Televisione: chi ha paura del cittadino-consumatore?

Written by Gad Lerner Monday, 01 April 2002 02:00 Print

È almeno dal 1994, cioè dalla prima vittoria elettorale di Silvio Berlusconi, che in Italia si discute accanitamente sul peso reale che l’invadenza del mezzo televisivo esercita nella competizione politica, di cui viene spesso denunciato non più solo il condizionamento (com’è ovvio) ma addirittura lo stravolgimento via etere. In particolare a sinistra è diffuso il rimpianto per l’epoca in cui i cittadini-elettori non si lasciavano troppo influenzare dalle suggestioni del piccolo schermo domestico e – per così dire – «ragionavano con la loro testa». Una sorta di bel tempo che fu in cui la politica organizzava le appartenenze culturali e gli interessi sociali, e dunque la sinistra poteva interpellare con messaggi razionali di volta in volta la coscienza del cittadino-democratico e la sensibilità del cittadino-lavoratore.

 

È almeno dal 1994, cioè dalla prima vittoria elettorale di Silvio Berlusconi, che in Italia si discute accanitamente sul peso reale che l’invadenza del mezzo televisivo esercita nella competizione politica, di cui viene spesso denunciato non più solo il condizionamento (com’è ovvio) ma addirittura lo stravolgimento via etere. In particolare a sinistra è diffuso il rimpianto per l’epoca in cui i cittadini-elettori non si lasciavano troppo influenzare dalle suggestioni del piccolo schermo domestico e – per così dire – «ragionavano con la loro testa». Una sorta di bel tempo che fu in cui la politica organizzava le appartenenze culturali e gli interessi sociali, e dunque la sinistra poteva interpellare con messaggi razionali di volta in volta la coscienza del cittadino-democratico e la sensibilità del cittadino-lavoratore.

Dubito che le cose funzionassero davvero così nel contesto della guerra fredda e delle grandi controversie ideologiche, ma qui poco importa. Non vorrei, infatti, indugiare ancora sulla controversa relazione fra scelte elettorali e maggiore o minore visibilità televisiva delle forze politiche, delle loro issues e dei loro leader. S’intravede piuttosto una questione di fondo connessa a quel rimpianto del bel tempo che fu, ovvero l’epoca della Buona Politica libera di manifestarsi senza il malefico influsso della Grande Semplificatrice. Ricordo otto anni fa lo sdegno accorato di Norberto Bobbio che, di fronte alla conquista del governo da parte di Berlusconi, sembrava quasi alzare le mani in segno di resa, denunciando una sorta di mutazione antropologica sottostante al vittorioso bombardamento degli spot elettorali di Forza Italia: cittadini ormai vittime di un incontenibile analfabetismo di ritorno, chiamati a votare per la pubblicità meglio confezionata, poiché le diverse opzioni politiche venivano loro imposte tramite gli stessi meccanismi suggestivi con cui abitualmente si incoraggia l’acquisto di questa o quella marca di saponette.

Come è noto, l’arte del venditore televisivo consiste nell’intercettare il consumatore per poi indurgli un bisogno che non sapeva di avere, fino a renderlo impellente e a trascinarlo all’acquisto di un prodotto di cui sia possibile programmare inoltre una rapida obsolescenza. Così, del resto, si configura fin dalla sua nascita la missione primaria della televisione commerciale: è proprio attraverso una nuova, rivoluzionaria organizzazione merceologica dei bisogni e dei consumi, che la televisione ha imposto la sua centralità, imprenditoriale prima ancora che culturale, nell’economia di mercato. A tal punto che ormai da tempo neppure le televisioni di proprietà pubblica, pur avvalendosi del canone, possono illudersi di sopravvivere rinunciando a competere con i network privati nella raccolta pubblicitaria, se vogliono procurarsi risorse sufficienti a produrre programmi di alto ascolto. Troviamo qui anche una spiegazione – non l’unica – al perché siano nate in passato diverse radio private di natura politica militante, mentre tale fenomeno non si è verificato in campo televisivo. Del resto sarebbe impensabile che una TV espressione di una forza politica trovi la capacità autonoma di riempire, anche sul piano strettamente culturale, un palinsesto quotidiano nel quale la fiction, lo sport, lo spettacolo, i collegamenti via satellite, la trasmissione di immagini provenienti dal resto del mondo, s’impongono come necessità imprescindibile.

Mi scuso se ho elencato tutta questa serie di banalità prima di affrontare la questione che considero dirimente: cioè la persistenza a sinistra (più ancora che nel mondo cattolico) di una concezione della TV come strumento di per sé nemico, una sorta di mezzo diabolico nei confronti del quale al massimo sarebbe necessario escogitare degli antidoti per limitarne i danni. Di volta in volta tali antidoti consistono – quando il quadro politico lo permetta – nell’occupazione di posti di potere nella televisione pubblica; o in subordine nella conquista di una sua rete e di un suo telegiornale, sia pure minoritari rispetto alle reti con più ascolto; o infine in incursioni corsare affidate al linguaggio della satira e a singole personalità particolarmente efficaci nella pratica della controinformazione.

In ogni caso si tratta sempre di attuare delle «rotture» culturali in contraddizione con la logica e i meccanismi connaturati a un media che si rivolge in primo luogo al cittadino-consumatore. Lo conferma il fatto stesso che – con poche eccezioni, per lo più rivolte a target specifici e minoritari – anche gli operatori televisivi di sinistra, quando hanno assunto la direzione della TV pubblica, da un lato hanno incoraggiato alcune produzioni d’informazione e intrattenimento culturalmente mirate, conseguendo anche ottimi risultati; ma dall’altro hanno sempre rinnovato la consuetudine dei programmi «nazionalpopolari» di basso livello, ritenuti di maggiore appeal per gli investitori pubblicitari. Non aveva torto chi ricordava, nel corso della recente polemica sulle nomine RAI, come la carriera del nuovo direttore generale Agostino Saccà sia stata inizialmente sostenuta in una logica bipartisan. Cito Saccà perché si tratta del tipico manager televisivo che teorizza l’inevitabilità di uno spregiudicato mix tra produzione «alta» (poca) e produzione «bassa» (molta). Una tale concezione non ha incontrato obiezioni sostanziali a sinistra. Non a caso un altro interlocutore privilegiato della sinistra nel campo della progettazione televisiva è sempre stato Maurizio Costanzo, maestro della TV rassicurante nella quale impegno e disimpegno trovino di volta in volta la combinazione adatta alla congiuntura. Alla fine tutti i dirigenti televisivi sono convinti che non si debbano sprecare risorse nell’inutile sforzo di elargire troppe perle ai porci. Tanto vale dare al pubblico ciò che il pubblico si merita. È su questo terreno che l’imprenditore Berlusconi, mago del marketing, vinse la sua battaglia televisiva ben prima di vincere la sua battaglia politica. Puntando sempre al bersaglio grosso, non dimenticando mai lo scarso livello di scolarizzazione del suo pubblico, anzi, ostentando indifferenza nei confronti dei raffinati, degli ipercritici, e di tutti coloro che accampano pretese intellettuali. Mostrarsi complici dell’ignoranza, senza mai colpevolizzarla, e semmai piegarla a proprio vantaggio: questa è sempre stata la regola d’oro di Berlusconi, sia quando si trattava di selezionare un programma di «evasione», sia quando si tratta di lanciare un messaggio politico. Potremmo quindi affermare che è proprio nella sua concezione del prodotto televisivo che Berlusconi ha espresso con maggiore coerenza e radicalità quel tratto «liberista» e «americano» che invece ha contraddetto comportandosi da monopolista sul mercato delle frequenze, della raccolta pubblicitaria, e infine nella sua attuale politica economica.

Se dunque volessimo trasferire per un istante sul terreno dei palinsesti televisivi l’acceso dibattito politico in corso a proposito del pericolo che la nostra democrazia sia minacciata da una dittatura della maggioranza, forse ne comprenderemmo meglio i termini reali. Il marketing stesso non rischia forse di trasformarsi in strumento di perversione della democrazia? Preso atto che i programmi più visti dell’anno sono Il grande fratello, il festival di Sanremo e lo show di Panariello (la felice ambiguità del fenomeno Striscia la notizia meriterebbe un ragionamento a parte), non sta forse accadendo che l’intera programmazione televisiva tenda ad abbassare la sua qualità, legittimando con le statistiche dell’Auditel una riduzione degli investimenti sui prodotti alternativi e un’omologazione sempre più evidente? Dunque è proprio il terreno televisivo quello su cui più si evidenziano, già da tempo, i guasti dovuti alla dittatura della maggioranza. Vale per il mercato dei palinsesti televisivi lo stesso ragionamento che più in generale si applica al mercato capitalistico: l’assenza di regolazione e di libera concorrenza incoraggia la formazione di monopoli e danneggia i consumatori. Ma, ancor più che il mercato capitalistico in generale, la televisione sollecita fra gli intellettuali di sinistra pulsioni che la vulgata giornalistica di questi tempi classificherebbe come «apocalittiche». Proprio perché la natura di quel mezzo, e i meccanismi commerciali che ne consolidano la funzione egemonica, suscitano ancora un rigetto di principio. Non va proprio giù l’idea che la televisione sia innanzitutto un business finalizzato a realizzare profitti. Anche quando la sinistra affida le proprie speranze in campo televisivo al coinvolgimento di qualche imprenditore più o meno «amico», tende a scommettere sulla sua generosità o sulla sua convenienza politica, anziché sulla redditività potenziale dell’investimento.

La necessità di fare i conti con la leadership di Silvio Berlusconi, e con l’abnorme concentrazione di poteri che ne ha favorito l’insediamento, esaspera ulteriormente una preoccupazione di fondo sul ruolo del sistema televisivo che inevitabilmente va a confondersi con il più generale timore di uno snaturamento definitivo del sistema democratico. La formula della «dittatura morbida», più volte riproposta ad esempio da un campione del giornalismo nazionalpopolare come Enzo Biagi, esercita un fortissimo impatto emotivo anche grazie al retroterra teorico che la alimenta (sia pure nell’inconsapevolezza dei più).

Vale la pena di riportare per intero la suggestiva citazione di Aldous Huxley, tratta da Il mondo nuovo, che l’ex pubblicitario Frédéric Beigbeder ha scelto come epigrafe introduttiva al suo romanzo 99 francs,1 best-seller francese dell’anti-consumismo: «Non esiste, ben inteso, alcuna ragione perché i nuovi totalitarismi somiglino ai vecchi. Il governo basato su manganelli e plotoni d’esecuzione, carestie artificiali, imprigionamenti e deportazioni di massa, è non soltanto disumano (cosa che oggi come oggi non preoccupa nessuno più di tanto), ma provatamente inefficiente e questo, in un’era di tecnologia avanzata, è un peccato contro lo Spirito Santo. Uno Stato totalitario davvero “efficiente” sarebbe quello in cui l’onnipotente comitato esecutivo dei capi politici e il loro esercito di direttori soprintendessero a una popolazione di schiavi che ama tanto la propria schiavitù da non dovervi neanche essere costretta. Far amare agli schiavi la loro schiavitù: ecco qual è il compito ora assegnato negli Stati totalitari ai ministeri della propaganda, ai caporedattori dei giornali e ai maestri di scuola». Ecco, nella sua formulazione più nobile e compiuta, lo spettro che agita la discussione in corso nell’Italia berlusconiana intorno alla questione televisiva e al conflitto d’interessi che ci affligge. La paura di un nuovo totalitarismo. L’incubo di una società di schiavi indotti ad amare la propria schiavitù. Altro che regime. Qui si paventa una ancor più inquietante eclissi delle coscienze.

È stato lo stesso Piero Fassino, nel suo incontro romano con gli intellettuali del 22 febbraio scorso, a evocare correttamente l’ipotesi che la forza di Berlusconi derivi dall’abilità con cui ha «creato» i suoi elettori ben prima di vincere le elezioni. Giusto. Ma tutto sta, una volta individuata la natura profonda di questa trasformazione sociale e culturale introdotta in Italia dalla sua TV commerciale, a quali conseguenze se ne vogliano trarre. Si tratta forse di una catastrofe antropologica? Siamo in presenza di una sorta di preoccupante mutazione genetica? In tal caso non resterebbe che misurare sconsolatamente i nuovi rapporti di forza: procedere alla classificazione degli immuni e degli infetti dal morbo berlusconiano, suddividendo la società in buoni e cattivi, recuperabili e irrecuperabili. Si tratterebbe di un ben curioso metro d’analisi, che radicalizza gli schemi sociologici dell’inclusione e dell’esclusione. Forse a causa della sua estrema radicalità, nessuno ancora lo ha teorizzato compiutamente. Ma è lo sbocco inevitabile di chi riconosca la nuova centralità assunta nella società del benessere dalla figura del cittadino-consumatore, e al tempo stesso ne tragga la conseguenza di un’impossibilità di rappresentare a sinistra questo nuovo soggetto che oltrepassa le appartenenze ideologiche e di classe. Un tale schema «apocalittico» lascia pochi margini d’iniziativa in campo televisivo. Si potrebbe contare solo sull’azione di singoli «guastatori» dalla forte personalità in grado di approfittare delle inevitabili contraddizioni interne a un sistema sempre più compatto e ostile. Affidarsi cioè al calcolo ragionevole secondo cui l’ostilità di una parte consistente del paese alla deriva del duopolio berlusconiano Mediaset-RAI inevitabilmente finirà a più riprese per inceppare l’ingranaggio. Continuando nel frattempo a occupare tutti i suoi possibili interstizi. Resta però, implicita dietro a tale diffusa concezione del proprio ruolo, una profonda sfiducia nella capacità critica del cittadinoconsumatore che a mio parere non è affatto giustificata.

In altre società industriali avanzate – d’accordo, immuni dall’abnorme concentrazione di potere televisivo nelle mani di un solo uomo – il cittadino- consumatore ha già trovato incisive modalità di manifestazione della propria capacità critica e anche di partecipazione attiva. La condizione preliminare è che si determinino condizioni strutturali per la libera concorrenza su di un libero mercato dell’etere e della raccolta pubblicitaria. Solo così potranno moltiplicarsi la domanda e l’offerta, sia di nuovi prodotti televisivi in sintonia con le aspettative del pubblico, sia di nuovi spazi per l’investimento pubblicitario e l’incentivo ai consumi. Perché, sia ben chiaro, nessuna nuova televisione vedrà mai la luce nella nostra economia di mercato se non scommettendo innanzitutto sulla possibilità da parte degli inserzionisti di utilizzarla per allargare e diversificare il consumo dei loro prodotti: detersivi automobili o telefonini che siano.

In un mercato bloccato da vent’anni com’è quello italiano, non è da escludere l’ipotesi che la nascita di nuovi soggetti possa necessitare dell’incoraggiamento di una spinta dal basso, cioè di un’iniziativa di partecipazione popolare diffusa sollecitata anche dal diffuso malcontento per la situazione esistente. Purché sia chiaro che nessuno può seriamente fantasticare di una «TV di sinistra» in contrapposizione alle TV berlusconiane; nella consapevolezza inoltre che tale impresa potrà avere buone probabilità di successo solo quando validi soggetti imprenditoriali vi intravedano – business plan alla mano – la possibilità di realizzare profitti. Ecco perché la strategia tradizionale dell’occupazione di spazi più o meno cospicui in RAI ha fatto il suo tempo, e oggi si configurerebbe come meramente resistenziale. Molto più efficace e ambizioso sarebbe – sia pure con colpevole ritardo – battersi in tutte le sedi per sbloccare il sistema duopolistico, sintonizzandosi con chi persegue la contemporanea cessione di una rete Mediaset e la privatizzazione di almeno una rete della RAI. È auspicabile che la voce del presidente del Senato, Marcello Pera, non resti isolata su questo fronte. La giusta protesta contro lo scandalo di sei reti televisive nelle mani di un solo presidentepadrone, e la legittima aspirazione alla nascita di nuovi media in un libero mercato, passano attraverso questo intreccio fra iniziativa dal basso, scommessa imprenditoriale e sbocchi legislativi. Investendo con fiducia sul cittadino-consumatore che, neanche in Italia, sarà mai disposto a vendere la propria coscienza alla Grande Semplificatrice.

 

 

Bibliografia

1 F. Beigbeder, Lire 26.900, Feltrinelli, Milano 2001.