La pregiudiziale antropologica e l'opposizione parlamentare

Written by Cesare Pinelli Saturday, 01 June 2002 02:00 Print

Nelle manifestazioni dei primi mesi dell’anno, il numero dei partecipanti è stato di gran lunga sottostimato dagli organizzatori, e il clima era ovunque sereno e fiducioso. Alcuni riscoprivano, altri sperimentavano per la prima volta un modo di espressione politica che può essere soltanto collettivo, e capace di comunicare passione civile. Tutte le manifestazioni, fossero indette da movimenti, da sindacati, da singoli partiti di opposizione o dall’Ulivo, hanno presentato quelle caratteristiche. Nulla a che vedere con stanchi raduni di reduci, né con una rincorsa demagogica che «una minoranza chiassosa e plateale» avrebbe imposto all’opposizione parlamentare.

Nelle manifestazioni dei primi mesi dell’anno, il numero dei partecipanti è stato di gran lunga sottostimato dagli organizzatori, e il clima era ovunque sereno e fiducioso. Alcuni riscoprivano, altri sperimentavano per la prima volta un modo di espressione politica che può essere soltanto collettivo, e capace di comunicare passione civile. Tutte le manifestazioni, fossero indette da movimenti, da sindacati, da singoli partiti di opposizione o dall’Ulivo, hanno presentato quelle caratteristiche. Nulla a che vedere con stanchi raduni di reduci, né con una rincorsa demagogica che «una minoranza chiassosa e plateale» avrebbe imposto all’opposizione parlamentare.1 Gli autoconvocati dei girotondi hanno cominciato per primi a manifestare e hanno fatto rumore per le contestazioni alla sinistra ufficiale. Ma se dopo lo sfogo di Moretti a Piazza Navona tutto sembrava ridursi a una partita fra intellettuali e dirigenti politici, proprio le manifestazioni indette da partiti e sindacati hanno registrato punte di partecipazione che la tradizionale efficienza delle forze organizzate sicuramente non basta a spiegare. C’è stato, come si dice, un valore aggiunto: l’adesione di moltissimi cittadini, che nessuno può aver mobilitato grazie alla tradizionale militanza. Anche l’opposizione parlamentare può catalizzare consenso, ogni volta che pone l’accento su una questione sentita, dalla giustizia al lavoro, dall’istruzione alla sanità. Se, sugli stessi punti, presenterà proposte alternative a quelle del governo (che però tardano),2 essa potrà intercettare l’opinione dei non pochi elettori della Casa della Libertà che stanno alla finestra, delusi o stanchi di aspettare i miracoli di Berlusconi e Fazio. Questo modo di fare opposizione mi sembra molto più urgente della scelta dei portavoce nelle due Camere e del riassetto dei vertici dell’Ulivo, e non sarebbe ostacolato dalle divisioni interne che si registrano a tale proposito.

D’altra parte, la presentazione di proposte alternative, accompagnata da una buona diffusione dei loro contenuti, non è fare l’«opposizione di Sua Maestà», non contrasta affatto con l’intransigente difesa della legalità costituzionale e ordinaria, delle libertà civili e della democrazia, attraverso l’uso di tutti i canali istituzionali che il nostro sistema mette a disposizione. Una scelta simile presuppone un certo giudizio sullo stato della democrazia italiana, che non va confuso con i discorsi sul regime alle porte. Partiamo piuttosto da quanto l’attuale governo dichiara espressamente: il richiamo alla regola maggioritaria come unico principio di legittimazione: «c’è una maggioranza di elettori che ci ha votato, e alla quale rispondiamo». Ebbene, questo può portare allo svuotamento morbido del senso di libertà e di democrazia nel tessuto sociale. E presuppone un primato su ogni altra istituzione pubblica, da quelle neutrali all’intera rete delle autonomie territoriali, estraneo al sistema costituzionale di una grande democrazia, dove il governo e il circuito maggioritario, nell’esprimere il proprio indirizzo politico, rimangono parti di un sistema di contrappesi e garanzie da rispettare. Su queste cose, la maggioranza parlamentare non risponde ai suoi elettori ma ai cittadini, e il governo è Governo della Repubblica. Lo stile, il linguaggio e soprattutto le concrete scelte politico-legislative di questo governo dimostrano che esso non è, non vuole, e per certi aspetti non può essere all’altezza del ruolo costituzionale che dovrebbe rivestire. Troppo spesso è soltanto un governo di parte, e le leggi che fa approvare rivelano una concezione appropriativa dei beni pubblici.

Questo è il difficile banco di prova dell’opposizione, non i discorsi sul «regime» e sul «resistere», a seguire i quali sarebbe inutile la presentazione di proposte tali da comporre un diverso compiuto progetto politico. Integrare certi giustificati motivi di allarme con l’indicazione di un profilo alternativo significa riassumere l’iniziativa scegliendo un altro gioco.

È una posizione costruttiva rispetto al paese, non al governo, che sarebbe casomai costretto a rispondere. La differenza si coglie chiaramente quando c’è vincolo bipartisan, per ragioni costituzionali (nomine a certe cariche istituzionali) o per la natura delle scelte politiche in gioco (politica estera e politica europea). Per un’opposizione che non si sia fatta trascinare sulla sponda della pura resistenza, le nomine e le altre occasioni bipartisan sono scelte da poter fare alla luce del sole. Nel caso contrario, diventano momenti di grande imbarazzo e di sospetti di occulte connivenze, mentre la maggioranza può fingere magnanimità e senso dello Stato. In altre parole, le risorse per farsi ascoltare non mancano, ma bisogna usarle come si usano tutti i tasti di un pianoforte: dire no ai molti casi di arroganza ma anche precostituire con tenacia un progetto alternativo.3 A questo fine, però, bisogna avere un’idea comune, e un’idea non confusa, dei rischi veri che corre il nostro paese, senza perdere la fiducia nelle risorse di una grande anche se difficile democrazia.

Il pianoforte dell’opposizione non viene ancora usato tutto, e non soltanto per le divisioni e i problemi di visibilità interna alla coalizione. Forse gioca il timore di non apparire abbastanza intransigenti, anche di fronte a chi, come Flores D’Arcais, prospetta «due ipotesi per uscire dalla crisi: l’affermarsi, nella politica, negli affari, nel comune sentire, della cultura della legalità, oppure la sostituzione dei vecchi e screditati partiti di malgoverno con una nuova forma di “primato” della politica, che “garantisca” il potere dai controlli della magistratura e della libera informazione, asservendole o neutralizzandole ».4 Lo scontro vero non sarebbe fra centrodestra e centrosinistra, ma fra i «due partiti trasversali, dell’impunità e della legalità», divisi sui «valori prepolitici intrattabili» della legalità e del pluralismo televisivo. L’inserimento del principio del giusto processo in Costituzione, le proposte della Bicamerale, le vicende del duopolio RAI-Mediaset e del conflitto di interessi sarebbero opera dei «professionisti della politica», cui si contrappongono i difensori dei valori prepolitici intrattabili.5 Nonostante il tentativo di dimostrare l’esistenza di un partito trasversale della legalità con i richiami a Montanelli e a Sartori, discorsi del genere riflettono inconsapevolmente una specie di estraneità verso chi ha votato a destra, e approfondiscono un solco che va oltre le scelte politiche: l’esatto contrario di quanto serve alle buone ragioni della democrazia e della libertà in Italia.

Chi sono, secondo questa diffusa rappresentazione, gli elettori di destra? Sono gente attaccata al denaro e agli interessi materiali, sono il popolo delle partite IVA che per far soldi non si fa scrupolo di violare la legalità, mentre noi siamo per Mani pulite. Loro non discutono il principio d’autorità che si condensa nel capo dell’azienda, noi lo discutiamo anche se siamo lavoratori subordinati più spesso di loro. Ci riteniamo critici e autocritici, leggiamo libri e giornali, mentre loro vedono al massimo qualche telegiornale. Nelle nostre case i libri sono un po’ dappertutto e fanno parte della nostra vita, nelle loro case i libri sono in salotto, intonsi. Noi vediamo alcuni film, loro ne vedono altri. Andiamo ai concerti e a teatro, loro no. Ci vestiamo senza sfoggiare, con voluto understatement, loro ci tengono agli abiti firmati. Se fanno una gita, lasciano per terra le bottiglie vuote che noi raccogliamo per rispettare l’ambiente e noi stessi. Sono un po’ barbari, noi siamo civilizzati. A parte il calcio e la cucina, se ci trovassimo a cena con loro non sapremmo di cosa parlare. Ecco perché, per molti elettori di centrosinistra, è naturale condannare l’operato del governo, è facile criticare le scelte dei dirigenti della loro parte politica, è invece scomodo pensare che gli elettori della Casa delle libertà si siano semplicemente sbagliati.

La divisione fra «civilizzati» e «barbari», o fra i «ceti medi riflessivi» di Paul Ginsborg e i gruppi sociali «non riflessivi», è dunque tutt’altro che trasversale. Originariamente, la divisione non aveva a che fare con la politica. Nasce, si può ipotizzare, con il divorzio fra sviluppo economico e sviluppo culturale, che in Italia è molto antico e assai più forte che in altre democrazie europee, comprese le più recenti. Le ragioni sono in parte note (l’influenza della Chiesa cattolica, la concezione organica dello Stato etico dominante a partire dal Risorgimento) e in parte, credo, da approfondire. Ma è un fatto che, proprio dove Romagnosi e Cattaneo avevano auspicato un «incivilimento» fatto di costanti interazioni fra crescita produttiva e apprendimenti culturali, si aprirà una forbice tra le due vicende. Sviluppo e democrazia, denaro e virtù rimarranno su binari paralleli, e Chabod noterà nelle classi dirigenti «quel volere l’incremento della ricchezza, ma ad un tempo paventarne gli effetti e ricorrere ai vecchi motivi antilusso e anticorruzione», per «una sorta di diffidenza e di paura di fronte allo sviluppo, così rapido e formidabile, della società moderna».6

La politica democratica, da sempre più attenta alla cultura e alla virtù e qualche volta compenetrata con esse, lo sarà a maggior ragione nel secondo dopoguerra, quando si tratterà di educare alla democrazia e integrare nelle nuove istituzioni larghe masse popolari. Ma man mano che il compito verrà adempiuto, i partiti – dalle loro diverse posizioni parlamentari – continueranno a coprire e in parte a pilotare la distanza fra un’accumulazione capitalistica affidata a poche grandi famiglie e lo sviluppo dell’istruzione e della cultura di massa, senza risolvere i problemi che quella distanza già cominciava a porre: il vuoto di investimenti pubblici nella ricerca, la separazione fra università e mondo del lavoro, la scarsa presa delle fondazioni di grandi industrie, l’assenza della cultura del mercato, un regime televisivo che da monopolistico diventa per metà far west per poi approdare stabilmente al duopolio. Venuto meno il collante dei partiti del secondo dopoguerra, avviato il bipolarismo, il divorzio tra economia e cultura diventerà socialmente visibile, si potrà tradurre in cleavage fra rappresentazioni collettive e comportamenti elettorali.

Da questo punto di vista, si può dire che il nuovo sistema elettorale abbia liberato una molla a lungo compressa. Da allora, una parte della società italiana potrà sognare e sarà sollecitata a sognare la rivincita nei confronti dello Stato, dei partiti e di una cultura ufficiale percepita come paternalistica. Segnerà così la differenza con l’altra parte, fino a ostentare un individualismo di massa molto attento al particulare e tipicamente italiano, diverso da quello del ceto medio attivo nei servizi finanziari che sotto i governi Thatcher e Reagan avviò la globalizzazione, eppure rimase compenetrato dei rispettivi valori nazionali.

Alla rivolta antipaternalistica – dove i padri sono i rappresentanti, i partiti, la classe politica – il centrosinistra ha per lo più opposto una «cultura del limite» e delle «regole», sul presupposto che libertà non è fare ciò che si vuole senza rispettare gli altri. E, quando ha esercitato responsabilità di governo, ha espresso questa posizione su temi cruciali, dal risanamento finanziario all’ambiente, dall’immigrazione alla par condicio nell’accesso ai mezzi di comunicazione politica nelle campagne elettorali. Il centrosinistra ha imparato a distinguere fra situazioni monopolistiche e competitive e a privilegiare queste ultime sotto la spinta di potenti fattori esterni quali l’UE e la formazione di mercati finanziari globali. L’apprendimento ha avuto successo, si è tradotto in scelte di indirizzo che hanno raggiunto gli obiettivi macroeconomici prefissati. Non ha lenito, però, i problemi di identità dei suoi protagonisti politici. Proprio perché quei fattori erano esterni, è rimasta immutata sotto una coltre di parole la convinzione che la distinzione fra Stato e mercato sia sempre più decisiva di quella fra monopolio e concorrenza. Ma se il regime concorrenziale rimane un puro insieme di regole da introdurre per uno stato di necessità, non se ne riusciranno mai a percepire i vantaggi per i singoli e per il benessere collettivo.7

Altri esempi. Il centrosinistra ha cercato di impostare i discorsi sulla par condicio, sul finanziamento della politica, sul regime giuridico dei mezzi di comunicazione televisiva nei termini di una dicotomia irriducibile fra divieto e libertà da qualsiasi vincolo, o tra sovvenzione statale e regime puramente privato. Come se non vi fossero strade diverse, capaci di regolare senza mortificare la partecipazione individuale alla vita pubblica e il pluralismo televisivo. La cultura del limite e delle regole, sacrosanta in quanto tale, non riesce da sola a fare una politica. In questo caso, rafforza anzi l’impressione di un eccesso di razionalità, di mancanza di passione politica. Difficile un esito diverso, se al rifiuto della regolazione mosso da pulsioni primitive si oppone puramente la regolazione delle libertà. Si può intuire a chi si riferisca Remo Bodei quando invita i politici a guardarsi da due errori specularmente opposti: credere che le idee e i programmi avanzino per merito esclusivo della loro bontà o della loro evidenza, e fare pura propaganda, priva di argomenti e tuttavia capace di toccare corde profonde di aspirazioni e sentimenti muti ma diffusi.8 E si può andare oltre, ipotizzare che alle due attitudini corrispondano, nell’elettorato, modi diversi se non opposti di stare insieme, dovuti a stratificazioni sociali e culturali di lungo periodo. Tutto questo non significa guardare con sospetto la società italiana. Al contrario, invita a chiedersi come mai essa sia cresciuta nonostante il divorzio tra sviluppo culturale e accumulazione che ha continuato così a lungo a caratterizzarla. La questione non è solo di ordine storico. Siamo certi, infatti, che le nuove condizioni di malessere democratico in cui ci troviamo vengano percepite soltanto dall’elettorato di opposizione? Se così fosse, il malessere dovrebbe già dirsi irreversibile. È vero che «regime» non equivale necessariamente ad uso della forza a fini autoritari. Ma proprio per questo, quanti già parlano di regime non si accorgono di rassegnarsi ai tentativi di svuotamento delle libertà e della democrazia più di quanto non vi si ribellino. Presuppongono che la maggioranza degli elettori italiani, non abbastanza «riflessivi» o «civilizzati», sia disposta costantemente a seguire un capo, indifferente a qualunque svuotamento: una specie di pregiudiziale antropologica, che va molto oltre le analisi sui distorti processi nazionali di modernizzazione. Sono in gioco questioni di principio e valori indisponibili, che riguardano la stessa convivenza costituzionale. Ma l’intransigenza su tali questioni non significa perdere la fiducia nei cittadini italiani, e nella loro capacità reattiva.

 

 

Bibliografia

1 Editoriale, Vi siete sfogati?, in «Il Foglio», 11 maggio 2002.

2 Tempestivo il documento Amato-Treu su I diritti del lavoro. Princìpi e indirizzi sui nuovi diritti e le nuove tutele, in «Italianieuropei», 2, 2002, 35 sgg.

3 In questo senso M. Pirani, Ma è una destra che viene da lontano, in «Italianieuropei», 1, 2002.

4 P. Flores D’Arcais, Undici riflessioni sui movimenti, in «MicroMega», 2, 2002, p. 26.

5 Ibidem, p. 28 sgg.

6 F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1871 al 1896, Laterza, Bari 1971, pp. 407-408.

7 G. Amato, Il gusto della libertà. L’Italia e l’Antitrust, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 19.

8 R. Bodei, Passioni politiche, in AAVV, La politica, perché? Riflessioni sull’agire politico, Donzelli, Roma 2001, p. 29.