci delle famiglie italiane, con risultati regressivi sulle condizioni economiche delle famiglie medesime. Microsimulazioni svolte su famiglie tipo, poi estese al totale della popolazione, indicano che tra i nuclei familiari del primo decile, a causa dei probabili maggiori oneri decisi a livello locale e del contemporaneo effetto dell’incapienza in sede IRPEF, circa il 90% dovrebbe sopportare una perdita monetaria, quota che scende al 56% nel secondo decile e al 35% nel terzo.7

Un esempio può dar conto dell’incidenza indiretta delle politiche di restrizione dei trasferimenti a regioni ed enti locali. Nel 2000 le assegnazioni statali alla regione Emilia-Romagna per il fondo sociale per l’affitto furono pari a 33,4 milioni di euro, cui regione e comuni aggiunsero altri 5 milioni di euro, distribuendo complessivamente poco meno di 1.900 euro annui a famiglia assistita. Nel 2003, i fondi statali si sono ridotti a 25,2 milioni di euro, cui regione e comuni hanno aggiunto 10,9 milioni di euro, distribuendo, se il numero di famiglie fosse rimasto lo stesso, circa 1.750 euro a famiglia, su un affitto medio almeno del 15% più elevato.8

Uno degli aspetti più preoccupanti della politica sociale realizzata è l’interruzione del processo di riordino delle misure di contrasto della povertà. A cinque anni di distanza dal provvedimento (D.L. 237 del 1998) che ne ha disciplinato l’introduzione e a tre dalla prevista generalizzazione all’intero territorio nazionale da parte della legge quadro di riforma dell’assistenza, la sperimentazione del reddito minimo di inserimento (RMI) sta volgendo gradualmente al termine. Nella Finanziaria per il 2003 non ha infatti trovato posto il rifinanziamento dell’esperimento, tanto meno la sua estensione a livello nazionale. Anche la seconda sperimentazione (2001-2002), come già la prima (1999-2000), è stata effettuata in contesti locali particolarmente difficili: i comuni interessati (poco più di 300) non rispecchiano infatti l’insieme dei comuni italiani, né per livelli di performance economica, né per retroterra amministrativo e professionale necessario a gestire il decollo del nuovo istituto. Le informazioni disponibili sulla seconda fase di sperimentazione9 sembrano confermare le luci e le ombre già evidenziate nel rapporto ministeriale di valutazione della prima. Nonostante ritardi di varia natura, accentuati dalla localizzazione dell’esperimento in contesti in cui il tessuto economico e l’offerta di servizi sociali presentano gravi carenze, l’introduzione del RMI sembra avere innescato un processo di maggiore civilizzazione nei rapporti tra cittadini ed enti locali e di contrasto del clientelismo, ristabilendo condizioni di certezza dei diritti nella fornitura delle prestazioni. Del nuovo istituto si sono soprattutto avvalse le famiglie numerose, che registrano le percentuali più elevate di povertà (il 15,2% quelle con due minori, il 25,9% quelle con almeno tre, a fronte di una media nazionale nel 2002 dell’11%). Minore è invece la presenza tra i beneficiari di coppie senza figli e di nuclei con un solo componente. Ridotta è anche la quota di anziani, essendo questi ultimi già destinatari di trasferimenti meno selettivi del RMI, come la pensione o l’assegno sociale. Tra i programmi di inserimento sociale dei beneficiari, previsti dalla sperimentazione, la tipologia più ricorrente ha riguardato l’integrazione socio-relazionale (alfabetizzazione e recupero dell’obbligo scolastico, formazione professionale, ecc.), seguita dalle attività di cura e sostegno familiare. Bassa, e concentrata nei comuni del Nord, è invece la quota di programmi di tipo occupazionale.

La sperimentazione del RMI ha evidenziato una serie di criticità, riguardanti in particolare l’applicazione delle procedure di means-testing, l’attività di controllo della veridicità delle dichiarazioni rese e l’onere presunto del finanziamento del nuovo istituto a regime. Relativamente a quest’ultimo punto, vale la pena ricordare che le stime degli istituti preposti alla valutazione del primo biennio di sperimentazione indicavano in 2,1-2,8 miliardi di euro il costo annuo della messa a regime del RMI, anche tenuto conto dei risparmi di spesa (valutabili in 350 milioni di euro) derivanti dalla soppressione di precedenti istituti di minimo vitale locali.

Sulla base di quanto contenuto nel Libro bianco sul welfare del febbraio 2003, prima ancora nel Patto per l’Italia e, da ultimo, nel Piano d’azione nazionale contro la povertà e l’esclusione sociale 2003-2005, risulta chiaro come il governo in carica non intenda proseguire nella sperimentazione del RMI oltre il 2003, né generalizzare la misura a livello nazionale. Secondo il citato Piano d’azione nazionale «l’esperienza del RMI ha evidenziato una serie di problemi, in parte imputabili alle caratteristiche dello strumento di sostegno economico, in parte alla scarsa capacità di disegno e attuazione delle misure di reinserimento sociale, in parte ancora al sovraccarico di funzioni che si determinano a causa di tradizionali carenze del sistema di welfare italiano». Il giudizio negativo sul RMI e la contrarietà alla sua messa a regime appaiono singolari, se si considera che, anche scontando l’affrettata preparazione della seconda fase dell’esperimento da parte del Governo di centrosinistra uscente, l’esecutivo in carica non ha sottoposto il rapporto di valutazione della prima sperimentazione all’attenzione del Parlamento, come sarebbe stato tenuto a fare per legge.

La nuova misura che il Governo intende introdurre (il reddito di ultima istanza, RUI) ha ancora contorni indefiniti e nessuno stanziamento a disposizione. Tutto ciò che fino ad ora è dato sapere dal Piano d’azione nazionale contro la povertà e l’esclusione sociale 2003-2005, è che il RUI «sarà fondato su una stretta cooperazione tra livello nazionale e livello regionale, con un’accentuazione del peso delle componenti locali, in parte quale conseguenza delle modifiche istituzionali legate alla riforma del Titolo V della Costituzione, in parte per introdurre schemi di incentivazione delle amministrazioni locali a operare in maniera sinergica, in parte per colmare le profonde diversità di situazioni tra realtà locali (in termini di costo della vita, natura della povertà, intensità dei disincentivi all’occupazione regolare)». In attesa di conoscerne le caratteristiche, annunciate per la fine dell’anno, è fondata la preoccupazione che la bocciatura del RMI preluda a un ritorno a forme di minimo vitale disomogenee e frammentate territorialmente, e quella di vedere retrocedere, anziché far avanzare, l’affermazione di un diritto di cittadinanza universalmente riconosciuto in pressoché tutti i paesi dell’Unione Europea.

In sintesi, la strategia di politica sociale rivelata dalle misure messe in atto in questa prima parte della legislatura è stata complessivamente di redistribuzione a sfavore delle famiglie con redditi bassi. Anche l’aumento delle maggiorazioni sociali relative ai trattamenti pensionistici integrati al minimo e delle pensioni con caratteristiche assistenziali, in assenza di una revisione del sistema di verifica della condizione economica che ne disciplinino più equamente l’erogazione subordinandola all’Indicatore della situazione economica (ISE), finisce per esercitare effetti redistributivi deludenti, se non controproducenti, come molte ricerche hanno dimostrato.

Le numerose difficoltà politiche che la maggioranza è andata accumulando con l’azione svolta dal Governo e dal Parlamento in altri ambiti hanno accentuato la sua divisione di fronte alle politiche di prelievo e di prestazioni sociali. Se anche il progetto iniziale di riduzione delle imposte e conseguente riduzione della spesa sociale dovesse essere rinnegato, difficilmente dai veti contrapposti uscirà, nella seconda metà della legislatura, una strategia di riassetto del welfare state e dell’imposizione sui redditi coerente. Da questo punto di vista, questa XIV legislatura si prospetta sempre più come una legislatura «persa». Nel 2006 la popolazione sarà comunque invecchiata, la precarizzazione dei rapporti di lavoro si sarà estesa, la distribuzione dei redditi familiari sarà diventata più ineguale e la società più polarizzata, senza che gli strumenti delle politiche sociali compensatrici si siano arricchiti.

 

 

Bibliografia

1 M. Baldini e P. Bosi, Riforma fiscale e politiche per la famiglia nella Finanziaria per il 2003, in «Quaderni di Rassegna Sindacale», 4/2002 e S. Fantacone, G. Rodano (a cura di), Inversioni di rotta e occasioni mancate. Le riforme di politica sociale del centro-destra, in « Rapporto CER-SPI», 13/2002, Ediesse.

2 Secondo Baldini e Bosi, op. cit., l’indice di Gini si riduce di poco meno di un decimo di punto, passando dal 34% al 33,9%. L’indice di Gini è il più noto indicatore impiegato nelle analisi distributive e serve a quantificare il livello della disuguaglianza di una distribuzione. Assume valori compresi tra zero (valore minimo) e uno (valore massimo) ovvero, in termini percentuali, tra zero (perfetta uguaglianza) e cento (massima disuguaglianza).

3 Scala di equivalenza ISE, Cfr. Baldini e Bosi, op.cit.

4 T. Frattini, A. Zanardi, Federalismo regionale: un anno al palo, in M.C. Guerra, A. Zanardi (a cura di), La finanza pubblica italiana. Rapporto 2003, Il Mulino, Bologna 2003.

5 La riforma costituzionale del Titolo V stabilisce che la spesa delle regioni sia completamente finanziata con tributi propri e compartecipazioni a tributi statali, escludendo quindi i trasferimenti centrali tra le modalità ordinarie di finanziamento regionale.

6 Per gli esercizi del triennio 2003-2005 si prevede che il complesso delle spese correnti, al netto di quelle per interessi passivi o finanziate da programmi comunitari o relative all’assistenza sanitaria, possa aumentare del tasso di inflazione programmato indicato nel DPEF.

7 Cfr. Baldini e Bosi, op.cit.

8 In realtà, il consolidarsi dello strumento al quarto anno di applicazione ha fatto crescere le famiglie assistite da 20.000 a 35.000 e quindi il contributo per famiglia è sceso a circa 1.100 euro.

9 Rapporto IRES, Il reddito minimo d’inserimento in Italia: la sperimentazione continua di una misura difficile, in «L’Assistenza Sociale», 2002, pp. 196-336.