Di fronte all'orrore, una moralità umanizzata

Written by Remo Bodei Monday, 01 April 2002 02:00 Print

Nei paesi anglosassoni le discussioni di etica vengono distinte in thick e thin, spesse e sottili. Le prime si richiamano alla densità di esperienze specifiche, alla differenza delle situazioni in cui ci si trova ad agire, alla varietà delle tradizioni e dei costumi, al mutare dei valori nel corso della storia. Le seconde pretendono di risalire a pochi principi universali validi per l’intera umanità in ogni tempo e in ogni luogo. Il vantaggio di quelle è la concretezza delle analisi, mentre il rischio è il relativismo; il vantaggio di queste è la presenza di saldi punti di riferimento, mentre il rischio è costituito dall’astrattezza, dallo svanire della specificità delle situazioni e dei condizionamenti.

 

Jonathan Glover Humanity. Una storia morale del ventesimo secolo, Il Saggiatore, Milano 2002

 

Nei paesi anglosassoni le discussioni di etica vengono distinte in thick e thin, spesse e sottili. Le prime si richiamano alla densità di esperienze specifiche, alla differenza delle situazioni in cui ci si trova ad agire, alla varietà delle tradizioni e dei costumi, al mutare dei valori nel corso della storia. Le seconde pretendono di risalire a pochi principi universali validi per l’intera umanità in ogni tempo e in ogni luogo. Il vantaggio di quelle è la concretezza delle analisi, mentre il rischio è il relativismo; il vantaggio di queste è la presenza di saldi punti di riferimento, mentre il rischio è costituito dall’astrattezza, dallo svanire della specificità delle situazioni e dei condizionamenti.

Malgrado il titolo così generale, Humanity, il libro di Glover è decisamente thick. Partendo dalla convinzione che «il compito principale della filosofia del XX secolo è dar conto della storia del XX secolo» (p. 511), procede a un esame serrato degli orrori che hanno costellato la storia del Novecento e dei dilemmi etici che hanno suscitato nei soggetti direttamente coinvolti e in chiunque, in maniera retrospettiva, consideri gli avvenimenti. Mosso dal timore di evitare che i comportamenti morali si cristallizzino nella purezza di leggi astratte, egli si richiama, nel suo modo di fare filosofia, a lontane radici socratiche: «Vi è spazio per i filosofi che trattano questioni altamente astratte come se fossero autonome, a se stanti. Ma se ciò diventasse la norma, sarebbe dannoso. La filosofia non farebbe più da ostacolo alla fede cieca e irrazionale. E non influenzerebbe la vita di alcuno. La voce di Socrate non giungerebbe più a turbarci» (p. 473). Ammesso che a guidare le nostre scelte non esistano più comandamenti assoluti, provenienti dall’esterno, che ogni sostegno fisso sia venuto a mancare («Dio è morto») e che tutto il peso delle decisioni si scarichi sugli individui e le società, «allora bisogna umanizzare la moralità, fondandola sulle necessità umane e sui valori umani e tra questi, ovviamente, può essere inclusa la cura per altre specie viventi. Così intesa la moralità diventa sperimentale, esplorativa e in parte empirica. Esplorativa sul modello della ricerca socratica (…). Ma l’etica è esplorativa anche in modo diverso, più empirico, ossia con il considerare le conseguenze derivanti dal vivere un codice etico o una serie di valori universalmente riconosciuti. I disastri provocati dagli uomini dimostrano la necessità di ripensare il problema dei valori» (p. 505).

Occorre dunque descrivere le premesse della condotta morale, cercando nello stesso tempo soluzioni praticabili, ma commisurate alla magnitudine dei problemi e alla dimensione dell’«umanità», nel doppio senso della specie umana e della dignità che le compete. Questo vale soprattutto oggi, dopo che la fede nei principi morali, ancora viva all’inizio del XX secolo, è stata, contro ogni iniziale aspettativa, abbondantemente erosa e dopo che la tecnologia – mediante la morte in serie dei campi di sterminio, dei gulag o delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki – ha moltiplicato e burocratizzato quelle atrocità che, nel corso dell’evoluzione umana, ci sono peraltro sempre state. Al posto di leggi universali, è necessario attingere nuovamente, rafforzandole, a quelle «risorse morali» depauperatesi nel corso del XX secolo.

Si può cominciare questa ricerca «empirica» ponendo domande semplici, ma inaggirabili: «Quali sono le limitazioni delle risorse umane? Come possiamo cominciare a superare queste limitazioni? Quali aspetti della nostra psicologia sono pericolosi? In che misura possono essere cambiati o tenuti a freno? Quali controtendenze positive stimolare?» (p. 66). Le religioni, che hanno costituito una grande riserva di risorse morali, non sono più un solido punto di riferimento per miliardi di persone, così che bisogna trovare nell’umanità stessa le sorgenti dell’agire secondo giustizia e compassione. Compassione, appunto, come antidoto a quella durezza, che ha caratterizzato l’età dei totalitarismi, facendo sì che Hitler si definisse «l’uomo più duro che la nazione tedesca abbia avuto da molti decenni, forse da secoli a questa parte», Džugašvili si facesse chiamare Stalin («uomo d’acciaio»), Rozenfeld Kamenev («uomo di pietra») e Skrjabin Molotov («martello»). Una durezza che mina alle fondamenta la coscienza morale e che non è scomparsa con la fine del nazionalsocialismo e dello stalinismo. Scelgo due tra i tanti casi ricordati da Glover. Uno si riferisce a un sergente istruttore dell’Armata Rossa che, nel periodo dell’invasione dell’Afghanistan, ordina ai suoi soldati: «Ripetete dopo di me! Che cos’è un parà? Risposta: un bruto sanguinario con il pugno di ferro e senza coscienza! Ripetete dopo di me: la coscienza è un lusso che non possiamo permetterci!» (cit. p. 76). L’altro è quello relativo al comportamento bestiale dei soldati americani nel Vietnam, quando – il 16 marzo 1968 – non riuscivano più a smettere di uccidere e di torturare la popolazione del villaggio di My Lai. Allora l’unione paradossale della rottura della disciplina militare e l’abitudine all’obbedienza produssero la strage, le cui motivazioni vengono così riassunte dalla confessione di un soldato americano: «Ho perso la testa…è andata così…Una volta cominciato,… l’addestramento, tutta quella parte dell’addestramento che spiegava come uccidere…insomma, saltò fuori» (cit. p. 89). Chi è abituato a vivere lontano dai drammi e dai conflitti dimentica, di norma, come nell’uomo si annidi il piacere della crudeltà, come per i combattenti delle due guerre mondiali, «malgrado l’orrore, la stanchezza, il lerciume, l’odio, il prender parte con altri alle sorti di una battaglia aveva il suo aspetto indimenticabile, che nessuno di loro avrebbe voluto perdere».1 Queste tendenze, da riconoscere senza infingimenti, si devono contrastare facendo leva sui sentimenti e le idee antagonistiche: alimentando la ripugnanza dinanzi ad atti di crudeltà; il disprezzo di fronte ad atteggiamenti meschini ed egoistici, il rispetto e l’ammirazione, dinanzi al coraggio e alla generosità. Su questa base di rivitalizzazione dei rapporti umani elementari si possono poi, per Glover, innalzare relazioni etiche più complesse.

Alle origini teoriche della distruzione sistematica della moralità, Glover ritrova un Nietzsche privo del cappello frigio rivoluzionario che negli ultimi decenni gli è stato posto anche per difenderlo (in parte giustamente) dall’appropriazione compiutane dai nazionalsocialisti. Un Nietzsche che, secondo le parole di Jean Améry, era «l’uomo che sognava una sintesi di bruto e superuomo» e che, con i suoi progetti di creazione di una nuova specie di dominatori, apre la strada a inaudite e disumane forme di violenza. È infatti il filosofo che, in Al di là del bene e del male, predica l’avvento di un’aristocrazia in grado di accettare «con animo del tutto tranquillo il sacrificio di innumerevoli uomini che, nell’interesse dell’aristocrazia stessa, devono essere soppressi o ridotti a subumani, schiavi e strumenti». E poiché il cristianesimo, la democrazia e il socialismo hanno rimpicciolito gli uomini, facendone animali gregari, domestici, di allevamento, è ora che i migliori tra loro ridiventino splendidi animali da preda, «bestie fulve» (non «bionde», come spesso s’intende, ossia uomini di razza ariana), leoni che assaltano le mandrie umane. Per i deboli, i malriusciti, i falliti e i degenerati non vi è scampo: devono essere schiavizzati o eliminati. In proposito, le affermazioni di Nietzsche sono inequivocabili, come in questo aforisma tratto dai Frammenti sulla volontà di potenza: «la grande maggioranza degli uomini non ha diritto all’esistenza, poiché sono una iattura per gli esseri superiori. Non concedo il diritto di esistere ai falliti, poiché ci sono anche coloro che falliscono» (La volontà di potenza, aforisma 872). E ancora nell’Anticristo: «I deboli e i deformi dovranno perire: questo il principio primo della nostra filantropia. E si dovrà favorire che ciò avvenga».

Eppure, anche nelle guerre più feroci, la disumanità non costituisce un destino. Sebbene vengano messi in opera meccanismi di difesa per acclimatare i combattenti all’orrore e per attutire il loro senso di responsabilità (l’uccisione a distanza del nemico o la sua trasformazione in animale repellente, scarafaggio o scimmia), i sentimenti di umanità finiscono talvolta per prevalere. È il caso di Orwell, che, durante la guerra civile spagnola, non sparò a un soldato franchista che fuggiva tenendosi i pantaloni mostrando, con questo semplice gesto, di partecipare a una comune umanità che ha umili bisogni fisici, oltre che nobili ideali. Contro l’inaridimento e la desertificazione dell’umanità, molto – più di quanti si pensi – sono i possibili atti di ribellione o di rifiuto ad essere coinvolti. Grandi e piccoli. Grandi, come di chi resiste alla tortura, appellandosi a energie interiori («C’era una parte di me che non avrebbero mai potuto piegare, né violentare, né togliermi. Fu una sensazione del mio essere più grande, del mio semplice io che m’invase e restò in me nelle ore più buie»). Piccoli, come quei gesti che mostrano come la pietà non è morta: condividere l’ultima sigaretta con un condannato, sfidando l’ira e le ritorsioni dei superiori, comportarsi come gli abitanti – di antica fede protestante – del villaggio francese di Le Chambon, che protessero e accolsero tutti gli ebrei e dove la campanara Amélie rifiutò di suonare le campane in occasione delle cerimonie pubbliche che, sotto Petain, si organizzavano a Vichy. Ogni atto di generosità umana che travalichi le barriere di gruppo o di popolo è un tributo all’umanità: «In Israele, David Grossman ricordava come, quando oltre cinquanta israeliani restarono uccisi in un attacco suicida di Hamas, un amico palestinese lo chiamasse al telefono da Ramallah offrendosi per donare sangue ai feriti» (p. 199). Vi è una genealogia del male, come del bene, con una filiera di azioni che servono da addentellato alle successive. Durante la «grande guerra», il blocco navale contro la Germania (e attualmente, si potrebbe dire, il blocco economico contro l’Iraq) abbatte la barriera che impedisce la morte in massa dei civili, preparando così la strada ai bombardamenti a tappeto delle città inglesi e tedesche nel secondo conflitto mondiale e alle bombe atomiche in Giappone. Occorre «immaginazione morale» per prendere decisioni che coinvolgono i destini del mondo. Mancò nel 1914, quando la guerra scoppiò per un fraintendimento delle reciproche intenzioni delle cancellerie e degli stati maggiori europei. Vi fu, invece, nel 1962, durante la crisi dei missili a Cuba, quando Kennedy (e poi Chrusciov) pensarono responsabilmente alle disastrose conseguenze di uno scontro nucleare su tutto il pianeta, su belligeranti e neutrali. Aggiungerei che forse nessun capo politico al mondo ebbe prima di allora una tale mole di informazioni come Kennedy, ma che esse non erano sufficienti a offrire una certezza sugli esiti di qualsiasi mossa. Il blocco navale fu un rischio ponderato, ma effettivo.

La triste contabilità dei morti nei conflitti del Novecento (sino a Pol Pot o ai genocidi nel Ruanda) non darebbe cifre così elevate, se lo sterminio degli avversari non fosse motivato da ragioni ideologiche. Ha scritto acutamente Aleksandr Solženicyn in Arcipelago Gulag che «le autogiustificazioni di Machbeth erano deboli, e la coscienza lo divorava. Sì, anche Iago era un agnellino. L’immaginazione e la forza spirituale degli operatori del male shakesperiani si fermavano di fronte a una decina di cadaveri. Perché non avevano ideologie». Le ideologie distruggono, infatti, le risorse morali dell’individuo, lo piegano all’obbedienza più cieca nei confronti dei loro dogmi, proprio nei momenti in cui occorrerebbe maggior capacità di giudizio e più robusta autonomia di condotta. La fede acritica nei capi e l’abbandono di un concetto di verità logicamente ed empiricamente controllabile mediante procedure pubbliche è qui esemplificata attraverso l’affermazione del comunista britannico Palme Dutt di fronte al patto Ribbentrop-Molotov: «Compagni, un comunista non ha opinioni personali. Ossia, non ha una sancta sanctorum di opinioni personali che mantiene al di fuori del pensiero collettivo e delle decisioni collettive del nostro movimento» (p. 344). Aggiungo, di nuovo, che episodi analoghi non sono assenti neppure tra la più illuminata cultura italiana del secondo dopoguerra. Ricordo solo una lettera che il filosofo Remo Cantoni inviò a Banfi il 4 settembre del 1949: «Tu scrivi che non essere comunista è morire». Eppure, «l’esigenza di far blocco, fronte, massa, di non prestare argomenti agli avversari, uccide ogni giorno di più lo spirito critico, il senso storico. Marx, Engels, Lenin, Stalin, vengono adorati come dei santi, come degli autori il cui pensiero non è minimamente criticabile, essendo collocato in una sfera di verità intoccabile. Non ho mai, dico mai, trovato uno scrittore comunista che abbia avuto la sincerità di dire: qui mi pare che Marx, o Lenin, o Stalin, sia incorso in errore; – questo pensiero di Lenin è smentito dall’esame dei fatti, o qualcosa di simile». Tale obbedienza ai dettati ideologici, che trasforma gli uomini in materiali da costruzione per una nuova società e che produce enormi disastri (come la carestia provocata dal Grande balzo in avanti che, tra il 1958 e il 1962, costò la vita a venti-trenta milioni di persone), va per Glover contrastata ricostruendo l’identità morale, consolidando le deboli difese, le già scarse riserve di umanità del singolo, la sua vacillante determinazione a resistere.

Un compito immane e apparentemente assurdo, di fronte alle atrocità del secolo appena trascorso. Anche perché viene il terribile sospetto – cui ha dato voce Solženicyn – che «in fondo è solo per il modo in cui sono andate le cose che gli altri sono stati gli assassini e noi non lo siamo stati». La nostra mancanza di educazione morale non è stata dunque messa alla prova soltanto perché abbiamo incontrato circostanze favorevoli? Certo, noi non possiamo decidere completamente della nostra educazione e della società e dei tempi in cui – senza la nostra volontà – veniamo a trovarci. Ma proprio per questo diventa ancora più urgente provvedere all’incremento delle risorse morali e alla formazione di anticorpi contro i morbi che colpiscono il senso di umanità (costruzione fragile ma essenziale se non si vuol ricadere nella barbarie). Questo libro – analiticamente ricco e avvincente nell’attraversare, pensandola, la tormentata storia del Novecento, per quanto meno argomentato a livello teorico – rappresenta un notevole aiuto anche per riflettere sui compiti che attendono una politica all’altezza del presente.

 

 

 

Bibliografia

1 G. G. Gray, The Warriors: Reflections on Men in Battle, New York 1959, pp.44-45.