Se la democrazia ha ancora un compito

Written by Massimo Adinolfi Tuesday, 13 May 2008 17:51 Print
La crisi della democrazia come forma politica impone di ripensarne storia e categorie, così da individuare il terreno sul quale è ancora possibile assegnare credibilmente alla politica il compito di perseguire il fine della pubblica felicità. Il fatto che per un simile compito manchi una giustificazione formale-razionale non significa che si abbia torto nel perseguirlo.

La politica deve proporsi il fine della pubblica felicità. Sembra una proposizione di buon senso, e cercheremo di dimostrare che lo è. Il guaio è che però non è una proposizione di senso comune: cercheremo anzitutto di mostrare questo.

Cominciamo, perciò, dall’inizio. Da quando Aristotele inventò la politica, costruendola intorno a quella prima proposizione. La pubblica felicità non poteva non essere, per lui, il fine ultimo delle nostre azioni, perché è il bene umano supremo, quello in ragione di cui ordiniamo le nostre azioni; e la politica, la «scienza più direttiva e architettonica in sommo grado»,1 quella cioè a cui vanno subordinate le altre scienze e potenze, non poteva dunque non essere la scienza di questa pubblica felicità.

L’evidenza di questa iniziale trattazione filosofica della politica si è tuttavia da gran tempo oscurata. A differenza di Aristotele, noi dubitiamo che la politica sia una scienza, tendiamo fortemente ad escludere che tutte le altre scienze pratiche debbano essere ad essa subordinate, e che le altre potenze, cioè le altre capacità e disposizioni dell’uomo, debbano anch’esse ordinarsi al fine architettonico della politica. Infine, risponderemmo forse diversamente alla prima delle questioni che Aristotele solleva in “Etica nicomachea”, se sia o no cosa «più grande e più perfetta e conseguire e salvaguardare il bene della città», cioè dello Stato, oppure quellodell’individuo: Aristotele non ha dubbi che più amabile sia il bene della città, e si cura di dimostrare che la sua promozione non confligge affatto con il bene «nella dimensione dell’individuo singolo [di uno solo: eni mono]». La modernità, invece, si è abituata a considerare che le linee di conflitto sono molte e non sempre componibili, e che in ogni caso la loro composizione trova un limite insuperabile nei beni essenziali che l’individuo singolo ha il diritto di vedersi riconosciuti prima e indipendentemente dal conseguimento del bene pubblico, del fine supremo della pubblica felicità. L’individuo singolo “ha” il diritto, e il diritto che “ha” è un diritto fondamentale, incomprimibile: questa è la nostra attuale evidenza, l’evidenza della dimensione moderna in cui la politica deve essere costruita, che precede la determinazione ulteriore di come e perché si abbia questo diritto, e di quale sia poi il diritto o di quali siano i diritti fondamentali dell’individuo. Perché però questa costruzione sia possibile, e non trovi in quel diritto soggettivo solo un limite o un ostacolo, occorre domandarsi che cosa si sia disponibili a fare con questo diritto: quanta parte di esso (se non tutto) si sia disposti a mettere in comune, per il perseguimento del fine della pubblica e condivisa felicità. Che però non si sia soltanto disposti a metterlo in comune, ma che si “debba” anche essere così disposti, questo riesce assai meno evidente, dal momento che la “doverosità“ richiesta non pare essere ai moderni così fondamentale come il diritto dell’individuo singolo, e non ha dunque i titoli per scalzare quest’ultimo. L’individuo rimane infatti l’unico autorizzato (auto-autorizzato: autorizzato da sé solo, in rivendicata autonomia) a misurarne l’esercizio, la portata, la disponibilità. Possono perciò essere suggeriti calcoli utilitari, possono essere accampate ragioni morali, possono essere proposti persino moventi affettivi, sentimentali, ma in ogni caso, se nessuno di questi calcoli, di queste ragioni o di questi moventi può comprimere quel diritto, l’individuo singolo potrà (sarà cioè in diritto di) fare altri calcoli, ascoltare altre ragioni o accogliere moventi diversi. Da Thomas Hobbes a Jean-Jacques Rousseau, la filosofia politica moderna ha definito condizioni più o meno esigenti, attraverso le quali fosse possibile comporre insieme i diritti degli individui singoli in vista del bene comune, ma la condizione di tutte le condizioni immaginate ha dovuto rimane-re invariata: che qualunque obbligo l’individuo singolo fosse chiamato ad assumere, quell’obbligo egli non avrebbe potuto, in ultima istanza, assumerlo se non nei confronti di se stesso.

La logica della rappresentanza, per la quale l’obbligazione politica emana da una fonte in cui ultimamente io debbo potermi riconoscere, è l’unica che rende legittimo un potere obbligante nei confronti di individui dotati di uguali diritti fondamentali.

Su questa base, non sarebbe difficile fornire, nell’essenziale, la descrizione della forma politica moderna, nella quale trovano sede i concetti politici fondamentali di ogni teoria democratica classica. La democrazia rappresenta cioè l’esito compiuto, e la soluzione inevitabile del problema politico, quando non vi sia altra maniera di legittimare l’obbligazione che non sia quella di autorizzarla in base alla sovranità del popolo, cioè, più precisamente, di un soggetto collettivo costituito da individui aventi uguali diritti.

Ma la democrazia non ha mantenuto le sue promesse. Burocrazie e oligarchie soffocano la sovranità popolare; la cittadinanza è di fatto svuotata dalla crescente distanza in cui si colloca la dimensione della decisione politica rispetto alle conoscenze e alle competenze del singolo, e sempre più trova alloggio in un conformismo di massa che scoraggia la partecipazione informata e favorisce l’omologazione; la formazione dell’opinione pubblica riposa poi su meccanismi poco trasparenti, e si allontana drammaticamente l’ideale kantiano del «governo del potere in pubblico» che ha nutrito le aspirazioni illuministiche e liberaldemocratiche della modernità.2

Ora però il problema è che, a ben vedere, quelle promesse non sembrano appartenere alla logica stretta della forma politica democratica. Si può naturalmente distinguere, e anzi si deve, un individualismo di stampo liberale da un individualismo democratico: nell’un caso, spiegava Norberto Bobbio, l’individuo non è legato da alcun vincolo di solidarietà con gli altri individui; nel secondo, viceversa, tali vincoli sussistono. Si può quindi integrare, e forse si deve, il paradigma democratico con le istanze di giustizia e di partecipazione che nel corso del secolo scorso ne hanno accompagnato l’affermazione. Ma quel che è iscritto in tali istanze non è iscritto nei concetti fondamentali dell’im-pianto democratico: non modifica cioè il fondamento di legittimità dell’obbligo politico. Il pluralismo delle visioni etiche, dei modelli di giustizia, delle idee di bene comune e di felicità pubblica fa il resto. Da un lato, infatti, si lamenta la crisi della democrazia, la sua atrofizzazione in una dimensione puramente formale, addirittura l’irrilevanza dei suoi circuiti e delle sue procedure rispetto all’assetto imperioso dei poteri reali; dall’altro, però, qualunque istanza materiale di “bene”, qualunque proposizione di scopi viene relegata nell’ambito di ciò che, non essendo universalizzabile, non può autorizzare alcun obbligo politico né deve quindi piegare le linee della razionalità liberaldemocratica a fini spuri e allotri.

Sembra una rappresentazione obiettiva e neutrale della legittimità del potere in una società democratica; non lo è. Appartiene di sicuro al senso comune, ma è intrisa di ideologia. Dipende addirittura da una metafisica, così come da una metafisica dipendono, se ne sia o no consapevoli, le distinzioni fra razionalità formale e materiale, oppure fra fatti e valori, fra essere e dover essere, oggettivo e soggettivo, che vengono invece solitamente assunte – almeno nel dibattito corrente – come ovvie e indiscusse. Penetrare i fondamenti teorici della crisi della democrazia non richiede perciò soltanto una ricognizione dei fenomeni reali che non si lasciano contenere dentro la concettualità politica moderna, ma anche una riconsiderazione di questa stessa concettualità, la cui tenuta teoretica, filosofico-politica, è stata seriamente compromessa nel corso del Novecento.

Naturalmente, non basta accantonarla. Accantonarla significherebbe dare la stura a proposte di carattere regressivo, premoderno, che spesso si limitano a suggerire di inoculare un po’ di sostanza etica nelle esangui forme delle democrazie liberali, proposte che vanno oggi sotto il nome o la divisa di un recupero della tradizione aristotelica, di una Rehabilitierung der praktischen Philosophie, di revival più o meno religiosamente ispirati di morale naturale, di forme di comunitarismo variamente declinate. Significherebbe soprattutto compromettere, se non rinunciare del tutto all’istanza democratica di una legittimazione dal basso del potere pubblico e al suo potenziale di emancipazione; significherebbe congedarsi dalle aporie della modernità congedando tout court la modernità, la suaeredità di diritti e di garanzie, e rigettare la mediazione giuridico-politica, i suoi lacci ma anche le sue tutele, in nome di un’immediatezza politicamente irrealistica (nella versione palingenetica che si dice radicalmente critica) o politicamente pericolosa (in quella che non nasconde, o al massimo edulcora, il suo carattere reazionario).

Accantonarla no, dunque. Liquidare il grande racconto della modernità non è operazione consigliabile. Soprattutto, è frutto di una certa precipitazione concettuale: dal fatto che non è possibile fornire piena legittimazione a quelle istanze materiali, a quei bisogni collettivi, a quelle dinamiche partecipative da cui dipende effettivamente il legame sociale, e che chiedono di tenere bene in vista il fine della pubblica felicità, si conclude che, dunque, la tradizione razionalistica del diritto moderno, in affanno dinanzi ai problemi concreti posti dalla globalizzazione, dal governo tecnico delle vite, dal ritorno politico del religioso, va messa senz’altro in liquidazione. Come se là, dove manca la giustificazione formale-razionale, mancasse anche ogni senso di giustizia, e dunque ogni convalidabile titolo politico.

E invece è esattamente il contrario: proprio perché circola un qualche senso di giustizia, è possibile che attecchisca e prenda piede il discorso giuridico, formale-razionale, della giustificazione. Ma questa proposizione, con la quale percorriamo la strada del ritorno verso la proposizione di buon senso dalla quale abbiamo cominciato, richiede una piccola metabasis eis allo gheno, un (temporaneo) mutamento di registro.

Che si possa parlare senza giustificazione (Rechtfertigung) e tuttavia non a torto (zu Unrecht) è infatti il perno della soluzione wittgensteiniana del cosiddetto paradosso della regola, proposto e affrontato nelle “Ricerche filosofiche”.3 Il quale paradosso consiste (per farla breve) in ciò: che nessuna regola contiene la regola della sua applicazione, e soprattutto che nessun fatto può fornire il fondamento della sua vigenza. Non solo fatti del genere non ve ne sono, ma è frutto di un grave fraintendimento filosofico ritenere che, invece, ci debbano essere, e considerare dunque che, essendo le regole prive di una tal base e non potendo esse fondarsi su altre regole senza che si riproponga il problema del loro fondamento, le regole in questione sarebbero semplicemente infondate. Solo l’ansia dicercare fatti, per dir così, superlativi, indiscussi e indiscutibili, che abbiano un simile potere di giustificare, procura poi, rimanendo inevitabilmente tale ansia delusa, l’impressione drammatica che manchi qualcosa, che alla regola manchi il terreno sotto i piedi, e che dunque possa essere bellamente soppiantata. Gli alti lai sul nichilismo contemporaneo, l’angoscia relativistica del nostro tempo, sono semplicemente il frutto di una richiesta spropositata, esorbitante, e, in fondo, scorretta. Si immagina di aver bisogno di un criterio assoluto, e assolutamente fondato, si crede persino che queste parole abbiano un senso compiuto, e quando si scopre che un tale criterio non v’è si immagina, per inevitabile contraccolpo, di non aver per le mani nulla, e che nulla valga veramente la pena.4

E invece si può parlare senza giustificazione, e tuttavia non a torto. Questi discorsi costituiscono anzi l’autentico e reale fondamento della forma di vita democratica. Non trovando il paradosso della regola soluzione in altre regole o in fatti specialmente qualificati, Wittgenstein indicava infatti nella forma di vita comune il terreno naturale al quale ricondurre il gioco, così caratteristicamente umano, del follow the rule, del seguire la regola.

Tutto dipende però da come si descrive un tale terreno (e anche dalla consapevolezza che questa stessa descrizione appartiene a quel terreno, e non ne mostra riflessivamente i rilievi senza intervenire performativamente sulla sua formazione). Di una forma di vita non si dà infatti adeguata descrizione, qualora la si presenti come una mera congerie di fatti atomici slegati fra loro. Una presentazione empiristica dell’effettività della vita sociale al di là del bene e del male, dei torti e delle ragioni, è solo la conseguenza – più o meno voluta – del drastico assottigliamento della ragione alla sola dimensione della validità formale-universale. Di una simile presentazione rimangono vittima anche quanti ritengono che lo Stato moderno non sia dotato, per via della sua neutra rigidità formale, di quel tesoro di valori di cui andrebbe dunque rifornito (come se lo Stato costituzionale non fosse in realtà già pieno fino all’orlo di valori). Ritornare alla forma di vita non significa perciò compiere un passo indietro verso tradizioni che andrebbero rimesse a giorno, in modo da rimpinguare uno spazio pubblico di per sé anemico. In senso proprio, non è affatto un ritorno, e non è di ritorni che la politica ha bisogno, così co-me non ha bisogno di aggiunte surrettizie, di complementi o supplementi. In simili proposte, la forma di vita comune viene erroneamente pensata in meri termini di fatto, e di radici e identità date che la spoliticizzazione moderna avrebbe corrotto, e che andrebbero recuperate.

Forma di vita non significa, invece, nulla di già compiuto, di già costituito, ma qualcosa come una potenza e un divenire. Con una bella espressione rubata a Maurice Merleau-Ponty, che la riferiva addirittura al mondo, si dovrebbe dire infatti: la democrazia esiste allo stato interrogativo, esiste cioè come un compito. Come cosa da farsi e da inventarsi. E compito della democrazia è appunto assegnare alla democrazia dei compiti, e agli uomini un futuro. Questo è davvero il fine della pubblica felicità che la democrazia deve proporsi, senza giustificazione e tuttavia non a torto, in quanto è prescritto non in astratte proposizioni giuridiche, o suggerito in generose prospettive filosofico-politiche di natura normativa, che spesso si limitano però ad accomodare i termini del problema politico alle esigenze della teoria, ma in quanto è radicato nella concreta dimensione esistenziale e materiale di vita degli uomini. Nella nostra forma di vita, che è e resta, sotto questo aspetto, assolutamente moderna. Poiché non è vero che la modernità non ha fatto altro che privare di caratteri sostantivi l’idea di felicità, che in Aristotele trovava fondamento ontologico nella natura umana, consegnandola ai bisogni e ai desideri privati degli individui singoli. Dare a tutti gli uomini un futuro non era infatti nell’ideale di vita buona e felice degli antichi, ed è invece la sostanza comune, nient’affatto formale o neutrale, della speranza moderna di felicità.

Da tale speranza conseguono compiti, esigenze, programmi, e soprattutto una risorsa di legittimazione alla quale è compito della politica continuare ad attingere, resistendo a quella cancellazione del futuro che è davvero «l’autentico male che oscura e incupisce i nostri anni».5

[1] Questa e le altre citazioni aristoteliche incluse nel testo sono tratte da Aristotele, Etica nicomachea, Rizzoli, Milano 1986.

[2] Con le «promesse non mantenute della democrazia» abbiamo naturalmente inteso richiamare una celebre espressione di Norberto Bobbio. Cfr. N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 2005.

[3] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1999. Wittgenstein aveva tuttavia presenti, come luoghi esemplari di riflessione sullo statuto delle regole, la psicologia e la matematica.

[4] Guardare, muovendo da queste considerazioni, al confronto più caratteristico del XX secolo nell’ambito della filosofia del diritto, quello fra il normativismo di Hans Kelsen e il decisionismo di Carl Schmitt, consente di dare torto a entrambi: all’invenzione kelseniana della Grundnorm così come alla richiesta “ultima” di decisione in Schmitt. L’una e l’altra soluzione hanno infatti il torto di voler essere, appunto, delle soluzioni, e cioè di vedere un problema e approntare un fondamento, formale-razionale oppure concreto-esistenziale, dove invece non occorre.

[5] A. Schiavone, Storia e destino, Einaudi, Torino 2007, p. 5.