Il buio oltre la FIAT?

Written by Gianni Toniolo Friday, 01 November 2002 02:00 Print

Alla «Balilla a 4 marce» di mio nonno sono legati i miei ricordi infantili di magiche gite dolomitiche, lungo strade non del tutto risanate dalle ferite della guerra. Cresciuto, non ho mai posseduto un’automobile FIAT, ritenendomi, a torto o ragione, un consumatore razionale. Se pure esiste, tuttavia, questa razionalità non mi rende più facile il parlare di FIAT in modo distaccato, privo di emozioni: forse a causa di quella «Balilla», forse perché ne conosco un po’ la storia, forse semplicemente perché sono italiano.

 

Alla «Balilla a 4 marce» di mio nonno sono legati i miei ricordi infantili di magiche gite dolomitiche, lungo strade non del tutto risanate dalle ferite della guerra. Cresciuto, non ho mai posseduto un’automobile FIAT, ritenendomi, a torto o ragione, un consumatore razionale. Se pure esiste, tuttavia, questa razionalità non mi rende più facile il parlare di FIAT in modo distaccato, privo di emozioni: forse a causa di quella «Balilla», forse perché ne conosco un po’ la storia, forse semplicemente perché sono italiano.

Tutti abbiamo la FIAT un po’ nel sangue. Non si può negare – benché suoni come un messaggio pubblicitario – che per milioni di italiani la FIAT ha significato l’uscita da una povertà millenaria, la raggiunta indipendenza, la realizzazione della libertà di andare senza vincoli. Ha ragione Castronovo quando dice che la FIAT è «un secolo di storia italiana». Storia di capitale industriale e finanziario, a volte chiaroveggente a volte miope, di classe operaia rivoluzionaria e riformista, di tecnologia autoctona e importata, di università al meglio di sé, di politica doganale, fiscale e finanziaria, di faraoniche opere pubbliche e di urbanizzazioni caotiche, di guerre e di effimere conquiste coloniali, di pacifica espansione verso l’est dell’Europa come verso l’ America meridionale.

Guardare la FIAT è un po’ come guardare un ritratto di famiglia: non tutti hanno piacere di farlo. Accanto allo zio che ha fatto fortuna, al nonno professore, all’avvenente sorella troviamo inevitabilmente il fratello bancarottiere, la zia di facili costumi, il cugino che è bene non mostrare in società: ci turba sapere che noi stessi siamo un miscuglio genetico di tutto questo. Aprire l’album della FIAT, nel passaggio difficile di queste settimane, significa guardare diritto in faccia il nostro paese, alle sue virtù, alle sue miserie, alle sue contraddizioni. Arrivati al nodo, probabilmente decisivo della storia della FIAT, ci chiediamo che cosa ci aspetti «dopo». Abbiamo distrutto – senza versare troppe lacrime, senza interrogarci più che tanto sul domani – due gioielli della tecnologia avanzata: l’industria chimica del premio Nobel Natta e la principale impresa di elettronica e calcolatori d’Europa, ma di fronte al «caso FIAT » siamo sgomenti. In un paese diviso su tutto emerge un consenso nazionale: «bisogna fare qualcosa», anche se poi non si sa bene che cosa. L’incertezza sul futuro della FIAT sembra riflettersi sul nostro stesso domani: che cosa ci attende oltre il salto nel buio che molti paventano? Sarà una deformazione professionale ma – sui piani industriale, finanziario, politico e sindacale – la situazione attuale mi pare abbia tutti i caratteri del dejá vu. Il contesto, tuttavia, è per la prima volta diverso: le vecchie, infallibili, ricette non sono facilmente applicabili e, se applicate, hanno minori probabilità di successo.

Se, per tutti gli aspetti accennati sopra, la FIAT è il ritratto di famiglia di noi italiani, lo è in sommo grado per quel triangolo impresa-banca-Stato che è uno dei pilastri della via italiana, e non solo italiana, allo sviluppo economico. Un capitalismo povero di capitali li chiede alla banca, piuttosto che all’asfittico mercato finanziario. La banca si impegna a lungo termine con l’impresa. Quest’ultima cerca, con alterna fortuna, di impadronirsi della prima. In ogni caso, la stabilità del sistema finanziario dipende dalla disponibilità dello Stato di intervenire a rifinanziare le banche, e indirettamente le imprese, in tempo di crisi. L’intervento dello Stato non si limita alle emergenze: in tempi normali offre a imprese e banche la protezione della dogana, il sussidio del contribuente, la legislazione a favore dei «campioni nazionali». È un sistema costoso ma non inefficace di sviluppo nelle condizioni iniziali di arretratezza di paesi come il nostro. Un sistema che, a più riprese, ha trovato una sostanziale concordia di mondi diversi quali quello politico, quello sindacale e quello economico-finanziario. Il costo principale è un incompleto sviluppo della democrazia economica, forse anche di quella senza aggettivi.

La FIAT, nata come si sa nel 1899, viene ben presto sostenuta, salvata, dalla Banca commerciale. Si rafforza e acquista peso con le commesse statali durante la guerra di Libia e per la Grande guerra, pur mantenendo le distanze dalla parte «guerrafondaia» del capitalismo italiano. Agnelli è giolittiano convinto. Durante la guerra e nell’immediato dopoguerra lo scontro è tra lui e gli ultranazionalisti fratelli Perrone dell’Ansaldo. Non c’è solo, né principalmente, il favore politico alla base delle commesse belliche: la FIAT aveva fatto, negli anni immediatamente precedenti la guerra, un grande salto tecnologico. Agnelli era stato a Detroit, aveva studiato e iniziato a importare il sistema della catena di montaggio. È, dunque, partendo da un vantaggio tecnologico già acquisito che l’impresa torinese riesce a trarre il massimo vantaggio dal mercato bellico altamente protetto e caratterizzato da contratti pubblici che non guardano ai costi troppo per il sottile.

Dopo la guerra, sconfitti i Perrone e assicurato il controllo del Credito italiano, il problema della FIAT è quello di non trovarsi con un eccesso di capacità produttiva, di trasformare la produzione da veicoli militari a veicoli civili. L’occupazione delle fabbriche si dimostra, come Gramsci non aveva mancato di avvertire, un boomerang per la classe operaia. Superate le incertezze postbelliche, ripreso il controllo degli stabilimenti, la casa torinese riesce a cavalcare superbamente il boom dei primi anni Venti, raggiungendo una quota del mercato interno superiore all’80% ed esportando circa la metà della propria produzione. Gli altri produttori possono solo dividersi il mercato delle vetture di lusso. Questi risultati sono ottenuti senza sussidi o commesse statali particolarmente ingenti. La grande capacità imprenditoriale di Giovanni Agnelli è certamente alla base di questo successo ma vi è un altro fattore favorevole che emerge per la prima volta e si rivelerà poi a più riprese importante: la svalutazione del cambio. Quando la svalutazione si ferma e Mussolini inaugura la politica del cambio fisso e sopravvalutato (la «battaglia della lira»), è necessario ricorrere nuovamente alla dogana. Volpi fa capire a Mussolini che le grandi imprese italiane possono sopravvivere a «quota 90» solo dietro l’ampio scudo della dogana. Castronovo stima che all’inizio degli anni Trenta il dazio sulle automobili superi il 100%. Ma il favore tariffario non basta: è necessario difendersi anche dalla penetrazione diretta delle case statunitensi. La General Motors crea la Vauxall in Inghilterra e la Opel in Germania. La Ford, anch’essa sbarcata nel Regno Unito, cerca una base nel mercato protetto italiano tramite un accordo con l’Isotta Fraschini. Mussolini interviene personalmente a scongiurare il pericolo: un decreto legge del 1929 dichiara l’industria automobilistica «basilare per la difesa nazionale» e, pertanto, non aperta a produttori stranieri. È il canovaccio di una pièce destinata a ripetersi: quando la svalutazione non è opzione perseguibile, si ricorre alla dogana, al sussidio, all’intervento diretto del governo per proteggere il «campione nazionale» dall’aggressività degli investimenti diretti dei concorrenti esteri.

La FIAT sopravvive alla grande crisi meglio della maggior parte delle grandi imprese. Un po’ per merito proprio, un po’ perché il Credito italiano, la banca di famiglia, meno inviso al regime della Banca commerciale, ottiene sin dalla fine del 1930 un trattamento di favore nell’ambito dei «salvataggi bancari» che portano alla creazione dell’IRI nel quale confluiscono sia le grandi banche sia la maggioranza delle grandi imprese italiane. Le commesse per la guerra in Africa orientale aiutano anche la ripresa della produzione di veicoli. L’impresa si riorganizza. Nel 1939 viene inaugurato il nuovo grande impianto di Mirafiori. Alla vigilia della seconda guerra mondiale, grazie alle proprie indubbie risorse tecniche e umane, nonché al sostegno dello Stato, la FIAT è un’impresa multinazionale, con investimenti in numerosi paesi e una produzione diversificata oltre l’automobile. Completata la ricostruzione, all’inizio degli anni Cinquanta, la FIAT – che continua a godere di una cospicua protezione doganale – detiene circa il 90% del mercato italiano ed esporta quasi un terzo della propria produzione. Il trattato di Roma è accettato senza entusiasmo da Valletta come dalla stragrande maggioranza dei grandi imprenditori italiani. Viene digerito solo perché la fase di transizione prevista è molto lunga, perché vengono introdotte clausole di salvaguardia, perché c’è un impegno implicito del governo ad attuare una politica industriale di sostegno alle imprese nazionali con investimenti pubblici e sussidi alle esportazioni. La storia della motorizzazione di massa negli anni del «miracolo» appartiene, come detto, alla storia non solo economica d’Italia. Miracolosi o meno, gli anni Cinquanta e Sessanta segnano un enorme successo nazionale, del quale la FIAT è sia protagonista sia beneficiario. Nel 1960 la produzione supera il mezzo milione di vetture. Il mito dell’automobile italiana – dal quale deriva il coinvolgimento emotivo di molti di noi con le vicende della casa torinese – nasce o si amplifica in quel torno di tempo. È destinato a durare, come la memoria di quegli anni.

Le chiavi del successo sono in buona misura legate alla capacità del management. Le condizioni al contorno sono tuttavia molto favorevoli. Il cambio è fisso ma, all’inizio, sottovalutato rispetto alla parità di potere di acquisto. Fino al 1962 il costo reale del lavoro non cresce, anche grazie all’enorme mobilità dello stesso. I dazi diminuiscono ma forniscono ancora abbondante protezione, le imprese giapponesi sono del tutto escluse dal mercato. L’IRI costruisce le autostrade, fornisce acciaio e alluminio a prezzi competitivi. La politica monetaria agevola l’accumulazione di capitale fisso. Le banche fanno a gara ad offrire credito a buon mercato. Il governo mantiene un occhio di riguardo, sponsorizza lo sbarco a Togliattigrad. Il «miracolo», come sappiamo, resta in parte incompiuto, più sul piano culturale, istitiuzionale e politico che su quello economico. È forse la sua stessa, imprevista, rapidità a impedire una piena assimilazione del suo significato. Con poche eccezioni, né imprenditori, né sindacati, né mondo politico comprendono le implicazioni della raggiunta piena occupazione: il passaggio da un mondo, millenario, di abbondanza di lavoro a un mondo nel quale la crescita può basarsi solo sul progresso tecnico, sul capitale umano, sulle infrastrutture, su istituzioni che regolino – favorendola – la concorrenza.

Le potenzialità di rinnovamento culturale, politico, economico offerte e postulate dal «miracolo» vengono in parte sprecate. Possiamo speculare all’infinito se la FIAT sia stata vittima di un paese incapace di reinventarsi o se, quale «potere forte», abbia sostanzialmente fallito nel compito di aiutare il paese a reinventarsi. Fatto sta che autunno caldo e shock petrolifero costituiscono un amaro risveglio. Per fortuna, tra i due, è saltato anche il sistema di cambi fissi inventato a Bretton Woods. Nei due decenni successivi si rispolvera il copione di cinquanta anni prima. Svalutazione, crediti agevolati, salvataggi degli istituti speciali di credito e delle grandi imprese. Ristrutturazioni riuscite a metà. Perdita di competitività nel cambio fisso, aggiustamenti di questo periodicamente richiesti e concessi. Contrariamente a quanto era avvenuto tra le due guerre mondiali, tuttavia, questi sostegni non consentono alla FIAT di mantenere le quote di mercato: manca ormai il pilastro della dogana. Le condizioni al contorno, politiche e sociali, sono assai poco favorevoli, soprattutto negli anni Settanta. Il paese, sull’orlo di una crisi estrema, si salva forse anche grazie al patto Lama-Agnelli per il punto unico di scala mobile: quando la casa brucia, qualunque pompiere va bene. Ma i costi a lungo andare sono pesanti.

Perché mai un excursus storico tanto lungo, di fronte a un evento di bruciante attualità quale la crisi del principale campione industriale del paese? Per la consapevolezza che la situazione attuale non è nuova. Le difficoltà della FIAT colgono di sorpresa solo le persone distratte. Ancora una volta, i nodi irrisolti della FIAT sono quelli del paese e viceversa. In un quadro dejá vu, l’accordo con la General Motors costituisce la novità. È frutto di lucida intelligenza: sancisce la consapevolezza – dolorosa quanto si vuole – che le tradizionali «politiche industriali» sono giunte al capolinea. Contrariamente a quanto fecero Costa e Valletta quarant’anni prima, l’azionista di riferimento della FIAT ha non solo accettato ma sostenuto, propugnato, l’avvento del mercato unico, della moneta unica. Non so per quali ragioni l’abbia fatto ma immagino si tratti degli stessi motivi – più politico-sociali che strettamente economici – che hanno indotto molti di noi semplici cittadini a valutazioni analoghe. Non è merito da poco l’avere autorevolmente assecondato, anche a scapito di propri legittimi interessi, un passaggio storico, realizzato dal coraggio dei governi di centrosinistra, la cui importanza per l’Italia non può essere sopravvalutata.

L’azionista di riferimento, tuttavia, ben comprese che euro e mercato unico avrebbero precluso la tradizionale via italiana allo sviluppo della grande impresa e che sarebbero ancora una volta mancate le condizioni, interne ed esterne all’azienda, per inventare una nuova via. L’accordo con la General Motors costituisce la presa d’atto che cambio fisso, libero commercio e divieto di aiuti di Stato hanno creato un mondo nel quale, nelle condizioni attuali, FIAT Auto non può continuare a reggersi sulle sole proprie gambe. Non si tratta, tuttavia, solo di una presa d’atto ma anche della creazione delle migliori condizioni possibili per la sopravvivenza dell’industria automobilistica nel nostro paese. Ci saranno certamente sacrifici occupazionali dolorosissimi. L’impatto emotivo sarà indubbiamente e comprensibilmente forte. Il passaggio è delicato: vedremo come il governo saprà agevolarlo con politiche sociali adeguate. Ma, al di là del guado, la FIAT-GM continuerà a impiegare lavoratori e tecnici italiani e ad acquistare prodotti delle nostre piccole e medie imprese, che già forniscono una quota enorme delle componenti di tante «blasonate» case automobilistiche d’oltralpe. Non è un salto nel vuoto, non c’è alcun buio oltre la FIAT in mani italiane.

La soluzione alternativa alla via d’uscita dalla crisi preparata dall’azionista di maggioranza semplicemente non esiste. Posti i vincoli europei, essa potrebbe consistere solo in un «salvataggio» dell’impresa da parte delle grandi banche, con forti iniezioni di capitale fresco. La storia e la scienza economica sono lì a indicare che si tratterebbe della peggiore soluzione possibile. Non si darebbero all’impresa che pochi anni (o mesi?) di ossigeno artificiale, aprendo le porte a una fragilità finanziaria della quale nessuno sente il bisogno, tanto meno nell’attuale congiuntura. Lasciamo le banche fare le banche, lasciamo loro le risorse per espandersi all’estero se ne sono capaci e lasciamo che l’unione delle tecnologie statunitense e italiana faccia sopravvivere la produzione automobilistica nel nostro paese. Con questo accordo, la FIAT – che, priva dell’automobile, resterà pur sempre una grande e diversificata multinazionale italiana – ha posto le premesse per un rilancio dell’auto: si tratta di assecondare la transizione, non di ostacolarla. Se questo passaggio costituisce uno shock, potrebbe trattarsi di una scossa utile, se non si risolvesse in scarica barili e in espedienti tattici. La FIAT siamo noi: se vogliamo non essere relegati a mercato di consumo periferico per i produttori del «centro» dobbiamo cambiare le nostre priorità, orientarle all’istruzione, alla ricerca, alla formazione di capitale fisso sociale, all’accettazione convinta di una concorrenza regolata in modo semplice, efficace, uguale per tutti. È questa la lezione più importante dell’attuale vicenda di FIAT Auto.