SYRIZA sfida l’Europa

Written by Teodoro Andreadis Synghellakis Wednesday, 13 May 2015 15:59 Print

Le scorse elezioni legislative in Grecia hanno prodotto un risultato eccezionale: la vittoria di SYRIZA – una formazione politica che non si riconosce né nel PSE né nel PPE – in un contesto di drammatica crisi economica. Il partito di Tsipras, aprendosi a un dialogo fruttuoso con i manifestanti di piazza Syntagma, ha cercato di elaborare proposte alternative alla ricetta neoliberista imposta dalla Troika, mettendo in discussione l’immodificabilità dello status quo esistente in Europa. L’ascesa di SYRIZA è avvenuta contestualmente ad altri decisivi mutamenti del panorama politico greco, fra i quali il declino dello storico partito socialista ellenico, il PASOK, colpevole di non aver saputo marcare le proprie differenze dal partito di centrodestra Nuova Democrazia, e il relativo successo elettorale ottenuto dal neonazista Alba Dorata.

Il 25 gennaio scorso, nelle elezioni legislative anticipate, per la prima volta nella storia ellenica la sinistra è riuscita ad affermarsi come primo partito del paese e a formare un governo, anche se in “coabitazione” con la destra nazionalista dei Greci Indipendenti. In realtà, SYRIZA, (Coalizione della Sinistra Radicale) guidata da Alexis Tsipras, si era già aggiudicata la tornata delle elezioni europee, nel maggio del 2014, pur con un vantaggio più esiguo rispetto alle elezioni legislative di gennaio. L’imponente copertura mediatica dell’evento, con migliaia di giornalisti stranieri accreditati per seguire il “cambio della guardia” nell’esecutivo ellenico, è ulteriore prova dell’eccezionalità dell’evento. SYRIZA, infatti, non appartiene alle due grandi famiglie del panorama politico europeo: né a quella del PSE, né a quella dei Popolari. Lo stesso Tsipras è stato il candidato del Partito della Sinistra Europea per la presidenza della Commissione, alle elezioni dello scorso maggio, marcando le differenze sia con Jean-Claude Juncker, sia con Martin Schulz.

A ragione, quindi, si può evidentemente sostenere che l’affermazione della sinistra ellenica costituisce un elemento di spiccato interesse nel panorama politico del Vecchio continente. Un evento che si inserisce all’interno di una realtà di ancora maggiore eccezionalità. La Grecia, infatti, ha affrontato, negli ultimi cinque anni, la crisi economica più dura e drammatica dalla fine della seconda guerra mondiale. Il prodotto interno lordo del paese è diminuito del 25%, la disoccupazione è arrivata a toccare il 28% e quella giovanile a superare il 60%, mentre il debito pubblico, che nel 2009 era al 120% del PIL, è ora al 175%. La riduzione di stipendi e pensioni, dal 25% sino al 30% del loro ammontare complessivo, non è servita a far ripartire l’economia del paese. O, per essere più precisi, ha permesso di arrivare alla creazione di un avanzo primario, ma senza che i cittadini della cosiddetta “classe media”, in gran parte sfarinatasi in questi cinque duri anni, abbiano potuto trarne alcun vantaggio concreto.

È in questo contesto che va inserita l’ascesa politica di SYRIZA e del suo leader, Alexis Tsipras. Un partito che ha saputo dialogare con gli “indignati” ellenici, gli “aganaktismenoi”, che hanno manifestato per mesi in piazza Syntagma, davanti al Parlamento di Atene. Una forza politica, quindi, che ha voluto misurarsi con la crisi, alla ricerca di proposte concrete per riuscire a superare le enormi difficoltà in cui si dibatte il paese. La parte più interessante di questo fenomeno è costituita, tuttavia, dalle domande che pone, o meglio impone, l’affermazione della sinistra greca sullo scenario europeo, a partire dal rapporto tra politica e potere economico-finanziario. La domanda a cui sono chiamati a rispondere gli “addetti ai lavori” di tutto il campo progressista europeo, nell’occuparsi della crisi greca e delle sue possibili soluzioni, è – prima di ogni altra cosa – se la politica disponga ancora della forza per poter mettere in discussione determinati status quo che vengono presentati, sempre più spesso, come immodificabili. SYRIZA ha presentato e presenta con forza la questione del salario minimo, chiedendo di poter procedere a un suo graduale aumento, nell’anno in corso, per poter poi arrivare, nel 2016, ai 750 euro promessi nel programma di governo presentato a Salonicco, nel settembre scorso. Allo stesso tempo, il partito di Alexis Tsipras ritiene che non si debba più andare avanti con la liberalizzazione e deregolamentazione del mercato del lavoro in un paese in cui i contratti collettivi, negli anni della crisi, sono quasi scomparsi, sostituiti di contratti aziendali o “personali”. Per quel che concerne i part time, poi, molti imprenditori sono sempre più spesso soliti proporli per dare una parvenza di legalità a lavori a tempo pieno, con retribuzioni che sono, tuttavia, ben al di sotto di qualsiasi “soglia di dignità”. La stessa questione del debito greco, tanto discussa e su cui si sono registrate le più disparate prese di posizione, contiene anche approcci molto più “realistici” di quanto non potrebbe sembrare a una prima lettura. È così eretica la proposta avanzata dallo stesso ministro delle Finanze ellenico, Jannis Varoufakis, di poter pagare parte del debito – che, come abbiamo visto, ha ormai raggiunto livelli elevatissimi – solo quando la Grecia sarà stata aiutata a riconquistare un livello di crescita realmente percepibile dalla popolazione, e cioè oltre il 2% del proprio PIL?

La questione, quindi, è molto più ampia dei singoli punti che vengono discussi e analizzati, ormai da diverse settimane, al Gruppo di Bruxelles dai rappresentanti delle istituzioni creditrici e da quelli del nuovo governo greco. Appare sempre più chiaro che il nodo principale, come si evince anche dalle rivendicazioni del governo di Atene, è capire se esista o meno una via alternativa, praticabile, alle politiche neoliberiste applicate negli ultimi due decenni in Europa, con un chiaro deficit propositivo da parte della sinistra riformista.

L’approccio di SYRIZA è riuscito ad andare oltre la visione del comunismo ortodosso del KKE (Partito Comunista di Grecia), che non intende affrontare nessun tipo di revisione o reintepretazione storica delle proprie posizioni, e anche a valorizzare e arricchire l’esperienza storica del Partito Comunista greco dell’Interno, fortemente influenzato dalle posizioni dell’eurocomunismo ma che non è stato capace di ampliare mai in modo incisivo la propria base elettorale. La sfida principale, in questa fase, è riuscire a comprendere se, e in che modo, si potrà sviluppare un dialogo con le forze e gli esponenti del Partito del Socialismo Europeo più aperti e sensibili al cambiamento. Un processo che potrebbe portare a un arricchimento reciproco, ma che avrebbe, molto probabilmente, tra le sue conseguenze più importanti anche la ridefinizione delle priorità, degli obiettivi principali da perseguire, in un contesto di sempre maggiore finanziarizzazione dell’economia. Un contesto, appunto, che non permette di comprendere appieno quali siano gli spazi di manovra rimasti alla politica. Per dirla in modo semplice e diretto, di quale libertà di movimento disponga un governo di sinistra, come quello greco, nel rendere palese il “cambio di passo” rispetto al precedente esecutivo guidato dal centrodestra.

In una situazione di crisi economica e sociale senza precedenti, prevale la necessità di rispettare gli accordi firmati dai governi succedutisi dal 2009 all’inizio del 2015 o il bisogno, ad esempio, di garantire i servizi della sanità pubblica a tutti i cittadini residenti nel paese – e quindi anche a chi ha perso il lavoro e non è in grado di versare più contributi ai vari enti previdenziali – e di fermare l’emorragia di posti di lavoro? È con interrogativi come questi che è chiamata a misurarsi la Grecia del 2015 e a cui l’Europa, se lo desidera – e lo ritiene necessario –, può mostrare di saper rispondere con la necessaria lungimiranza. Lo stesso per quanto concerne la non pignorabilità della prima casa, in un paese in cui più di un quarto della popolazione attiva si è ritrovato senza lavoro e senza una rete di protezione sociale.

Come sottolineato anche da noti esponenti politici italiani, è “aritmeticamente chiaro” che parte del successo di SYRIZA è da ascrivere al sostegno di elettori che hanno abbandonato i socialisti del PASOK. Basti osservare i risultati delle elezioni politiche del 2009: il PASOK, con a capo George Papandreou, aveva raggiunto il 43,9%, mentre SYRIZA non aveva superato il 4,6%. Nella tornata elettorale del gennaio scorso, SYRIZA si è aggiudicato il 36,3% dei voti, mentre i socialisti di Evànghelos Venizèlos non sono andati oltre il 4,6%. La migrazione di votanti è evidentissima, così come il passaggio a SYRIZA di una parte della classe dirigente socialista, tra cui Sofia Sakoràfa, eurodeputato, dell’economista ed ex ministro Loùka Katseli, (che non ha comunque voluto candidarsi) e dell’attuale ministro della Sanità Panajotis Kouroublìs, eletto deputato per tre volte, in passato, con il PASOK. Bisognerà verificare ora se in un contesto più ampio, a livello europeo, il dialogo tra la famiglia dei riformisti e il gruppo dirigente di SYRIZA sarà in grado di portare, fattivamente, a un reale arricchimento reciproco. Per non peccare di facili entusiasmi e ingiustificati ottimismi, d’altronde, sarà opportuno appurare, innanzitutto, se il processo in questione verrà ostacolato o meno dalla coabitazione di socialisti e popolari all’interno della Commissione europea, che impegna a un più generale perseguimento di obiettivi comuni. Un tipo di coabitazione che ha creato non pochi problemi ai socialisti greci all’interno della realtà politica ellenica. Dopo la caduta del governo di George Papandreou, infatti, il PASOK ha deciso di rimanere nella compagine governativa, partecipando tanto all’esecutivo guidato dall’economista Loukàs Papadìmos, quanto, in seguito, a quello guidato da Andònis Samaràs. Nel primo caso, della maggioranza di governo ha fatto parte anche il partito di estrema destra LAOS, il cui bacino elettorale, in seguito, è stato in gran parte “prosciugato” da Alba Dorata. Per quel che riguarda l’esecutivo Samaràs, invece, è stato da subito evidente che la forza trainante della compagine governativa era, senza ombra di dubbio, il centrodestra di Nuova Democrazia e che tanto i socialisti quanto il piccolo partito di sinistra DIMAR, che decise di farne parte, non erano in grado di imporre con forza la propria agenda. Emblematico è il caso della chiusura “forzata” della televisione pubblica greca, ERT, nel giugno del 2013. La decisione, secondo quanto trapelato, sembra essere stata presa da una cerchia molto ristretta, dall’ex primo ministro Samaràs e da alcuni suoi consiglieri. Il leader del PASOK, Evànghelos Venizèlos, dichiarò di esserne stato tenuto totalmente all’oscuro, come anche Fotis Kouvèlis, presidente di DIMAR. Tuttavia, mentre in seguito all’oscuramento totale dell’emittente pubblica per più di due mesi con la scusa di “crearne una più efficiente” DIMAR decise di mettere fine alla partecipazione al governo, il PASOK, dopo l’indignazione iniziale, optò per la permanenza nella coalizione.

Un episodio che mostra come i socialisti non siano stati capaci di rendere chiaro e riconoscibile il proprio ruolo nella gestione del potere nei momenti più difficili della crisi. Lo stesso avvenne nel caso dei ripetuti tagli di salari e pensioni, in quello della riduzione del budget della sanità pubblica e, infine, per quanto concerne il fortissimo depotenziamento dei contratti collettivi di lavoro. George Papandreou aveva vinto le elezioni dell’autunno 2009 con gli slogan “socialismo o barbarie” e “i soldi ci sono”. Ebbene, con un’affermazione un po’ sommaria, forse, ma abbastanza efficace, si potrebbe dire che la Grecia – nei cinque anni che sono seguiti a quelle elezioni – non ha visto i frutti dell’applicazione di una politica progressista, ma, al contrario, ha assistito a un imbarbarimento della realtà sociale e umana, con circa un terzo della sua popolazione spinto vicino o sotto la soglia di povertà.

Sarebbe fuorviante e scorretto pensare che tutto il peso di questa situazione, mai esperita prima in un paese dell’Europa occidentale dal dopo guerra in poi, possa pesare sulle spalle dei socialisti. Ma la conclusione a cui è possibile giungere è che il partito di Venizèlos ha solo arginato, in piccola parte, le politiche imposte dalla Troika. Non ha saputo imporre, e neanche proporre in modo chiaro e riconoscibile, una propria agenda, delle priorità che mettessero al primo posto la tenuta della coesione sociale, attraverso, ad esempio, un piano per far ripartire il mercato del lavoro. Il “peccato originale” di questa ultima fase di gestione del potere da parte del PASOK si potrebbe ritrovare proprio in una delle prime rilevanti decisioni del governo di George Papandreou: l’aver voluto chiedere l’intervento del Fondo monetario internazionale, con a capo, all’epoca, Dominique Strauss-Kahn, credendo di poter far fronte alla crisi in maniera molto più “indolore” di quanto non si sia rivelato in seguito.

Come è anche innegabile che uno dei più macroscopici errori politici del centrodestra e del governo a guida Samaràs sia stato quello di cercare di mettere sullo stesso piano di pericolosità sociale e politica SYRIZA da una parte e i neonazisti di Alba Dorata dall’altra, con la “teoria dei due estremi”. Una lettura sostenuta da una serie di esponenti della maggioranza di governo e in base alla quale gli estremi dello spettro della realtà politica, in realtà, arrivano a congiungersi. Si tratta di una variante della teoria degli opposti estremismi – ben nota anche in Italia, specie negli anni Settanta –, senza che, tuttavia, abbia trovato alcun punto di contatto con la realtà, almeno nel caso della Grecia. Per smentirla, qualora ce ne fosse bisogno, basta ricordare che Alba Dorata ha fatto sistematicamente ricorso alla violenza e che il suo gruppo dirigente viene ora processato con accuse pesantissime, tra cui tentato omicidio e associazione a delinquere. SYRIZA ha contrastato le politiche messe in atto nel quinquennio passato attraverso la forza della parola e del pensiero politico, del logos, lavorando alla costruzione di un’alternativa. La teoria dei due estremi, tuttavia, ha inquinato la vita politica greca, pregiudicando anche lo sviluppo di un dialogo tra i due schieramenti di cui si sarebbe, probabilmente, potuto giovare tutto il paese.

Non si può, infine, non porre una domanda che deve essere ancora considerata di piena attualità: Alba Dorata costituisce ancora una minaccia concreta per la società greca? I risultati delle elezioni dello scorso gennaio forniscono una prima risposta. La formazione neonazista, xenofoba e omofoba è riuscita, nonostante gran parte del suo gruppo dirigente si trovasse dietro le sbarre, a raggiungere il 6,2% dei voti, conquistando 17 seggi. Questo malgrado gli attacchi sistematici contro gli immigrati, l’uccisione, da parte di un suo membro – o quantomeno “acceso simpatizzante” – del rapper di sinistra Pavlos Fyssas nel settembre 2013, le indagini che hanno portato a scoprire un’organizzazione dedita al culto della violenza e della semiologia del Terzo Reich. Il risultato delle elezioni legislative mostra con chiarezza che esiste ancora una parte della società greca che crede che la violenza e la marginalizzazione dei più deboli costituiscano la riposta alla frustrazione e all’impoverimento causato dalla crisi. La risposta, soprattutto, all’afasia della politica, incapace, spesso, di indicare priorità e vie di uscita.

Alba Dorata si pone contro l’Europa, il multiculturalismo, la libera circolazione delle idee e dei cittadini. L’opinione del primo ministro greco Alexis Tsipras, e non solo, è che si debba riuscire a sconfiggerla innanzitutto sul piano politico, dimostrando che i partiti, le organizzazioni sindacali, la società civile sono ancora realmente in grado di comprendere la realtà in cui ci siamo venuti a trovare e di elaborare delle soluzioni credibili ed efficaci. Quando il dialogo (e ovviamente il riferimento qui è anche a quello tra la Grecia e le istituzioni che rappresentano i suoi creditori) riesce a condurre a dei risultati concreti, a degli accordi che riconoscano pari dignità a tutti i loro firmatari, fenomeni come Alba Dorata non hanno più alcuna possibilità di svilupparsi e di rafforzare la propria identità, che cerca di negare l’utilità stessa della democrazia.