Porto Alegre e le vie locali della cittadinanza

Written by Tarso Genro Friday, 01 February 2002 02:00 Print

In una piccola sala riunioni del Municipio di Porto Alegre, all’inizio di settembre del 2001, il sindaco era in riunione con due delegati del «bilancio partecipativo» della regione nord della città. Questa è una delle sedici regioni del Brasile dove è stato istituito un Consiglio del bilancio partecipativo, meccanismo di democrazia diretta aperto all’iniziativa di qualsiasi persona disposta a partecipare e a votare nelle regolari assemblee generali. Tali assemblee decidono non solo quali saranno i rappresentanti della regione (per organizzare il bilancio dell’anno entrante), ma anche le priorità delle opere e dei servizi più importanti di cui la popolazione è carente. Queste udienze non sono comuni.

 

Il deserto è sempre al centro

Jorge Luis Borges

 

In una piccola sala riunioni del Municipio di Porto Alegre, all’inizio di settembre del 2001, il sindaco era in riunione con due delegati del «bilancio partecipativo» della regione nord della città. Questa è una delle sedici regioni del Brasile dove è stato istituito un Consiglio del bilancio partecipativo, meccanismo di democrazia diretta aperto all’iniziativa di qualsiasi persona disposta a partecipare e a votare nelle regolari assemblee generali. Tali assemblee decidono non solo quali saranno i rappresentanti della regione (per organizzare il bilancio dell’anno entrante), ma anche le priorità delle opere e dei servizi più importanti di cui la popolazione è carente. Queste udienze non sono comuni. Ordinariamente il sindaco partecipa alle assemblee più importanti e si espone direttamente alle critiche della comunità, stabilendo sempre un rapporto pubblico con la dirigenza. Ciò accade in contrasto con la precedente tradizione populista locale, che consisteva nello stabilire un rapporto «clientelare» con dirigenti selezionati secondo i personalissimi interessi politici di chi era al governo. Il bilancio partecipativo è un meccanismo che consente la partecipazione diretta dei cittadini interessati a programmare lo strumento del bilancio e, tramite esso, definire investimenti nei rispettivi luoghi di residenza, e a controllare «dal di fuori» il governo, ossia «programmare» l’uso del denaro pubblico. Questo processo rende possibile anche il controllo «materiale» delle opere, tramite Commissioni di controllo in ogni luogo dove vi sia una opera con un costo più elevato, oppure che abbia un significato speciale per gli abitanti della regione. Negli ultimi tredici anni, trecentomila persone hanno già partecipato in modo diretto o indiretto a questa sfera di decisioni e di controllo.

In quei momenti, persi nell’immensa catena di fatti storici singolari che costruiscono azioni e concezioni politiche nell’area di sinistra, si esercita una «piccola» forma – locale e datata – di controllo pubblico dello Stato. Con essa le persone coinvolte «fanno» politica e inducono quella frazione dello Stato a partire da un nuovo «contratto sociale» che non verte solo sulla rappresentanza, ma arriva dall’azione «diretta» dei cittadini più attivi la quale aggiunge democrazia diretta alla rappresentanza politica. L’esperienza ha dimostrato che, con i suoi difetti e le sue virtù, il bilancio partecipativo è un progresso notevole nella questione del «controllo pubblico dello Stato». E rappresenta un buono strumento di radicalizzazione della democrazia, non solo perché fornisce più autorità e trasparenza ai momenti decisionali delle istituzioni della democrazia formale – offrendo la rileggittimazione permanente di chi governa – ma anche perché stimola periodicamente la creazione di poteri autonomi, al di fuori della struttura dello Stato, che vanno a porsi in rapporto con la struttura statale in modo organizzato.

Ma torniamo alla riunione. La lamentela più grave verso i dirigenti, oltre a questioni riguardanti i ritardi di alcuni investimenti (causati non da mancanza di risorse ma da questioni di natura tecnica), era che il governo, non rispettando e non valutando le decisioni della comunità, non aveva organizzato le «inaugurazioni» di diverse opere del bilancio partecipativo già «pronte e in uso». Queste opere costituivano, secondo i delegati, «conquiste» che avrebbero valorizzato molto l’azione dei consiglieri della regione. Abbiamo subito constatato che la critica era giusta, perché nei primi mesi di questo quarto mandato avevamo dibattuto e avviato una «conservazione-rinnovamento» del nostro progetto politico, comprese proposte di modifica dello stesso processo di bilancio partecipativo, e avevamo trascurato – per sbadataggine – la consegna delle opere, senza renderci conto dell’estremo valore che questo evento ha per chi le decide. In questi tredici anni abbiamo già consegnato diverse centinaia di opere e ora stavamo commettendo l’errore di «svalorizzarle» nel loro momento culminante: la consegna alla popolazione. In realtà questo momento è anche – e soprattutto – una consegna effettuata dalla comunità a se stessa di una conquista ottenuta attraverso la democrazia diretta locale. È un processo che a volte comporta decine di agitate e pesanti riunioni, con discussioni accalorate e decisioni difficili, visto che le necessità dei quartieri più poveri sono molte e le risorse ovviamente non sono proporzionate alle richieste.

Voglio partire da questa esperienza «singolare» per «renderla particolare». E rimandarla quindi a una questione «universale», che inquieta i riformisti, anche più moderati, che non hanno perso la dimensione utopica della loro responsabilità politica e perciò non hanno aderito al neoliberalismo. «Renderla particolare» anche per dialogare con coloro che accettano la necessità di un profondo rinnovamento teorico della sinistra, per discutere di democrazia e di Stato: discuterne partendo dalle necessità immediate di resistenza al neo-liberismo e contemporaneamente dalla necessità di dare una spinta razionale alla speranza e cominciare a disegnare qualcosa per il futuro. L’idea è concertare un progetto di radicalizzazione democratica fondato su alcuni presupposti che, debitamente «adattati», possono essere considerati come indicatori «universali» dell’incontro tra un centrosinistra riformatore e una sinistra moderna più radicale: a) la riforma democratica dello Stato passa attraverso il controllo pubblico dello Stato, in contrapposizione alla forza normativa del capitale finanziario, che sottopone la logica degli Stati democratici di diritto alle necessità della sua riproduzione ad infinitum; b) la globalizzazione è un processo storico-concreto «antico», e questa tappa attuale ha la «tutela assoluta (nuova) del capitale finanziario», il cui movimento consolida il «benessere post-moderno» – accentratore di reddito e potere – dei paesi più ricchi; c) l’esclusione, l’intermittenza, la precarietà, nei loro diversi gradi e forme, sono una conseguenza dell’appropriazione privata e concentrata dei benefici della più formidabile rivoluzione tecnologica realizzata fino ad oggi dall’umanità; d) le risposte tradizionali della vecchia socialdemocrazia e le risposte tradizionali del comunismo (statalismo, monopolio dell’economia e della stessa azione politica da parte dello Stato e dello Stato-partito) non solo non rispondono alle grandi questioni sociali e politiche che ci sfidano, ma non riescono neanche a rivolgersi alle basi sociali organiche capaci di organizzarsi per sostenerle.

L’aspetto «particolare» dell’esperienza di Porto Alegre, rivelato in quel fatto singolare, è che, pur essendo l’esperienza di un governo locale (e perciò con le singolarità di una specifica città), quell’esperienza può indicare qualcosa di «universale». Ovviamente non la sua metodologia, che deve essere collegata alle caratteristiche sociali dello spazio-tempo e al livello istituzionale in cui si realizza l’esperienza. Ma può indicare, a livello embrionale, il sorgere con successo di nuove istituzioni nella società civile. Fondamentali, sia per quelli che attualmente difendono una riforma dello Stato, sia per quelli che vogliono in futuro un altro tipo di Stato in una società «totalmente altra». Queste istituzioni innovatrici, anche se ora si formano come contro-poteri alle istituzioni formali dello Stato di diritto, non sorgono per «distruggerlo». Sorgono per dargli coerenza e consistenza. Così esse possono essere il «punto di partenza» per un progetto di cambiamento o il «punto di arrivo» per un riformismo «forte». Questa esperienza, pertanto, è al tempo stesso una critica dello Stato e una proposta «in movimento» di un’apertura verso una cittadinanza di «nuovo tipo» senza svalutare la cittadinanza tradizionale della democrazia formale; una riforma radicale dello Stato e un rafforzamento di quella rappresentanza politica che vuole essere antiburocratica. Il tutto senza aggredire la legittimità della Costituzione e i presupposti di ordine pluralistico che da essa emanano.

L’estrema razionalizzazione della vita sociale e politica porta oggi l’uomo a «sottomettersi alle macchine che egli stesso ha costruito», facendo anche in modo che la moralità dominante marci in senso opposto, non collegato (e neanche armonico) con quello che è stato costruito in termini di etica e di morale nel precedente periodo storico. In questo caso concreto, pertanto, nelle riflessioni dell’ingegneria sociale e politica per affrontare i vecchi problemi della miseria e della carestia, si esige che tutti siano «pre-riflessivi» e «non-spirituali». Come? Esigendo che la politica sia negata come mediazione interamente umana della prassi, perché essa deve soccombere alla razionalità economica-finanziaria pura e ai suoi apparati tecnici. Sono questi che devono precedere la politica come punto di partenza metodologico. Da questa irrazionalità post-moderna derivano due conseguenze: affinché il mondo cammini in un senso buono dobbiamo accettare due premesse, la naturalizzazione dell’esclusione e l’assoluta indeterminatezza del futuro. La prima induce una soggettività che accentua la necessità di privatizzare le emozioni (voltarsi radicalmente «verso se stessi») e anche la necessità di restringere la socialità moderna, che tende verso il pubblico; e la seconda – futuro indeterminato dalla pura spontaneità – richiede di abbandonare qualsiasi profilo utopico (assoggettando la politica alla razionalità della tecnica), che osservi e umanizzi il nostro pensiero: l’indeterminazione è il modo stesso di essere del casinò globale. In questo modo, le necessità di riproduzione del capitale – con mezzi virtuali o produttivi – si sono trasformate direttamente in ideologia e poi in sentenza e concetto: la storia è finita.

In un punto la conclusione è vera. È finita la capacità del contratto sociale moderno di rendere coesa la società con legittimità: i valori della modernità – la libertà, l’uguaglianza, l’autonomia, la soggettività, la giustizia, la solidarietà – e le antinomie tra di loro permangono, ma sono soggetti ad un crescente sovraccarico simbolico, ossia, hanno significati sempre più dissimili per le diverse persone o i gruppi sociali e in modo tale che l’eccesso di significato si trasforma in paralisi dell’efficacia e, perciò, in neutralizzazione. Le istituzioni moderne sono, sempre, elementi integratori e alcune di loro vere clausole del contratto sociale. Il contratto sociale vigente è stato costruito in una società di soggetti visibili, identificabili, concentrati: i sindacati, le corporazioni del capitale, le istituzioni formali dello Stato, le associazioni volontarie legate le une alle altre. Attualmente la frammentazione e l’esclusione hanno spaccato i vecchi soggetti. Le reti, le borse, il crimine organizzato a livello planetario, le centinaia di migliaia di ONG, i nuovi movimenti sociali, le nuove complesse relazioni del locale-globale, emergono come nuovi soggetti che mostrano la necessità della preparazione di un nuovo contratto sociale: nuove istituzioni di rappresentanza e regolamentazione che possano riflettere questa nuova diversità che ha fatto esplodere anche l’unità interna delle classi.

Tuttavia le condizioni di base per l’offensiva universale di una sinistra contemporanea si stanno già sviluppando: a) crescente legittimazione delle preoccupazioni agro-ambientali; b) crescente legittimazione della partecipazione delle comunità povere agli affari pubblici; c) crescente legittimazione politica delle caratteristiche di genere e cultura; d) crescente coscienza della necessità di legittimare lo Stato di fronte alla crisi di coesione sociale, promossa dal neo-liberismo; e) crescente legittimazione della lotta per la socializzazione del lavoro (o della «attività») per sperare in una sopravvivenza dignitosa; f ) crescente legittimazione politica dell’intellettualità critica su scala mondiale. Considerata la necessità di una nuova politica radicale che riesca a mediare la tragedia del presente con l’utopia di un mondo giusto, sosteniamo che essa debba basarsi sulle seguenti direttrici generali: «combattere la povertà, assoluta o relativa; restaurare il degrado dell’ambiente; contestare il potere arbitrario; ridurre il ruolo della forza e della violenza nella vita sociale – sono questi i contesti direttivi del realismo utopico», ai quali si deve sommare la democratizzazione dell’informazione come bene pubblico fondamentale per la composizione di una nuova soggettività collettiva solidale.

Il partito moderno del socialismo contemporaneo o il partito riformista-umanista che si proporrà di affrontare la barbarie neoliberale non sarà più quello la cui spina dorsale poggerà principalmente sulle fabbriche. Sarà il partito che organizzerà, nella società civile, le condizioni per cui le classi lavoratrici, nuove e vecchie, disperse o ancora raggruppate, diventeranno l’avanguardia di una nuova cittadinanza. Il suo scopo oggettivo sarà istituire la democratizzazione e il controllo sociale dello Stato e, al tempo stesso, costruire istituzioni pubbliche autonome che, combinate alla rappresentanza politica, traccino il disegno di un nuovo Stato democratico.