Un governo di legislatura stabile ed efficiente. A proposito di Costantino Mortati e di premierato

Written by Francesco Clementi Tuesday, 01 April 2003 02:00 Print

All’interno di quella che è stata definita come una lenta conversione maggioritaria, l’approdo di Costantino Mortati al «governo di legislatura», al cosiddetto premierato, avviene, essenzialmente, in tre tempi, scandito da tre diverse pubblicazioni: le Lezioni, l’intervento nel dibattito sulla rivista «Gli Stati» (cioè il testo che qui si presenta, sebbene in forma ridotta), il Commento all’art. 1 della Costituzione.

All’interno di quella che è stata definita come una lenta conversione maggioritaria,1 l’approdo di Costantino Mortati al «governo di legislatura», al cosiddetto premierato, avviene, essenzialmente, in tre tempi, scandito da tre diverse pubblicazioni: le Lezioni,2 l’intervento nel dibattito sulla rivista «Gli Stati» (cioè il testo che qui si presenta, sebbene in forma ridotta),3 il Commento all’art. 1 della Costituzione.4 L’esperienza del fallimento del centrosinistra sul finire degli anni Sessanta e il rischio di derive sistemiche, porteranno lentamente Mortati, nella metà degli anni Settanta, a sostenere la necessità di introdurre nel nostro sistema politico-costituzionale – tra attuazione e inattuazione della Costituzione, tra riforme del sistema e riforme nel sistema – concetti, regole e meccanismi tipici di una democrazia maggioritaria. Di questa evoluzione progressiva del suo pensiero, questo testo costituisce un punto importante di snodo, interpolandosi tra le Lezioni, laddove critica la centralità sistemica della DC intesa come «fattore ritardatore delle evoluzioni delle istituzioni verso le direttive tracciate dalla Costituzione»,5 e il Commento all’art. 1 della Costituzione, laddove dà ragione «del fiorire di tendenze sempre più diffuse che si orientano verso forme di consultazione popolare meglio idonee a consentire scelte in sede elettorale di indirizzi maggioritari, destinate a vincolare gli organi elettivi per tutto un ciclo di vita del parlamento (come per esempio quelli rivolti a realizzare “accordi di legislatura” oppure a procedere all’elezione diretta del presidente del Consiglio dei ministri).»6

Pubblicato nel gennaio del 1973 sulla rivista «Gli Stati» all’interno di un dibattito coordinato da Franco Cangini, intitolato La Costituzione e la crisi, al quale parteciparono Crisafulli, Sandulli, Ferrari, Galeotti e La Pergola, il filo d’analisi che qui sviluppa Mortati è assai limpido, tutto teso a dimostrare la necessità di modificare quella strutturazione partitica (e di conseguenza anche la forma di governo) artefice di «situazioni di fatto che, ove permanessero, renderebbero vano il ricorso ai mutamenti costituzionali ai quali si vorrebbe affidare la loro rimozione». È una ricerca attenta a capire i segnali di un tempo di transizione, a cercare, nelle pieghe della società, di una società che stava diventando sempre più complessa e multiforme, gli eventuali perni sui quali poggiare le proposte di riforma e rompere quello che denunciava come un «circolo vizioso». Così, mentre da un lato non abdica all’idea di una Carta costituzionale comunque ancora inattuata – a differenza di coloro che dapprima parlavano di promesse tradite e di aspirazioni politiche deluse e che poi invece si riconobbero nella formula, di Enzo Cheli, di una costituzione «presbite»7 –, dall’altro lato ha il coraggio di proporre, lui costituente e membro della Commissione dei settantacinque, la necessità di riforme più ampie che, lasciando inalterata la parte «sostanziale», cioè i rapporti dei cittadini tra loro e con lo Stato, intaccassero più propriamente invece la parte organizzativa della Costituzione. È quindi un Mortati pienamente cosciente – anche sulla spinta del disgelo dei rapporti tra Est-Ovest e della carica positiva offerta dai movimenti in atto nella società (da quelli extraparlamentari, alle contestazioni studentesche, ai sindacati operai) – della necessità di riforme soprattutto riguardo all’esercizio di quelle funzioni che incidono «più direttamente nell’interesse generale».8

Il governo di legislatura con premier elettivo costituisce il centro focale di questa sua riflessione. Sebbene l’inattuazione costituzionale lo portasse a proporre – come parimenti necessaria – la rivitalizzazione della struttura politico-partitica con l’innesto di meccanismi nuovi per la designazione dei candidati a cariche politiche (attraverso ad esempio le primarie intra-partitiche), è nella consapevolezza dell’instabilità governativa, intesa come l’impossibilità «dello spiegarsi di un’armonica e coerente direzione politica per il periodo di tempo necessario al suo svolgimento», che si trova il cuore della sua idea di introdurre una forma di governo, secondo lo schema di tipo britannico, incentrata sul governo di legislatura. In questo quadro, infatti, di fronte al fallimento, nella realtà concreta del sistema politico, degli strumenti di razionalizzazione della forma di governo inseriti in Costituzione, Mortati non fa altro che rifarsi a quanto lentamente ha appreso – e sta apprendendo – dal dibattito francese a cavallo tra IV e V Repubblica, cioè da quel revisionismo dei professori capeggiato da Duverger e Vedel, dalle capacità «visionarie» del club Jean Moulin, di un governo di legislatura nel quale il premier è un autentico leader della sua maggioranza in parlamento, responsabile vero dell’indirizzo politico verso i cittadini, titolare del potere di scioglimento.

Peraltro, come detto, il percorso di questo autore verso la democrazia maggioritaria è lento e, inizialmente, egli crede ancora nella capacità delle forze politiche di autoriformarsi, nella loro disponibilità a trovare, all’interno della normale dialettica, «accordi di programma» che spostino, prima del momento elettorale e non dopo, il conflitto politico per la formazione del governo. Pertanto, piuttosto che sulla necessità di riforme costituzionali, il suo punto di riferimento iniziale è incentrato, ad esempio, sulla pianificazione; 9 ed è soltanto in seguito, con le speranze tradite della stagione del centrosinistra, che arriverà a proporre l’elezione simultanea di governo e parlamento.10

Questa proposta invero non era legata – come ad esempio per Serio Galeotti – all’automatismo rigido del brocardo latino aut simul stabunt aut simul cadent. Essa era costruita sulla possibilità di una via «mediana» che avrebbe consentito, anche attraverso la possibilità di affidare al capo dello Stato (a maggior ragione organo di garanzia) l’opera di mediazione in caso di crisi tra governo e parlamento, una soluzione comunque più flessibile dello scioglimento automatico. Per cui, come è stato evidenziato, l’elezione diretta del capo del governo si configura in Mortati come «l’anello finale della scelta di un indirizzo di maggioranza»,11 la conseguenza logica della scelta di un programma, di una coalizione, di un leader candidato premier; un intento che, al di là delle technicalities, appare evidente se si pensa al rispetto che nutre Mortati nei confronti del programma elettorale, di quell’«accordo di fondo circa l’attuazione dell’indirizzo sul quale si sia riversata l’approvazione della maggioranza popolare». L’elezione simultanea del capo del governo e del parlamento non è quindi un dogma per Mortati. È piuttosto in quel momento storico, il miglior strumento possibile, il laccio più forte che potrebbe aiutare a tenere insieme, anche in modo forzoso, un governo ed una maggioranza per l’intera legislatura, e che, con la sua forza se non altro «d’impatto politico», potrebbe contribuire a portare a compimento il patto programmatico tra governanti e governati. Si viene a palesare così un’ulteriore dimostrazione della «libertà di analisi» di questo autore ed il segno di un forte coraggio riformistico, in una fase politica nella quale molti sostenevano ancora che «l’anomalia italiana» risiedesse soprattutto nella società e che, in quanto tale, fosse intangibile, piuttosto che, come per il nostro, nelle logiche e nelle procedure di funzionamento del sistema politico. Ancora una volta quindi, alla fine della lettura di questo intervento, rimane per noi la costante attenzione di Mortati per i fatti, il metodo rigoroso e quella capacità – tutta particolare – di tenere sempre insieme, in ogni sua proposta, la lucidità delle analisi giuridiche con la concreta dinamica della realtà sociale12.

 

Costantino Mortati

La Costituzione e la crisi

Vorrei incominciare con l’esaminare quanto siano fondate le critiche da varie parti mosse alla Costituzione del 1947, perché mi sembra necessario accertare se i mali in cui si dibatte la nostra vita democratica siano addebitabili a gravi deficienze della Carta repubblicana, o invece a situazioni di fatto che, ove permanessero, renderebbero vano il ricorso ai mutamenti costituzionali ai quali si vorrebbe affidare la loro rimozione. Un’esatta valutazione della nostra Costituzione esige che si distingua la parte che si potrebbe chiamare sostanziale, rivolta com’è a disciplinare i rapporti dei cittadini fra loro e con lo Stato, dall’altra dedicata all’organizzazione dei poteri, ai modi di esercizio dell’autorità. Non mi pare contestabile che essa, nella formulazione dei principi racchiusi nella prima parte, sia riuscita particolarmente felice, tale da porla ad un livello superiore a quello delle altre costituzioni emanate nello stesso periodo di tempo, perché animata dalla consapevolezza dei presupposti necessari alla realizzazione di un autentico ed efficiente regime democratico (presupposti che sono stati ritenuti non realizzabili senza la previa rimozione degli ostacoli i quali, per tanta parte dei cittadini, precludono il pieno svolgimento della loro personalità); perché preoccupata di designare, con le mete da realizzare, gli strumenti per poterle raggiungere. Per quanto riguarda poi la parte organizzativa occorre anzitutto precisare che l’opzione per la forma parlamentare non fu oggetto di contestazione e può considerarsi espressione di una convinzione diffusa, che può dirsi comune agli ordinamenti allora instaurati, non esclusi quelli di tipo socialista che, in fatto di forma di governo, non riuscirono a realizzare nulla di nuovo. Il nostro costituente ebbe però piena consapevolezza dell’indeclinabile esigenza dell’unità e della stabilità dell’azione di governo, come risulta dall’art. 95 che affida al presidente del Consiglio dei ministri la direzione della politica generale assicurando così a lui una supremazia sugli altri membri del gabinetto, ciò nell’opinione che essa fosse strumento necessario, soprattutto allo scopo di conseguire l’efficienza della programmazione cui fa riferimento l’art. 41. Certo la stabilità governativa presupponeva la permanenza del rapporto fiduciario con la maggioranza parlamentare e quindi rimaneva condizionata al suo mantenimento nel tempo; ma, in ordine a questo punto, il solo strumento che si presentava come utilizzabile era quello della cosiddetta razionalizzazione del rapporto stesso, quale si cercò di assicurare attraverso varie misure: come, ad esempio, l’esclusione dell’obbligo delle dimissioni in seguito al rigetto di un disegno di legge governativo, l’abolizione della necessità del voto segreto per l’approvazione delle leggi e soprattutto la disciplina del voto di fiducia. È vero che questa disciplina si è palesata inoperante, dato il carattere extraparlamentare assunto dalle crisi; ma è vero altresì che una remora a queste ultime la Costituzione offriva quando consentiva al capo dello Stato di condizionare l’accettazione delle dimissioni del Gabinetto rimasto in minoranza alla sua presentazione alle Camere, al fine di renderne espliciti e pubblici i motivi e così raccogliere le indicazioni più utili alla soluzione della crisi. Il fatto che siffatte predisposizioni siano risultate scarsamente operanti è da addebitare alla struttura partitica, caratterizzata dalla presenza di un grosso partito di opposizione, considerato non idoneo ad assumere funzione alternativa all’assunzione del potere di governo, e da un altro partito, di maggioranza relativa e quindi centro necessario per ogni coalizione di governo, ma diviso nel suo interno in correnti fra loro contrastanti. Tale situazione mentre tende ad accentuare il processo di frammentazione dei partiti minori, rende più difficile la concentrazione dei consensi intorno ad un leader del partito di maggioranza relativa (come anche degli altri partiti), che in un regime parlamentare maggioritario dovrebbe essere destinato ad assumere la direzione del governo, secondo quanto avviene in Inghilterra, e come sembra richiesto da una democrazia di massa, più propensa a vedere impersonati in un capo i valori e gli orientamenti di cui il partito è portatore, e della cui attuazione esso dovrebbe venire ad assumere la responsabilità.

Un circolo vizioso. Anche in ordine alla censura mossa da Crisafulli alla Costituzione, relativa all’eccesso di riserve di legge con essa disposte, è da osservare come la riserva (ed analogamente il connesso principio di legalità) miravano all’intento di affidare alla rappresentanza popolare la tutela dei diritti fondamentali dei cittadini. La costituzione però prevede la possibilità di una ripartizione dell’esercizio della potestà legislativa, secondo le esigenze della materia da regolare, fra parlamento e governo, con l’uso dello strumento della delegazione. Il difetto pertanto non sta tanto nel principio della riserva ma nel concreto modo d’attuarlo, nella mancanza di un programma organico relativo all’esercizio della facoltà legislativa; programma che dovrebbe rimanere affidato al governo, responsabile dell’indirizzo e che è invece insidiato dalla mancanza di maggioranze omogenee, dal moltiplicarsi non controllato di iniziative di singoli o di gruppi, spesso mossi da impulsi clientelari, facilitato da quella grave degenerazione del sistema costituita dall’estendersi della legiferazione in commissione, che era stata prevista dalla Costituzione come eccezionale ed era stata circondata da garanzie (come quella della pubblicità) che non si è avuto cura di realizzare. A questi mali si aggiungono poi quelli derivanti dall’affannosa ricerca in ogni partito dei mezzi necessari al proprio mantenimento ed alla propria progressiva espansione; ricerca che dà vita al sottogoverno. Mali cui malamente si provvederebbe con il ricorso al finanziamento posto a carico dello Stato, se non si curasse contemporaneamente l’adozione di rigorose misure per la riduzione degli enti pubblici, il risanamento della loro gestione, il migliore controllo della spesa, il riordinamento dell’amministrazione dello Stato e degli enti locali. La gravità della situazione prospettata sta in questo: che essa, per una parte, rende difficile il successo delle iniziative necessarie a farla superare, dato l’interesse largamente diffuso al mantenimento dello status quo, e per l’altra fa temere lo scarso rendimento pratico delle riforme che fossero adottate senza il suo previo superamento. Come rompere questo circolo che sembra senza uscita? È da mettere in rilievo che la molteplicità dei partiti, l’esistenza di partiti ritenuti anti-sistema sono espressione di una deficiente omogeneità del tessuto sociale sottostante allo Stato, dell’assenza cioè del fattore fondamentale cui deve considerarsi condizionata la funzionalità di ogni regime democratico. Si tratta quindi, affinché le stesse riforme che si palesi opportuno apportare alle strutture costituzionali possano riuscire feconde, di contare su due circostanze. La prima sembra sia da ricondurre al processo in corso, di disgelo dei rapporti Est-Ovest, che dovrebbe allentare i vincoli di dipendenza dal comunismo sovietico del PCI e così consentire a questo di offrire garanzie sufficienti di lealtà democratica che gli permetta di far valere, con la posizione di opposizione costituzionale, la pretesa di porsi a capo di una coalizione di governo alternativa a quella in atto, realizzando così un bipartitismo perfetto. La seconda emerge da quella che è stata giustamente designata come crescita democratica del paese, capace, giovandosi della spinta dei movimenti dal basso, di trarre la classe politica fuori dall’immobilismo in cui si dibatte. Donde il giudizio positivo che è da dare dei movimenti extraparlamentari in atto, della contestazione studentesca, delle agitazioni dei sindacati operai aventi ad oggetto non più solo rivendicazioni nei confronti dei datori di lavoro ma sollecitazioni ad organi dello Stato per un diverso orientamento della politica generale. Di fronte a questa situazione, la ricerca dei rimedi può essere rivolta verso due direzioni. La prima avente ad oggetto gli adattamenti possibili da apportare per una migliore funzionalità dei congegni organizzativi già esistenti. La seconda, di maggiore difficoltà e complessità, richiedente modifiche delle strutture costituzionali. Quanto al primo punto, devo confessare che non credo troppo alla congruenza di misure che tendessero a conferire al partito un assetto interno più conforme ai canoni della democrazia, secondo quanto prospettato dal prof. Sandulli. I partiti sono organismi indirizzati alla lotta per la conquista del potere e quindi naturalmente portati a darsi quelle strutture oligarchiche meglio idonee ad assicurare loro il successo nella competizione di ciascuno con gli altri. Si potrebbe piuttosto intervenire con riguardo all’esercizio di quelle funzioni che più direttamente si riflettono sull’interesse generale.

Selezione delle capacità. Questo può dirsi per la selezione delle capacità quale è affidata ai partiti quando si fa dipendere dalle loro scelte la designazione dei candidati a cariche politiche da sottoporre agli elettori. Si potrebbero seguire due vie (che sarebbero anche percorribili insieme e non già alternativamente). Una di esse consiste nel condizionare la scelta dei candidati all’appartenenza a determinate categorie, dalla quale sia argomentabile il possesso di conoscenze e di esperienze atte a garantire un buon adempimento della funzione cui aspirano. Ricordo che alla Costituente si discusse lungamente su questo punto, in presenza della proposta che era stata presentata di limitare l’eleggibilità a senatore ai cittadini qualificati dall’appartenenza a determinate categorie, nella presunzione che tale appartenenza fosse indice di maggiore idoneità all’esercizio della funzione alla quale erano destinati. La proposta venne poi abbandonata per la difficoltà che si manifestò a trovare un criterio soddisfacente per la determinazione delle categorie in parola, data la ricchezza di articolazioni della società moderna, da ciascuna delle quali sarebbe da trarre elementi di presunzione di capacità. Sembra però che le difficoltà allora fatte valere non siano decisive e non debbano scoraggiare dal riprendere il discorso allora chiuso. L’altra via, cui si è accennato, riguarda il procedimento di scelta della candidatura, che occorrerebbe sottrarre all’attuale esclusivo monopolio della direzione centrale o di quella delle suddivisioni locali, per trasferirla al giudizio degli appartenenti al partito, i quali dovrebbero esprimerlo in un pubblico dibattito, avente ad oggetto l’esame dei meriti e dei demeriti dei candidati, anche sotto l’aspetto delle responsabilità di quelli fra essi cessati dal mandato già esercitato. Non si dica che tale proposta si pone in contrasto con quanto prima affermato sull’inerenza al partito di un’esigenza di autonomia, poiché qui non si tratta di fare intervenire autorità estranee nel funzionamento del partito, ma solo di valorizzare l’apporto dell’elemento personale del partito stesso, nella designazione del proprio fiduciario. Sempre nello stesso ordine di esigenze è da ricordare la proposta di Basso di riservare un certo numero di seggi alla cooptazione da parte dei gruppi rappresentati in parlamento: misura che può considerarsi sostanzialmente equivalente nei risultati, a quella del collegio unico nazionale, con liste precostituite, in cui gli iscritti siano ordinati secondo il grado del rilievo politico attribuito a ciascuno; ma che rispetto a questa presenta il vantaggio di non affidare alla sorte il modo di utilizzazione dei cosiddetti «resti» ma di farli riversare a favore di candidati forniti di speciale qualificazione, senza riguardo ai suffragi ottenuti nei singoli collegi circoscrizionali. Sempre nell’ordine dei mutamenti realizzabili senza il ricorso a emendamenti costituzionali, il pensiero va ai sistemi elettorali, cui ci si può rivolgere avendo di mira due obiettivi: contrastare in qualche modo il frazionamento politico e promuovere le coalizioni fra partiti affini, già fin dalla fase elettorale, allo scopo di facilitare la formazione di governi meno instabili. L’adozione di quella che i tedeschi chiamano Sperrklauseln, cioè l’introduzione di un quorum, di un limite minimo di voti da ottenere da un partito perché possa aspirare al riparto dei seggi, sembra faccia incorrere nel pericolo di cristallizzare lo schieramento partitico scoraggiando la formazione di nuovi gruppi, che pure potrebbero essere apportatori di orientamenti benefici, nonché nell’altro di accentuare la tendenza alla moltiplicazione delle correnti in seno ad ogni partito che (come si è notato) è anch’essa fonte non meno grave di immobilismo e di instabilità. Quanto poi all’altro possibile obiettivo le riforme si presentano anche più ardue perché dovrebbero muovere dall’abbandono del sistema proporzionale per l’adozione di altri del tipo uninominalistico. Sono stati prospettati i vantaggi di quello a doppio turno, limitando l’elezione al primo scrutinio solo ai candidati che abbiano ottenuto la maggioranza assoluta, ma sembra da accogliere solo a patto di un’alta partecipazione degli elettori al voto dovendosi cioè richiedere un quorum di votanti. Il ricorso al secondo scrutinio, nel caso che la maggioranza assoluta non venga raggiunta (al quale dovrebbero essere ammessi solo i due candidati che abbiano riportato le più alte votazioni) offre la possibilità della formazione di intese fra ciascuno dei due partiti rimasti in lizza e quelli minori esclusi dalla nuova votazione, intese le quali si presumono suscettibili di prolungarsi oltre il momento della elezione, e così agevolare nella sede parlamentare la formazione di solide coalizioni di governo, dalle quali sarebbe da attendere una maggiore stabilità nella vita del governo. Nulla si può desumere al riguardo dall’esperienza della Francia (rimasta più a lungo fedele al sistema ora richiamato) perché l’esito delle elezioni del 1958, nel senso della riduzione delle ali estreme dello schieramento politico e del concentramento dei voti ai partiti di centro, è da ritenere dovuto all’influenza esercitata dalla personalità di De Gaulle, in quel determinato momento della situazione del paese. Sembra lecito il dubbio se l’adozione del sistema in una situazione diversa, come quella italiana, non esponga al pericolo di una radicalizzazione della lotta politica, per la presumibile tendenza dei voti ad indirizzarsi verso i due partiti più forti, che sono poi quelli in più netto contrasto tra loro. Prima di passare a considerare riforme di più ampio respiro non ci si può esimere dall’osservare come sarebbe assai manchevole l’indagine che ci è stata proposta se si prendessero in considerazione solo i problemi dell’organizzazione dei supremi poteri di direzione politica e si trascurasse la considerazione dell’apparato esecutivo che assume rilievo non minore. Infatti, conseguire un migliore funzionamento degli organi legislativi e di governo varrebbe poco se non si accompagnasse ad esso un’efficiente azione dell’amministrazione. Constatiamo tutti i giorni il penoso fenomeno di leggi, nei settori più importanti e delicati, che non trovano esecuzione, o ne trovano una monca, tardiva, insufficiente così da far venire meno o gravemente pregiudicare i risultati benefici che se ne sarebbero potuti attendere (...).

Passando per ultimo all’argomento intorno al quale più si concentra l’appassionata attenzione dei riformatori, relativo agli strumenti meglio idonei a sottrarre il governo dello Stato all’attuale instabilità, è da osservare preliminarmente come sarebbe illusorio attendere questo risultato dalla semplice adozione, secondo una proposta, di una forma di governo, «presidenziale», o secondo l’altra, della diversa forma di «governo a primo ministro» quale si otterrebbe con il ricorso all’elezione diretta popolare del presidente del Consiglio dei ministri. È chiaro che, se per stabilità si intenda non già la permanenza degli stessi titolari in una carica per una certa durata, ma la possibilità dello spiegarsi di un’armonica e coerente direzione politica per il periodo di tempo necessario al suo svolgimento e sempre che non si vogliano concentrare tutti i poteri in un solo organo, occorre fare i conti con gli altri organi chiamati a collaborare, con il capo elettivo, alle funzioni a lui affidate, specie quando esse riguardino il settore della legislazione e quello della gestione del bilancio per la spesa pubblica. Sappiamo tutti come il regime presidenziale nord-americano riesca a superare, di massima, le difficoltà che nascono dalla diversità degli orientamenti che spesso (come attualmente) si verificano per la coesistenza di un presidente e di un Congresso rappresentativi di partiti diversi: ed è pertanto da chiedersi come ad esse si possa far fronte quando, come da noi, manchino quelle condizioni, costituite dall’assenza di una vera e propria contrapposizione ideologica fra i due partiti in competizione, e sia, perciò stesso, fragile la coesione nell’ambito di ciascuno e non arduo per il presidente in carica provocare (a volte con l’erogazione di favori, a scapito della correttezza della gestione amministrativa) spostamenti di voti a favore delle misure da lui sollecitate.

Elezione simultanea. Superando questa pregiudiziale e passando all’esame delle due soluzioni, non sembra dubbio che la preferenza debba andare alla elezione popolare del primo ministro, ciò soprattutto allo scopo di porre accanto a questo organo responsabile davanti al popolo dell’indirizzo politico di cui è espressione, un capo dello Stato, che non desuma la sua investitura direttamente dal popolo, e quindi non in grado di arrestare l’opera del governo che tale investitura ha ottenuto, ma tuttavia competente ad intervenire, sia provocando arresti temporanei del corso di provvedimenti con richiesta del loro riesame, sia soprattutto giudicando in ordine alla scelta dei possibili modi di risoluzione dei conflitti che insorgano fra il governo e il parlamento. Infatti, non sembra da accogliere la tesi secondo cui, in ogni caso, tale conflitto debba dar luogo a scioglimento del parlamento ed alle contemporanee dimissioni del governo. Certo la logica del sistema che si vorrebbe adottare richiede che i due organi, come sorgono, così cessino contemporaneamente; ma si tratta di vedere se la cessazione debba essere automatica per il semplice verificarsi del rigetto da parte del parlamento di misure considerate dal governo corrispondenti all’indirizzo politico perseguito, o se invece non si renda più opportuno affidare ad un organo neutro e imparziale, come il capo dello Stato, di esercitare un’opera di mediazione rivolta a far superare il dissenso, o comunque sia affidata a lui la scelta del momento dello scioglimento, e quindi consentendo per un certo periodo la permanenza in carica dei due organi pur non più concordanti tra loro: una specie di via mediana fra il sistema direttoriale che prevede in ogni caso la fissità della durata dei due organi supremi (ed in cui pertanto non si avverte l’esigenza d’un capo dello Stato) e quello parlamentare che esige sempre l’accordo fra loro. Ma il punto sul quale preme richiamare di più l’attenzione è quello della predisposizione delle condizioni necessarie alla funzionalità del sistema ora considerato. L’elezione simultanea del capo del governo e del parlamento esige, da una parte, l’approfondimento dei problemi relativi ai sistemi da adottare per la medesima, e dall’altra la ricerca delle misure meglio idonee a prevenire futuri dissidi circa l’attuazione delle direttive sottoposte al corpo elettorale. Sotto il primo riguardo è da ritenere che, salvo il caso dell’ottenimento della maggioranza assoluta a primo scrutinio, debba procedersi ad un secondo scrutinio, ciò per conferire all’investito della carica più elevata dello Stato una base popolare sufficientemente ampia. Quanto poi ai metodi per l’elezione delle Camere, malamente ad esse sembrano prestarsi quelli di tipo proporzionalistico, a meno di non voler ritenere che le coalizioni di partiti, che sembrano rese necessarie in sede di elezione del primo ministro, non si riflettano anche sull’altra elezione, così da accostare in pratica il sistema a quello maggioritario. Si tratta poi di garantire in modo più efficace la permanenza, al di là del momento elettivo, di un accordo di fondo circa l’attuazione dell’indirizzo sul quale si sia riversata l’approvazione della maggioranza popolare. Occorre, affinché si realizzi il beneficio da tutti auspicato di un «governo di legislatura» che le linee fondamentali di quest’accordo siano sufficientemente semplici e ben determinate. Il che potrebbe ottenersi solo se si sottoponga al popolo non già uno dei soliti programmi generici e nebulosi, che di solito si sbandierano in occasione delle competizioni elettorali, ma un piano bene articolato e sufficientemente definito relativo ai problemi da affrontare nella legislatura che va ad iniziarsi, alla scala delle priorità da porre in ordine ad essi, ai mezzi, anche finanziari, ritenuti più congrui per la loro soluzione. E la fedeltà al piano nonché la bontà della sua esecuzione che consentono di far valere la responsabilità di coloro sui quali si è riversata la maggioranza dei consensi, e consentono altresì al corpo elettorale un giudizio consapevole sull’opera svolta alla fine del mandato, ed una motivata convinzione sulle nuove scelte da effettuare.

 

Chi è Costantino Mortati?

Costituente e membro della Commissione dei settantacinque, Costantino Mortati (Corigliano Calabro, 1891-1985) è stato uno dei massimi, se non il massimo, costituzionalista italiano della seconda metà del secolo scorso. Professore emerito nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Roma «La Sapienza», nel dicembre del 1960 venne chiamato dal presidente Gronchi alla Corte costituzionale della quale è stato poi anche vice-presidente. Tra le sue opere maggiori, insieme alla notevole produzione di saggi, articoli e note, testi tutti raccolti poi in quattro volumi nel 1972, si ricordano: Ordinamento del Governo nel nuovo diritto pubblico italiano (1931), La volontà e la causa nell’atto amministrativo e nella legge (1935), La Costituente (1945), La Persona, lo Stato e le comunità intermedie (1959), la voce Costituzione della Repubblica italiana nell’Enciclopedia del Diritto (1962), Atti con forza di legge e sindacato di costituzionalità (1964), Le leggi-provvedimento (1968), il Commento all’art. 1 della Costituzione nel Commentario a cura di G. Branca (1975).

Infine, oltre a quanto già citato – e ad essere anche l’«inventore» del concetto di costituzione materiale (La Costituzione in senso materiale, 1940) che tanto seguito ebbe, e continua ad avere, tra gli studiosi – scrisse due manuali, Istituzioni di diritto pubblico, di cui l’ultima edizione da lui curata è del 1975, e le Lezioni sulle forme di governo, volume del 1973, opere che contribuirono a rendere questo giurista un autentico maestro del diritto.

 

 

Bibliografia

1 Cfr. A. Barbera e S. Ceccanti, La lenta conversione maggioritaria di Costantino Mortati, in «Quaderni Costituzionali», 1/1995. pp. 67-93.

2 C. Mortati, Le forme di governo. Lezioni, Cedam, Padova 1973.

3 Si è ritenuto, infatti, ai nostri fini poco utile inserire integralmente la parte riguardante il problema del bicameralismo in quanto, riprendendo anche quanto già scritto, Mortati si limitava a sostenere la necessità di una riforma – «inutile doppione il senato» – incentrata tutta sulla valorizzazione delle rappresentanze territoriali e di quelle di categoria.

4 C. Mortati, Commento all’art. 1, in «Commentario della Costituzione», a cura di G. Branca, Principi fondamentali, Zanichelli, Bologna 1975.

5 Cfr. C. Mortati, Lezioni, cit., p. 438.

6 Cfr. C. Mortati, Commento all’art. 1, cit., p. 39.

7 Nella Carta costituzionale, come è stato evidenziato, il nostro autore vedeva «una promessa di una società di eguali, armonicamente legati dalla “virtù”, dalla consapevolezza diffusa dei doveri oltre che dei diritti, dall’etica della solidarietà, che era e rimane un ideale inadempiuto». Cfr. G. Amato, Costantino Mortati e la Costituzione italiana. Dalla Costituente all’aspettativa mai appagata dell’attuazione costituzionale, in M. Galizia e P. Grossi (a cura di), Il pensiero giuridico di Costantino Mortati, Giuffré, Milano 1990, p. 239. Per ricostruire gli intrecci e le influenze che incisero sul pensiero di Mortati cfr. F. Lanchester, Costantino Mortati e la dottrina degli anni Trenta, in F. Lanchester (a cura di), Costantino Mortati costituzionalista calabrese, Esi, Napoli 1989, pp. 89-110.

8 Inter alia, dalla soppressione del potere deliberante delle Commissioni parlamentari ex art. 72, c. 3, all’imposizione di un limite all’iniziativa legislativa parlamentare negli ultimi sei mesi prima della scadenza naturale della legislatura, oppure alla soppressione del c.d. semestre bianco.

9 Una via tutta politica – così come delineata da Pierre Mendès France nel suo volume La Repubblica moderna – per portare a termine un indirizzo politico di maggioranza ed ottenere un governo di legislatura. Cfr. P. Mendès France, La Repubblica moderna, Einaudi, Torino 1963, pp. 87-92.

10 Peraltro, «l’adesione di Mortati – all’elezione diretta del presidente del Consiglio, molto sostenuta ad esempio da Antonio La Pergola – fu una sorpresa per tutti e fu un’ulteriore dimostrazione della sua libertà di analisi e proposta», nota Franco Cangini, coordinatore del dibattito e condirettore della rivista. Cfr. A. Barbera e S. Ceccanti, op. cit., p. 81.

11 A. Barbera e S. Ceccanti, ivi, p. 86.

12 Si ringrazia la dott.ssa Paola Realacci della Biblioteca Alessandrina per la cortese collaborazione.