Scuola, misuriamoci con l'innovazione. Da un brutto confronto parlamentare una legge modesta

Written by Vittorio Campione Tuesday, 01 April 2003 02:00 Print

L’approvazione definitiva da parte del parlamento della legge delega proposta da Letizia Moratti, poco dopo il suo insediamento al ministero dell’Istruzione, pone fine al confronto parlamentare meno utile e meno produttivo che ci sia mai stato in materia di politica scolastica. La blindatura del testo, contraddittoria rispetto alle dichiarazioni insistite e non solo di maniera dello stesso ministro, e il contrasto (nei fatti) pregiudiziale da parte dell’opposizione parlamentare hanno reso impossibile ogni forma di contaminazione fra le diverse posizioni.

 

L’approvazione definitiva da parte del parlamento della legge delega proposta da Letizia Moratti, poco dopo il suo insediamento al ministero dell’Istruzione, pone fine al confronto parlamentare meno utile e meno produttivo che ci sia mai stato in materia di politica scolastica. La blindatura del testo, contraddittoria rispetto alle dichiarazioni insistite e non solo di maniera dello stesso ministro, e il contrasto (nei fatti) pregiudiziale da parte dell’opposizione parlamentare hanno reso impossibile ogni forma di contaminazione fra le diverse posizioni. Si può solo sperare che la conclusione della vicenda parlamentare (che peraltro ci consegna un testo largamente enunciativo e tutto da interpretare nel lavoro di stesura dei decreti che andrà compiuto nei prossimi ventiquattro mesi) liberi i parlamentari, l’amministrazione, gli esperti di ogni tendenza, gli enti locali e soprattutto chi nelle scuole opera, da vincoli d’appartenenza veri o presunti, e rimetta in moto un circuito ampio di confronto e di approfondimento analogo a quello che (per almeno trent’anni) ha rappresentato sempre una scelta consapevole in materia di politica scolastica e ha prodotto frutti. Sia la scuola elementare di eccellenza sia l’autonomia scolastica (per citare solo due fra i risultati migliori della stagione riformatrice degli ultimi quindici anni) sono diventati legge e pratica diffusa proprio perché pensati, corretti e verificati in un confronto costante di idee, approcci e posizioni diverse e anche distanti.

Certo la legge approvata è modesta e contraddittoria, e la mancanza di adeguate risorse finanziarie corre il rischio di far rapidamente scivolare la gradualità nell’attuazione verso un sostanziale immobilismo. Rispetto a quanto preannunciato dalla Casa delle Libertà in campagna elettorale, assistiamo al ridimensionamento delle ambizioni modernizzatrici e all’aggravamento della condizione di subalternità dei percorsi di formazione non liceali. Il blocco e la revoca delle decisioni e delle scelte portate avanti dal centrosinistra nella passata legislatura è forse riuscito a saldare interessi corporativi e piccoli gruppi di potere, ma, in assenza di una visione generale, finisce per configurarsi come pura e semplice restaurazione di un ordinamento che viene richiamato in vita malgré tout e di cui nelle scuole si era persa fin la memoria.

È probabilmente anche per questo motivo, che nelle scuole, dopo una fase di sbandamento (dalla sostituzione del ministro Berlinguer alla messa a punto del disegno di legge proposto dal ministro Moratti) nella quale si cercava di capire quale fosse l’approccio riformatore dei governi che si succedevano, è ripartita una fase di iniziativa locale e di settore che è fondata sulle capacità e sulla volontà di affermazione professionale di tanti docenti (e di tante scuole nel loro complesso). Con il passare dei mesi queste iniziative hanno incontrato sempre più frequentemente due rilevanti novità, che a loro volta hanno incoraggiato le iniziative delle scuole: la solidità dei processi di autonomia scolastica e la maggiore (e crescente) attenzione che le istituzioni locali stanno mostrando per i temi della formazione rispetto a quella del governo nazionale. Queste due novità ovviamente si alimentano a vicenda. La riforma del titolo V ha dato rilevanza costituzionale all’autonomia delle istituzioni scolastiche e riorientato le competenze di regioni ed enti locali. Siamo lontani da un insieme di norme già stabili e sperimentate, ma il sentiero è tracciato e si riassume nella fine del ruolo egemone dello Stato centralista in materia di istruzione e formazione. Non so se, a sessanta anni dalla morte di Gentile, questa sia la codificazione della fine dello Stato etico, ma certo affermare che il territorio (con le sue complessità e i suoi soggetti autonomi) deve avere un ruolo strategico nell’educazione delle nuove generazioni non desta più scandalo. E le scuole possono diventare il luogo in cui questo processo si concretizza. Il centrosinistra corre il rischio di commettere un errore di valutazione proprio in questo: pensare di far leva su questi elementi di rinnovato protagonismo delle scuole per usarli semplicemente contro. È sbagliato pensarsi anzitutto come opposizione: l’esigenza che viene da tanta parte della società (e comunque certamente nella scuola) è quella di avere un governo dei processi e dei necessari cambiamenti, non una opposizione che afferma identità e piattaforme alternative. L’autonomia delle istituzioni scolastiche o il rapporto con gli enti locali e le regioni non sono patrimonio di una parte da organizzare contro le azioni dell’altra parte. L’autonomia non è uno strumento di partecipazione da usare per rivendicare democrazia: si tratta di un modello organizzativo da costruire con il territorio, di una realtà che corrisponde ad una esigenza profonda di rinnovamento della scuola in direzione di un punto di vista che vede centrale l’allievo e le sue esigenze come metafora delle esigenze di una società più flessibile e matura.

Quello che è successo in questi anni (cinque? dieci?) è che settori significativi del mondo della scuola e della formazione hanno percepito come fondate le analisi sui cambiamenti dei sistemi di istruzione intese come conseguenze necessarie e sempre più incalzanti delle modifiche della società. Tali analisi quindi hanno cominciato a incidere sull’agire professionale e sui comportamenti collettivi. E processi non dissimili hanno coinvolto anche molti amministratori locali. È accaduto certamente nelle molte esperienze di scuole che hanno avuto una funzione trainante rispetto ad altre (scuole polo, riferimento di sperimentazioni, partecipi di tanti progetti qualità), è accaduto per tanti capi di istituto che non si sono attardati a pretendere (o a contestare) la dubbia qualifica di preside manager e che hanno svolto con serietà il loro ruolo di dirigenti, è accaduto attraverso il costituirsi di tante comunità di pratica che oggi si misurano (proprio nelle specifiche realtà territoriali) con una domanda sociale che le autonomie locali riscoprono il gusto di organizzare. Prima ancora che una attenzione alle (giuste e fondamentali) esigenze di modifica degli ordinamenti e delle metodologie didattiche è nata e comincia a consolidarsi una esigenza più complessiva di riposizionamento dell’intero sistema di istruzione e formazione, un’esigenza che porta a declinare il diritto all’istruzione e alla formazione come diritto a conseguire un risultato e quindi come un obbligo del sistema stesso a mettere l’allievo nelle condizioni di conseguirlo. Matura sempre più la convinzione che molti dei mali del sistema (scarsa efficacia, apida obsolescenza dei saperi impartiti, distanza dalla realtà concreta e conseguente inutilità, per citarne solo alcuni) siano riconducibili al fatto che ’insieme del sistema formativo è pensato separatamente, se non contro, rispetto agli interessi, le aspettative, i sogni delle generazioni che lo attraversano. Ieri un giovane che voleva impadronirsi di un mestiere o di una professione, o anche solo che voleva imparar qualcosa, sapeva di poter trovare nella scuola (anche nella formazione professionale) un aiuto valido e importante. Oggi non è più così: una parte del percorso viene anzi vissuto come una tassa.

La questione è tutta qui: mentre il dibattito politico e parlamentare si è attardato sul tema della durata dell’obbligo scolastico, la discussione nelle scuole e nella società ha cominciato ad essere su come fare per dare una formazione adeguata a dei giovani che (da domani) dovranno stare in un circuito di educazione permanente. Non per recuperare una condizione di drop-out ma perché tutti devono abituarsi a entrare periodicamente in un circuito di tale natura. Organizzare una risposta a queste esigenze si sta traducendo, per quanto riguarda la scuola e la formazione, sempre più frequentemente nel trasferimento a livello del territorio del lavoro di programmazione dell’offerta formativa: mettere allo stesso tavolo le scuole autonome, le autorità locali, le forze sociali, e valutare il modo in cui costruire dei modelli di integrazione che corrispondano alle aspettative, alle possibilità e alle vocazioni dei ragazzi in rapporto con le aspettative, le possibilità e le vocazioni del territorio. Ognuno facendo la propria parte e tutti facendo diversamente da quanto compiuto fino ad ora quando il problema era l’obbligo di istruzione e non il successo nell’istruzione. Per fare avanzare queste esperienze non basta più la vecchia pratica delle sperimentazioni più o meno governate dal centro. Occorrono tre condizioni: indirizzi generali chiari ma flessibili (bisogna raggiungere determinate competenze, ma il modo non si decide al ministero), un investimento e una apertura di credito verso la scuola di base (quello che si costruisce alle elementari e alle medie è il pilastro su cui poggiare tutto il resto), tecnologie didattiche fortemente innovative come strumento per un rapporto interattivo e creativo fra i docenti e gli studenti. Guardare a una prospettiva del genere, significa anche comprendere che alcuni parametri usati in passato quali l’espansione della scuola di massa e la specifica qualità del modello italiano di istruzione secondaria, sono ormai inservibili e vanno sostituiti con la valutazione del tasso di efficacia reale del sistema (come evitare di stare agli ultimi posti nelle graduatorie internazionali, come contrastare il 30% di espulsioni nei primi anni delle superiori) e con la messa a punto di un percorso integrato di istruzione e formazione, accompagnato da orientamento per i giovani e valutazione per il sistema.

È qui che la legge approvata nelle scorse settimane denuncia il suo limite maggiore: se bisogna costruire un percorso formativo che dopo l’obbligo offra al puro percorso scolastico nei licei alternative credibili e attraenti per i ragazzi, che senso ha proporre una legge che elenca ben otto tipi di liceo (tre dei quali da articolarsi poi anche in indirizzi)? Qualcuno pensa che, in questo modo, il percorso della formazione e istruzione professionale potrà guadagnare un solo iscritto? Che senso ha contraddire tutte le esperienze di continuità all’interno del primo ciclo di istruzione accettando una scansione interna fra elementari e medie che pare dettata più da un cantore delle corporazioni separate che non da un legislatore attento al buono che nella scuola si è consolidato in questi anni? Funzionamento delle istituzioni scolastiche, aggiornamento dei profili culturali che per loro tramite vengono trasmessi e corrispondenza a prospettive di alta redditività sociale sono obiettivi che si possono raggiungere solo attraverso l’elevamento della qualità del sistema educativo. Se ieri la sua efficacia si misurava sostanzialmente sulla quantità di connessioni fra elementi cognitivi che era in grado di determinare nei giovani (padroneggiare il sapere, imparare a ragionare), oggi è molto più rilevante imparare ad apprendere.

Altrettanto importante è poi essere messi nelle condizioni di realizzare le proprie vocazioni e valorizzare le proprie attitudini. Tale obiettivo non va inteso solo in relazione alle questioni del lavoro e dell’occupazione. L’apprendimento permanente è finalizzato all’autorealizzazione, alla cittadinanza, all’inclusione sociale, all’adattabilità professionale. E va raggiunto attraverso percorsi di alta qualità. La flessibilità (nel lavoro e negli stessi percorsi formativi) è evidentemente una condizione essenziale per accostarsi a questi risultati. Ma occorre essere consapevoli del fatto che occorre preliminarmente abbattere lo spreco sociale (ed economico) costituito dalla dispersione di centinaia di migliaia di giovani rispetto ai quali il sistema si rivela inefficace. L’esito sarà diverso a seconda che l’accento venga posto sul mito della flessibilità o sulla convinzione che il rafforzamento degli strati sociali più deboli si traduce in un rafforzamento dell’intero sistema paese. È per questo che vanno in primo luogo messe in evidenza la necessità di adottare in modo generalizzato tecnologie multimediali quale strumento per l’apprendimento e quale volano per una diversa organizzazione del lavoro didattico, e l’individuazione di un blocco di saperi essenziali da contenere al massimo per dare ai giovani effettive conoscenze nel campo dei linguaggi, dei codici scientifici, dei principi di cittadinanza, qualificando così la formazione generale e facendola effettivamente divenire il presupposto per ogni formazione specialistica cui pervenire in seguito. In questo contesto la formazione professionale, anche attraverso graduali processi di integrazione con il sistema di istruzione, potrà affermarsi per qualità e superare l’attuale marginalità, e potrà collegarsi in modo efficace con il sistema di istruzione che, viceversa, continua a produrre una dispersione e un tasso di fallimento che rappresentano un costo sociale e umano insopportabili per il paese.

Ci si ostina a non capire, da diverse parti, che il tema dell’istruzione non può essere più tenuto distinto da quello della formazione, che entrambi vanno collegati al tema del governo locale e del rapporto con il territorio, e che tutti quanti hanno a che fare innanzitutto con le questioni del lavoro, dello sviluppo e della competitività del paese. Si teme viceversa che un approccio di questo genere vada a scapito della funzione educativa e inclusiva dei processi di istruzione che invece può realizzarsi solo se verrà perseguito l’obiettivo di un successo formativo corrispondente alle reali possibilità e attitudini dei singoli soggetti. Da questo punto di vista è tipica la discussione che vi fu verso la fine della passata legislatura sulla cosiddetta terminalità degli studi secondari (tecnici e professionali, ma non solo). Non per caso (e a quel punto anche fra i consiglieri del ministero) crebbe e divenne incalzante il rifiuto di dare alla conclusione del ciclo secondario un carattere terminale quasi che così si volesse condannare una parte dei giovani ad un lavoro subordinato rispetto ai più fortunati destinati a un percorso universitario. La ricetta? Dar loro una formazione non conclusiva (ovvero inconcludente) da completare in una università che in questo modo non può che accompagnarne la maggior parte verso la dispersione o verso la disoccupazione (sedicente) intellettuale.

L’errore principale che abbiamo commesso nella passata legislatura è stato, forse, quello di non aver tratto tutte le conseguenze che andavano tratte dall’introduzione dell’obbligo formativo. La convinzione, rivelatasi errata, di avere tempo a disposizione per dare stabilità a un processo che era parso largamente condiviso ci ha impedito di valorizzare con investimenti appropriati e con una normativa adeguata quanto avevamo stabilito negli accordi con le parti sociali e nella legge 144/99. Appesantiti dal conservatorismo dei difensori del liceo classico, anziché capaci di contrastarli con la semplice esposizione della realtà dei fatti, abbiamo definito un ordine di priorità non giusto dando la precedenza alla riforma dei cicli di istruzione anziché all’integrazione e alla definizione di un diverso rapporto fra i diversi soggetti istituzionali che hanno competenze in materia di istruzione e di formazione.

Qualcosa però è accaduto ed è comunque sufficiente a fare delle valutazioni che valgono per guardare avanti. Questi tre anni di applicazione dell’obbligo formativo hanno consentito di avere uno spaccato dei nostri giovani dal punto di vista dei più deboli. Negli ultimi vent’anni, nel corso dei quali si è riformata, di fatto, la scuola superiore attraverso sperimentazioni autonome o coordinate (penso a quasi tutta l’istruzione tecnica, la professionale e l’artistica, oltre agli ex magistrali), la gran parte degli intellettuali italiani, anche quelli che spesso si occupano di scuola, non hanno scritto una sola riga in proposito. Si sono cominciati a scrivere libri o a versare fiumi d’inchiostro solo quando si è paventata la possibilità di toccare i licei. A queste scuole, come sappiamo bene, s’iscrive il 75% di figli di laureati e tutti gli opinion maker nazionali, veri o autoproclamatisi, ritengono di dover santificare questa istituzione. Questa difesa corporativa e alquanto stupida dei licei si è sempre basata sul seguente sillogismo: una scuola è tanto migliore quanto migliori sono i risultati dei suoi alunni, a scuola e nella società, siccome gli alunni che escono dai licei sono i migliori della scuola italiana e vanno ad occupare i più importanti posti nella società, ne consegue che i licei sono le migliori scuole italiane e perciò vanno lasciati così come sono. La conclusione è coerente con le premesse ma, come insegnano…al liceo classico, tutto si regge sull’ipotesi che le premesse siano corrette. Se esse sono errate, qualunque conclusione può essere tratta.

La prima premessa è gravemente errata, perché andrebbe completata con una precisazione che indica la necessità che le scuole abbiano in ingresso la stessa tipologia di alunno. Ai licei gli alunni in ingresso sono quasi tutti in pari (85%) o in anticipo (11%). Solo il 4% è in ritardo ma di un solo anno, mentre nei professionali solo il 42% è in pari e il resto è in ritardo di uno o più anni. Ai licei gli alunni in ingresso hanno per quasi il 55% «ottimo» come giudizio di scuola media e solo il 5% ha «sufficiente»; nei professionali il 95% ha «sufficiente» e il rimanente 5% ha «buono». Nei licei la maggioranza degli alunni (quasi il 60%) ha genitori diplomati o laureati, mentre nei professionali oltre il 90% ha genitori che al massimo hanno la licenza media. Date le premesse le domande da porsi sono esattamente opposte rispetto a quelle che abitualmente troviamo nelle cronache e nei commenti più o meno autorevoli: possibile che con questo «materiale umano», i licei riescono a bocciare una parte degli alunni (oltre il 5% in prima)? Possibile che con questo «materiale umano», i professionali riescano a bocciarne solo il 30%, portandone in ogni caso gran parte ad una qualifica professionale ed oltre metà al diploma? È utile che i migliori giovani della nostra società, che si concentrano nei licei, siano costretti ad interagire solo con certe discipline e comunque non abbiano quasi nessun rapporto con la manualità e la formazione? Siamo sicuri che la licealizzazione dei professionali (così come è stata applicata nei primi anni Novanta e come si ripresenta nella legge approvata che moltiplica i licei e lascia nel vago il rapporto con la formazione), sia una strada utile per questi giovani, così come l’alto numero di discipline e di ore settimanali di lezione?

Molte altre domande potremmo porci e credo che un dibattito sulla scuola italiana e su quali priorità individuare per una politica di riforma debba saper dare risposte adeguate a tali domande già nella fase di definizione dei decreti attuativi della legge Moratti. Il rapporto tra istruzione e formazione è, insieme al successo formativo, il cuore di tutti i problemi e la risposta che si darà ci aiuterà a trovare anche altri riscontri (dal disagio giovanile all’evoluzione del nostro sistema delle imprese). La cultura della formazione può permeare quella dell’istruzione per contrastare l’attuale dicotomia che porta la scuola verso una cultura liceale astratta e libresca e la formazione a disperdersi in mille rivoli poco appetibili e derivanti da logiche assistenziali o da esigenze di consenso (veri e propri ammortizzatori sociali). Istruzione e formazione debbono essere due aspetti dello stesso percorso culturale utilizzati in maniera opportuna e diversificata a seconda della tipologia di alunno o della realtà nella quale ci si trova ad operare. Data la realtà dei numeri (oltre il 98% degli alunni che terminano l’obbligo scolastico decidono di proseguire gli studi), è la formazione che deve entrare nelle scuole ed aprirle a percorsi integrati, tanto più che gran parte di queste ultime si stanno accreditando come agenzie formative.

Tenere bloccata la discussione su un contrasto del passato sulla cosiddetta precocità delle scelte non è utile. Se il governo di fatto continuerà a puntare sui licei (come fa la legge approvata a marzo) e l’opposizione (anziché chiamarlo a rispondere di questo) gli rimprovererà assurdamente di aver ripristinato una divisione classista, prevarranno in entrambi gli schieramenti le posizioni più conservatrici: i sacerdoti di una cultura liceale che (come aveva giustamente intuito Luigi Berlinguer) ha profondamente corrotto generazioni di giovani nel nostro paese educandole a tener distinte e gerarchicamente ordinate conoscenze e competenze, studio e lavoro. A ciò si aggiunga l’aggravante che le riforme costituzionali relative ai poteri delle regioni e delle autonomie locali in materia di istruzione e formazione, fanno sì che le distinzioni all’interno del sistema corrono il rischio di radicarsi ancor di più se fatte corrispondere a una distinzione fra poteri dello Stato magari anche gelosi di competenze e funzioni.

I governi regionali in tutti questi mesi, anziché progettare percorsi che raccogliessero il senso della spinta che veniva dalla esigenza di costruire, in un rapporto fecondo con le scuole autonome, modelli capaci di far fronte a bisogni e aspettative dei rispettivi territori, sono stati prima strattonati dal governo per sperimentare soluzioni quali quelle previste dalla legge in discussione, e adesso posti dinanzi alla scelta fra attendere il completamento di un percorso legislativo e regolamentare tutto da fare (attuazione della riforma del titolo V, devolution, decreti delegati della legge Moratti) oppure navigare a vista con poca possibilità di consolidare, da un punto di vista normativo, esperienze pure assai ricche e significative. Salvo eccezioni tutto ciò si è tradotto in una grande incertezza e in comportamenti assai difformi che non derivano dalle specificità culturali o dalle tradizioni locali ma, spesso, da mera casualità. Se si vuol tentare di avere dei decreti attuativi della legge Moratti che, anziché peggiorare la situazione, si sforzino di recuperare il massimo di potenzialità presenti nelle esperienze sul territorio, occorre favorire un ruolo di regioni e autonomie locali che organizzino un sostegno attivo alle scuole autonome e, assieme con esse, costruiscano percorsi misti di istruzione e formazione, investano risorse in quest’ultima sottraendola a una situazione di marginalità, comincino a ipotizzare con l’aiuto delle tecnologie una diversa organizzazione del lavoro che valorizzi le professionalità migliori e utilizzi gli organici in modo funzionale alla costruzione di modelli flessibili. È evidente che gli indirizzi generali devono venire dal livello nazionale ma, soprattutto in questa fase, la programmazione dell’offerta formativa (che spetta alle autonomie operanti sul territorio) può essere un’occasione per ridisegnare i caratteri di una scuola che ha bisogno di cambiare (e in fretta) per riuscire a corrispondere ai bisogni del paese. Le autonomie, inoltre, sono anche lo strumento ideale per organizzare e coordinare sul territorio un rapporto con tutte quelle forze sociali, culturali ed economiche di cui le istituzioni scolastiche e formative hanno bisogno sia per uscire dalla tradizionale autoreferenzialità, sia per sottrarsi ai rischi tuttora presenti e gravi di neocentralismo.

Le leggi sull’obbligo formativo e sull’autonomia delle istituzioni scolastiche non sono state né revocate né modificate: se i decreti attuativi della legge Moratti riusciranno a stabilire un rapporto virtuoso con quelle norme potrà ancora essere possibile un esito positivo e potranno essere battute le posizioni di quanti puntano a usare la sconfitta che le posizioni riformiste hanno subito per dar vita a una scuola povera di aperture, culturalmente residuale, gerarchicamente controllata e intollerante verso le idee e i comportamenti ritenuti devianti rispetto a un pensiero unico che si definisce liberale ma, nella migliore delle ipotesi, è solo parziale. Perché questo possa accadere, ovviamente, è necessario che le forze riformiste si riorganizzino e si colleghino ed è necessario che denuncino con grande forza il peso che le posizioni revansciste hanno avuto e hanno nello schieramento di governo, tanto da svuotare molte delle istanze di modernità che anche lì si erano manifestate. Una posizione riformista, a mio avviso, non avrebbe nessuna possibilità di essere credibile se nel contempo non si distinguesse nettamente da quel coacervo di azioni protestatarie verso obiettivi inesistenti o errati, di conservatorismi culturali ormai logori e di corporativismo più o meno mascherato. Tutto ciò è stato fin troppo presente nell’azione e nella propaganda di questi due anni, offuscando l’immagine riformista del centrosinistra e soprattutto indebolendo la possibilità di avere (grazie alla somma di un’azione parlamentare mirata a rilanciare aspetti innovativi e di una azione nelle scuole e sul territorio) un risultato che mettesse in evidenza le contraddizioni del campo altrui. A dire solo no, e a dirlo con motivazioni sbagliate, si resta isolati e si perde credibilità.