Più welfare per crescere?

Written by Alessandra Casarico Friday, 17 January 2014 17:46 Print

Malgrado lo Stato sociale rivesta due funzioni principali, quella redistributiva e quella assicurativa, nell’analisi accademica degli ultimi anni è stata la prima a prevalere, producendo un’interpretazione della spesa sociale come ostacolo alla crescita economica. Non sono però mancati segnali recenti di un’inversione di rotta, come gli obiettivi che l’UE si è posta nella strategia Europa 2020 e lo spostamento dell’attenzione del dibattito dal tema della distorsione degli incentivi a quello della promozione del progresso sociale. Si è altresì imposta la consapevolezza che intervenire in alcuni capitoli della spesa sociale, quali ad esempio la tutela del lavoro femminile e i servizi per l’infanzia, drammaticamente trascurati nel nostro paese, permetterebbe non solo di conciliare lavoro e famiglia, ma soprattutto di avviare il cambiamento.


INTRODUZIONE

Il termine “welfare State” o “Stato sociale” si riferisce all’insieme di istituzioni che svolgono in via principale due funzioni: redistribuire risorse e fornire assicurazione contro determinati rischi. Nella funzione redistributiva rientrano in senso stretto gli interventi volti ad assicurare un ridimensionamento del grado di disuguaglianza presente in una determinata società e un rafforzamento dell’inclusione e della coesione sociale. Alla funzione assicurativa appartengono, invece, le istituzioni che garantiscono copertura contro i rischi di malattia, vecchiaia, invalidità, disoccupazione che possono colpire gli individui, riducendone le potenzialità di reddito, e i meccanismi che consentono agli individui stessi di redistribuire risorse lungo l’arco vitale.

Sebbene nell’articolazione dello Stato sociale si possano individuare sia finalità di coesione sociale sia, e più significativamente, finalità assicurative giustificate dal venir meno di alcune delle condizioni che determinano l’ottimalità del meccanismo concorrenziale, a partire dalla fine degli anni Ottanta si è diffusa, sia nel dibattito di politica economica sia nell’analisi accademica, una rappresentazione dello Stato sociale che tende a enfatizzarne soprattutto i costi in termini di distorsioni all’attività economica e al funzionamento del mercato. La lettura dell’intervento pubblico ha preso in considerazione in modo prevalente – quando non esclusivo – la dimensione redistributiva,1 interpretando la spesa sociale come ostacolo alla capacità del sistema economico di generare crescita.

In una prospettiva storica, la rilevanza della finalità assicurativa dello Stato sociale e la possibilità che esso sostenga la crescita piuttosto che comprometterla sono state elemento ispiratore dell’introduzione degli istituti dello Stato sociale: come ricordato da Atkinson,2 una delle ragioni della costruzione del sistema di assicurazione sociale bismarckiano era la creazione di un complemento ai nuovi rapporti di lavoro che si stavano sviluppando a fine Ottocento. La presenza di una garanzia per il lavoratore a fronte di perdite di reddito determinate da malattia, disoccupazione o invalidità era vista positivamente anche dai datori di lavoro. Quando Beveridge formulò il piano per la sicurezza sociale nel 1942, lavorò con Keynes in modo che gli obiettivi macroeconomici e di politica sociale potessero essere congiuntamente perseguiti. Più in generale, come richiamato da Artoni e da chi scrive,3 l’idea di fornire protezione e assicurazione pervadeva le scelte compiute negli anni di fondazione degli istituti dello Stato sociale. L’obiettivo redistributivo, seppur presente, sembrava secondario; gli eventuali effetti redistributivi generati ex post dallo Stato sociale erano accettati come componente naturale del meccanismo assicurativo e non venivano a essi attribuiti costi particolari.

Sebbene ci siano margini per riformare lo Stato sociale in modo da eliminare gli incentivi perversi che hanno caratterizzato alcuni dei suoi istituti, è importante che abbia inizio una nuova fase in cui, ritornando alle motivazioni originarie dell’introduzione dello Stato sociale, quest’ultimo sia considerato e ridisegnato come un complemento alla crescita. In questo breve intervento, dopo aver richiamato i principali dati relativi alla spesa sociale, presenterò le ragioni essenziali dell’assedio allo Stato sociale nei decenni passati e individuerò alcuni segnali che suggeriscono che i tempi potrebbero essere maturi per ricominciare a considerare lo Stato sociale come un fattore produttivo, elemento che facilita, asseconda e addirittura guida il cambiamento. Mi concentrerò, infine, su una particolare voce di spesa dello Stato sociale che, a mio giudizio, rappresenta un esempio di come obiettivi sociali ed economici possano non essere in contrapposizione ma complementari.

 

L’ASSEDIO ALLO STATO SOCIALE

La spesa sociale in rapporto al PIL (ossia la spesa destinata dalle amministrazioni pubbliche a malattia, invalidità, famiglia, vecchiaia, superstiti, disoccupazione, abitazione, esclusione sociale) nel 2011 nei paesi dell’Europa a 15 più Svizzera e Norvegia oscillava tra il 19% di Malta e il 33% della Danimarca (Dati Eurostat, ESSPROS database). L’Italia aveva una spesa sociale in rapporto al PIL pari al 28,4%, nono paese per generosità nella spesa, preceduto, oltre che dai paesi nordici, da paesi dell’Europa continentale come Paesi Bassi e Belgio (nell’ordine) e sostanzialmente in linea con la Germania. Il tema del “livello assoluto” è tanto rilevante quanto quello della “composizione” della spesa sociale. Come è noto, la funzione che in Italia assorbe la quota maggiore di risorse è la vecchiaia (14,8%); la spesa per la malattia è sotto la media europea e la spesa per famiglia e disoccupazione è a livelli molto contenuti. Della spesa complessiva per la protezione sociale, la maggiore parte è rappresentata da benefici universali, mentre la quota sottoposta alla prova dei mezzi è minoritaria e prevalentemente concentrata nelle funzioni di esclusione sociale, famiglia e abitazione. Dal 2007 al 2009 la spesa in percentuale del PIL è aumentata sensibilmente, per poi diminuire. Trend simili si osservano ad esempio in Svezia, Germania e Regno Unito. In Francia, invece, la spesa sociale in percentuale del PIL è rimasta a livelli identici a quelli raggiunti nel 2009.

In questo quadro, quali i principali fattori di sfida alla sostenibilità finanziaria, economica e politica dello Stato sociale? Perché lo Stato sociale è stato considerato un ostacolo all’efficienza invece che un supporto al suo raggiungimento? I cambiamenti demografi ci rappresentati dall’aumento nell’aspettativa di vita e dal declino nei tassi di fecondità hanno un impatto sul tasso di dipendenza e influenzano fortemente la sostenibilità finanziaria e il disegno istituzionale dello Stato sociale. La mobilità di merci, capitale e lavoro – la cosiddetta “globalizzazione” – da un lato aumenta la domanda di assicurazione da parte degli individui potenzialmente esposti a maggiore competizione e possibilità di sostituzione da parte di forza lavoro che gode di minori protezioni, dall’altro limita la capacità dei singoli paesi di disegnare in modo indipendente i propri strumenti di intervento in ambito sociale ed erode la base imponibile necessaria per poterli finanziare. Anche la lettura degli economisti sul ruolo dell’intervento pubblico e sui suoi obiettivi si è modificata nel tempo e ha contribuito a marginalizzare l’interpretazione tradizionalmente positiva dell’intervento pubblico nella sfera sociale. Dalla descrizione di un’economia in cui informazione asimmetrica e fallimenti di mercato sono pervasivi, gli economisti hanno in anni più recenti privilegiato l’analisi degli effetti dello Stato sociale sulle variabili macroeconomiche in contesti in cui tutte le parti coinvolte nello scambio posseggono le stesse informazioni e in cui i fallimenti dei governi sono più pericolosi rispetto a quelli di mercato.4 Ai benefici dello Stato sociale in termini di coesione sociale e minor rischio si sono contrapposti i costi in termini di ridotti incentivi allo sforzo individuale,5 sia sul mercato del lavoro sia sul risparmio. Al benessere sociale come principale obiettivo dell’azione pubblica si è contrapposta la crescita economica come metro principale del successo o del limite dell’intervento pubblico, di fatto escludendo considerazioni equitative dai criteri di valutazione degli effetti delle politiche sociali stesse.

 

LA FINE DELL’ASSEDIO?

Di recente, si sono diffusi segnali di un possibile cambiamento di rotta nella valutazione dell’impatto dello Stato sociale e nella scelta dei criteri in base ai quali si misura l’efficacia delle politiche sociali. Un primo segnale viene dagli obiettivi che l’Europa si è posta nella strategia “Europa 2020”: il mero riferimento alla crescita economica come criterio per l’azione di politica economica è stato sostituito da crescita equa e inclusione sociale. Questa scelta segnala che gli obiettivi sociali non sono più considerati in contrasto e competizione con quelli economici, ma che ci sono spazi per ritornare alla visione originale e originaria del ruolo dello Stato sociale. Questo cambiamento riflette il dibattito più ampio che si è sviluppato negli ultimi anni su quali siano le misure appropriate del benessere di una collettività e sull’importanza di superare il riferimento esclusivo al prodotto interno lordo.6 Agganciare l’azione politica al perseguimento di una crescita equa che garantisca l’inclusione sociale aumenterebbe anche la legittimazione delle politiche adottate dai governi e aprirebbe la strada a cambiamenti più incisivi nelle politiche stesse.7

Un secondo segnale viene dallo spostamento dell’attenzione nell’analisi degli effetti dello Stato sociale dal tema della correzione e riduzione dei disincentivi che crea alle potenzialità che ha come fattore di sostegno e promozione del cambiamento sociale.8 Alcuni dei cambiamenti più significativi che hanno interessato l’economia e la società negli ultimi decenni sono l’aumento nell’istruzione femminile e l’incremento nella partecipazione femminile al mercato del lavoro. Questi processi hanno portato alla necessità di una revisione dell’organizzazione del lavoro all’interno delle famiglie. I risultati macroeconomici che osserviamo sull’occupazione hanno origine nella microeconomia delle decisioni familiari su come allocare i compiti di cura e su chi debba avere un lavoro remunerato sul mercato. Il cambiamento del ruolo delle donne nell’economia e nella società è stato qualificato da Goldin9 come rivoluzione silenziosa e più di recente da Esping-Andersen10 come rivoluzione incompiuta. Parte dell’incompiutezza, che è particolarmente significativa all’interno del nostro paese (in Italia meno di una donna su due lavora e le riduzioni nel differenziale di genere nell’occupazione tra uomini e donne negli ultimi anni sono sostanzialmente dovute al maggiore incremento nella disoccupazione tra gli uomini), è attribuibile all’incapacità del sistema di protezione sociale di accompagnare e assecondare, se non addirittura di guidare, questo cambiamento. Sebbene sulla base dei dati OCSE in tutti i paesi che appartengono all’organizzazione, con l’eccezione della Germania, il sistema di imposte e benefici favorisca complessivamente le famiglie in cui ci siano due percettori di reddito rispetto alle famiglie monoreddito, rimane la questione della diversa generosità dei paesi nei confronti di famiglie e bambini. Se guardiamo ai dati per una selezione di paesi europei, notiamo come la spesa per famiglie e bambini sia al 4% in Danimarca, attorno al 3% in Francia e Germania e ferma all’1,4% in Italia.

Discorso analogo può essere avanzato sui servizi all’infanzia, che nel nostro paese sono disponibili per un numero molto limitato di bambini, soprattutto al Sud: l’Europa negli ultimi anni ha posto l’accento sull’importanza di servizi all’infanzia di qualità come strumento di rafforzamento del capitale umano e di promozione dell’uguaglianza di opportunità. La disponibilità di un servizio all’infanzia sarebbe, quindi, un investimento nelle generazioni future11 e non solo uno strumento per consentire la conciliazione tra lavoro e famiglia. Misure di austerità che investano questa componente di spesa (ad esempio una riduzione nei sussidi a questi servizi o la cessazione dell’offerta gratuita) sono dannose per la crescita sia nel breve periodo, perché potrebbero deprimere l’occupazione, sia nel lungo periodo, perché limiterebbero l’investimento in capitale umano.

 

CONCLUSIONI

Negli ultimi anni abbiamo assistito a una forte trasformazione nella struttura dei bisogni sociali e all’emergere di nuovi rischi: non autosufficienza, precarietà lavorativa, mancato sviluppo o rapida obsolescenza del capitale umano, difficoltà di conciliare responsabilità lavorative e familiari, che riguarda in maniera particolare le donne.

L’analisi teorica si deve chiedere quale sia il modello di protezione sociale che fornisce la risposta più appropriata alle grandi modificazioni strutturali – economiche, sociali e demografi che – e ai nuovi bisogni emergenti. Riteniamo che un modello assicurativo generalizzato possa continuare a essere un’opzione valida; ci sono, infatti, degli ambiti in cui la capacità del mercato di offrire copertura nei confronti dei grandi rischi dell’esistenza è molto limitata. Riteniamo anche che lo Stato sociale possa essere motore e non ostacolo al cambiamento.

Negli ultimi anni è cresciuta la consapevolezza di come interventi in alcune aree della spesa sociale possano favorire una crescita equa, ma manca ancora nel nostro paese un’azione riformatrice che vada in questa direzione. C’è una strada chiara che occorre cominciare a percorrere.

 


 

[1] Per una discussione di questo punto si veda G. Casalone et al., Lo Stato sociale: oltre la redistribuzione, in G. Arachi et al. (a cura di), Economia pubblica e istituzioni. Scritti di e per Roberto Artoni, il Mulino, Bologna 2012.

[2] A. B. Atkinson, Ensuring Social Inclusion in Changing Labour and Capital Markets, 2013, mimeo.

[3] R. Artoni, A. Casarico, Insurance, Redistribution and the Welfare State: Economic Theory and International comparisons, in L. Costabile (a cura di), Institutions for Social Well-Being. Alternatives for Europe, Palgrave Macmillan, Basingstoke-New York 2008.

[4] Su questo punto si vedano K. J. Arrow, Uncertainty and the Welfare Economics of Medical Care, in “The American Economic Review”, 5/1963, pp. 941-73; J. Hassler et al., The Survival of the Welfare State, in “The American Economic Review”, 1/2003, pp. 87-112; A. Leijonhufvud, Macroeconomics and the Crisis: A Personal Appraisal, in “CEPR Policy Insight”, n. 41, 2009.

[5] M. Feldstein, Rethinking Social Insurance, in “The American Economic Review”, 1/2005, pp. 1-24.

[6] Si veda a questo proposito European Commission, GDP and Beyond: Measuring Progress in a Changing World, Bruxelles 2009 (COM[2009] 433).

[7] Secondo Atkinson il processo decisionale in materia di politica economica non dovrebbe partire dal PIL come indicatore chiave, ma dall’individuazione degli strumenti di politica macroeconomica, per valutare solo infine l’impatto sociale della loro adozione. Gli standard di vita e il benessere degli individui e delle famiglie dovrebbero rappresentare il punto di partenza e le politiche macroeconomiche, o qualsiasi altra politica, dovrebbero essere solo uno strumento piuttosto che un fine in se stesso. A. B. Atkinson, Putting People First and Macro-economic Policy, 2013, mimeo.

[8] Come sottolinea di recente Krugman in un articolo sulla sicurezza sociale americana (P. Krugman, Expanding Social Security, in “The New York Times”, 21 novembre 2013), parte della rivalutazione dello Stato sociale passa anche attraverso il parziale insuccesso delle soluzioni private che erano state annunciate come superiori all’intervento pubblico universalistico.

[9] C. Goldin, The Quiet Revolution That Transformed Women’s Employment, Education, and Family, in “The American Economic Review”, 2/2006, pp. 1-21.

[10] G. Esping-Andersen, The Incomplete Revolution. Adapting to Women’s New Roles, Polity Press, Cambridge 2009.

[11] Numerose ricerche documentano come la qualità della cura ricevuta nella prima infanzia sia cruciale per la performance scolastica e lavorativa futura. Si veda ad esempio F. Cuhna, J. Heckman, The Technology of Skill Formation, in “The American Economic Review, 2/2007, pp. 31-47.