Negando la rappresentanza si vuole colpire la partecipazione

Written by Susanna Camusso Thursday, 02 October 2014 10:08 Print
Negando la rappresentanza si vuole colpire la partecipazione Foto: Marianna

Nel dibattito politico-economico italiano si sta affermando l’idea, sbagliata se non caricaturale, che alla modernità corrispondano la fine del conflitto tra interessi diversi e contrapposti e il conseguente svuotamento della funzione di rappresentanza e mediazione tra que­sti. Applicate al mondo del lavoro, la disintermediazione e la disarti­colazione delle forme di rappresentanza implicano non solo l’indebo­limento generico dei lavoratori nei luoghi di lavoro, ma lo svilimento stesso del lavoro inteso come dimensione rilevante della libertà della persona nella sfera collettiva. Viene insomma messa in discussione l’idea che il conflitto possa uscire dai singoli luoghi di lavoro per eser­citarsi nel condizionare, indirizzare, contestare le scelte del governo nel percorso di costruzione del futuro del paese.



Il sistema politico italiano sta faticosamente cercando di uscire da una profondissima crisi di rappresentanza, da una delegittimazione di cui porta in gran parte le responsabilità e dalla quale non è riuscito sino a oggi ad affrancars

In una società interpretata sempre più in una dimensione post ideolo­gica, individuale e individualizzante, e abbandonata per convinzione, convenienza e possibilità l’idea stessa di tornare, anche se in una forma semplificata, ai partiti di massa, la politica ha scelto – o forse ci si è ac­comodata – una forma non materiale e non mediata. Le élite (la leader­ship, le oligarchie e le tecnocrazie) al comando cercano una patente di massa attraverso la suggestione del rapporto diretto, non intermediato, per lo più elettronico e virtuale. La loro immagine è costruita con un sapiente dosaggio di simbolici contatti fisici, di esibite distanze, di un uso intensivo e immaginifico dei social network e di una discutibile for­ma di democrazia partecipativa esercitata attraverso le e-mail. In questa idea di azzeramento dello spazio tra partito ed elettore, tra politico e cittadino, l’intermediazione sociale costituisce un ostacolo da rimuovere. I corpi intermedi, per la politica, non sono più gli alleati cui delegare la rappresentanza degli interessi particolari, ma la barriera che impedisce un fluido rapporto di dare e avere con i singoli segmenti della società.

Nella costruzione di questa nuova dimensione virtuale della politica, le organizzazioni di rappresentanza sociale sono util­mente usate come bersaglio su cui dirottare, con una singolare inversione di responsabilità e ruoli, le critiche sino a oggi rivolte ai partiti. Uno sposta­mento abile ed efficace dalla critica alla politica e ai suoi costi, alle organizzazioni di rappresentanza sociale, al loro conservatorismo, descritto a priori perché ricorda il passato, alla loro funzione (non ri­chiesta) di mediazione tra sociale e politico, al loro rappresentare anche gli anziani e perciò vecchi. In sottofondo, la tesi che la “modernità” corrisponda alla fine del conflitto e che perciò forme di rap­presentanza capaci di dar voce a interessi diversi e contrapposti, di regolarne il confronto e di trovare una mediazione più avanzata, non hanno alcuna ragione di esistere se non all’interno di una logica di mera autoconservazione. Un’idea sbagliata se non caricaturale.

Coerentemente all’idea che interessi non solo individuali ma colletti­vi non possano confliggere, si fa strada un primato dell’economia sulla politica che, nella lunga stagione del liberismo e del rigore, facendo leva su trattati europei reificati e considerati Verbo indiscutibile in contrap­posizione alle condizioni concrete dei paesi e dei popoli, accentua a tal punto le diseguaglianze sociali ed economiche da farne l’origine di tanta parte della crisi economica del continente. Le condizioni dettate dalla globalizzazione, la difficile integrazione dell’Unione europea, l’esistenza di una moneta senza Stato, il prevalere dell’Europa dei governi rispetto all’Europa comunitaria hanno ulteriormente reso meno rilevanti le poli­tiche economiche degli Stati.

La frantumazione del lavoro, l’idea che sia il mercato del lavoro che le sue regole debbano essere in funzione e al servizio della finanziarizzazio­ne e dell’internazionalizzazione delle imprese, insieme all’aumento delle diseguaglianze hanno progressivamente cambiato, anche culturalmente, l’idea e la sostanza stessa del lavoro. Dalla politica scompare l’obiettivo della piena occupazione e insieme si svaluta il valore stesso del lavoro che, da fattore identitario ed elemento imprescindibile della creazione di ricchezza, diventa elemento di ostacolo all’accumulazione essendo, a differenza dei capitali e della moneta, difficilmente trasferibile. Sono cambiamenti rilevanti che, inevitabilmente, mettono in crisi l’organizza­zione della sua rappresentanza.

La costruzione dell’area dell’euro e la convinta necessità, espressa da tutti gli attori politici ed economici, primi fra tutti i sindacati, di essere fin dall’inizio promotori del nuovo corso portarono a una pratica negoziale e all’adozione di conseguenti comportamenti da parte di tutti i soggetti coinvolti. Fu la stagione della concertazione che permise al nostro pae­se di raccogliere intorno a un obiettivo alto e condiviso, a un progetto generale, l’insieme delle forze sociali, economiche e politiche. Architra­ve divenne la politica dei redditi che, per attuare gli obiettivi stabiliti autonomamente nell’ambito dei singoli poteri di cui ogni soggetto di­sponeva, riconosceva al lavoro e alla redistribuzione valore generale. Il sindacato, a fronte dell’impegno degli altri contraenti a operare politiche economiche e industriali tese alla piena occupazione, si impegnava a una moderazione salariale.

La struttura degli accordi che portarono l’Italia nell’euro, una volta rag­giunto l’obiettivo e anche grazie alla vittoria ideologica e politica della destra, si è progressivamente piegata all’idea che solo l’assetto di bilan­cio è rilevante ai fini della determinazione politica. Prendeva cioè di nuovo piede, anche nel nostro paese, l’idea che il lavoro potesse essere confinato nel ghetto della flessibilità e della riduzione del suo costo come unica dimensione rilevante.

Questi elementi, qui solo abbozzati e che non af­frontano ancora il mutare delle soggettività, dico­no di come le organizzazioni dei lavoratori si siano trovate a dover contrastare un’idea, perseguita con ampio dispendio di risorse e mezzi, di sindacato al massimo aziendale, marginale nella sua valenza nazionale, a cui non va riconosciuta una funzione generale, costringendolo anche a una conti­nua difesa non solo dei livelli occupazionali, ma anche delle conquiste civili e dei diritti nei luoghi di lavoro. E dalla difesa alla conservazione il passo è ovviamente breve e facile. A questo quadro va aggiunto un siste­ ma d’imprese che ha approfittato della congiuntura politica per schiac­ciare il lavoro a mero ruolo esecutivo, per farne un facile sostituto della flessibilità del tasso di cambio nella competizione internazionale, affer­mando un modello, come in Fiat, in cui fa premio la totale subalternità e l’attacco ai diritti, mettendo contemporaneamente in secondo piano, se non cancellando, le vere armi competitive di cui aveva bisogno il nostro sistema economico: il coinvolgimento, la professionalità, la formazione, l’ingegno, l’investimento sistematico in innovazione e qualità.

Partecipazione o comando sono ancora oggi i due poli su cui s’incentra la visione del presente e del futuro possibile del nostro paese. E va detto, purtroppo, che in Italia la partecipazione non è nelle corde di tanta parte delle imprese, che mantengono un atteggiamento che, probabilmente, deriva dall’idea di modello sociale a cui ha teso la destra politica. Un’idea che ha dominato la scena politica e culturale in questi ultimi 20-25 anni. Un’idea globale – basta ricordare la mobilitazione del partito repubblica­no negli Stati Uniti perché non si esportasse il modello Volkswagen nei suoi stabilimenti americani – che ha fatto grande presa negli ambienti economici, politici e culturali del nostro continente.

Con la progressiva affermazione della zona euro, con l’eclisse del meto­do comunitario a scapito di quello intergovernativo, con il progressivo offuscamento dell’idea di unione politica dell’Europa e con le devastanti crisi causate dalle bolle speculative finanziarie, nei paesi più deboli, e tra questi l’Italia, emerge forte una tendenza, se non a rinunciare, a delegare la politica economica agli organismi di controllo monetario dell’UE. I singoli governi, in particolare quelli dei paesi più fragili, si riservano la gestione del proprio mercato, assecondando il ciclo economico, sceglien­do una competizione al ribasso, intervenendo per lo più sul versante del mercato del lavoro, con una progressiva e continua legificazione dei rapporti di impiego che lo hanno quasi completamente destrutturato. È avvenuto nel pubblico, anche al fine di governare il consenso, come nel privato affidando alla “libertà dell’impresa” l’idea di quale modello e quali caratteristiche avrebbe dovuto avere lo sviluppo.

Il sindacato, per la prima volta in termini così drammatici dopo oltre 60 anni e in una perdurante e profondissima crisi economica, si trova a dover affrontare la fragilità del lavoro (sempre spostabile), la possibile corpora­tivizzazione in quello non sostituibile, l’aumento delle diseguaglianze nel e del lavoro, l’assenza di una politica redistributiva (salariale e di welfare) e, perché negarlo, il “rimpianto” del tempo che fu paradossalmente più semplice da tradurre in una politica generale, di valore nazionale.

La strada percorsa in questi anni di transizione è fatta di confronti ste­rili con i governi di turno. L’agenda dell’Unione europea, non condivi­sa dalle forze sociali, rischia di determinare forme di rappresentanza se non corporative, sicuramente particolaristiche. In sostanza, una visio­ne coerente con chi pensa che il futuro della rappresentanza sociale sia quella dei soli servizi. Una versione ridimensionata del modello Ghent nordeuropeo. Al sindacato ci riserva una funzione nobilissima che, però, non permette di affrontare il tema della rappresentanza del lavoro come fondan­te dell’idea di paese, del suo modello di sviluppo, della riduzione delle diseguaglianze, o, per meglio dire, dell’eguaglianza.

Nella disintermediazione, nella disarticolazione e nel proposito di abbattere qualsiasi forma di rap­presentanza intermedia, ciò che si persegue non è l’indebolimento generico della rappresentanza dei lavoratori, ma la fun­zione generale del sindacato confederale. Ciò che non è ammissibile è l’i­dea che il conflitto possa uscire dai singoli luoghi di lavoro per esercitarsi nel condizionare, indirizzare, contestare le scelte attuate dal governo; che il lavoro possa, appunto, interloquire con le forze politiche, con la co­struzione di un’altra idea di governo e di paese. Non si riconosce cioè la funzione (e l’identità) collettiva del lavoro, la possibile universalità della condizione e dei diritti che ne conseguono. Ciò che è sottoposto a frizio­ne è esattamente l’idea del lavoro come libertà della persona.

Per contrastare questa visione del lavoro e del suo ruolo, il sindacato confederale non può fare la più o meno rumorosa rivendicazione di un ritorno al passato o a un succedaneo di passato. Se si pensa che la qualità della democrazia è qualità della partecipazione e delle relazioni, questo non è concesso. Il cambiamento deve misurarsi affrontando le criticità e le difficoltà interne al proprio campo – lavoro non standard, lavoro po­vero, lavoro precario, nuove forme di lavoro autonomo o finto autono­mo, lavoro professionale e lavoro svilito – perché il sindacato, per essere, ha bisogno di ritrovarsi in una dimensione collettiva, ha bisogno di un nuovo codice, di un nuovo statuto, di nuovi poteri. Ma prima ancora ha bisogno di essere visto e riconosciuto da chi deve includere.

Questo significa spostare il baricentro, non cancellare gli strumenti. Per questo serve conquistare uno Statuto dei lavoratori che definisca tutele universali per il mondo di oggi, forme contrattuali che non agiscano per impoverimento, la difesa del principio che a uguale lavoro corrispon­de uguale retribuzione. Bisogna farlo ripensando quale autonomia delle forme di rappresentanza sia possibile, utile e praticabile.

A oggi l’autonomia è stata costruita per differenza, una reciprocità nella funzione. Bisogna, invece, proporsi un’autonomia delle parti che sposti il baricentro verso ciò che serve alla contrattazione per essere autono­mamente rifondata nella sua universalità come nella sua declinazione decentrata nei luoghi di lavoro. Quella contrattazione che riproponga la funzione generale del lavoro, che influenzi le politiche del lavoro, parten­do da informazione, partecipazione, qualità e investimenti; che contratti l’organizzazione del lavoro e le condizioni di lavoro.


 

 

 


Foto: Marianna