Roma e la presenza della Chiesa

Written by Alberto Melloni Tuesday, 19 March 2013 09:36 Print

Ogni riflessione sul rapporto fra la Chiesa cattolica e la città di Roma non può prescindere da una considerazione iniziale: il papa è anche vescovo della città e, in quanto tale, pur con i differenti gradi di episcopalizzazione del ruolo petrino sperimentati dai diversi pontefici, continua a volgere alla città uno sguardo particolare, senza con questo voler essere, o riuscire ancora a essere, quell’entità eterna ed eternamente incombente sulla vita politica nazionale e locale cara a tanta retorica.

Mentre questo numero era in lavorazione un evento senza precedenti recenti – la rinunzia di Benedetto XVI all’ufficio – correggeva le ortografie più consuete e spesso più banali relative alla relazione fra la Chiesa cattolica e la città di Roma. Il papa bavarese ha abbandonato il ministero di successore di Pietro, ha reso vacante la sede della sua cattedrale lateranense, ha avviato le procedure per eleggere un nuovo vescovo di Roma. Perché è quello il cuore dottrinale di un rapporto che ha mille altri addentellati storico-politici, ma che non è assorbito da quelli e non può essere confuso con quelli.

Anche se è spesso stato così. La metafora spadoliniana di un Tevere a geometria variabile, dove il Vaticano si approssima o si distanzia da una rive gauche sede dei poteri politici, è stata infatti solo una delle tante figure intriganti e insieme fuorvianti applicate all’oggetto. Ma come e più delle altre ha aiutato a non capire quasi nulla di ciò che s’è mosso nella Chiesa cattolica e ciò che, a valle della clamorosa “dimissione” papale, continuerà a dispiegare conseguenze e ritorni. Non è solo un gusto di pignoleria teologica o un dato di vetusta precisione, ma immaginare “il Vaticano” come una entità eterna ed eternamente incombente sulla vita politica italiana è una forma di autoassoluzione di debolezze politiche e di concimazione di stizzosità anticlericali che non hanno fondamento. Mentre riuscire a fissare ciò che è accaduto – Francesco Margiotta Broglio curò per gli Annali della “Storia d’Italia” Einaudi questo nesso nel 2000 – e ciò che va accadendo sul piano del rinnovamento ecclesiologico del cattolicesimo romano è decisivo per non confondere cause ed effetti.

Roma è l’ultimo angolo di potere temporale al quale il papa deve rinunciare: e, dunque, l’ultimo territorio sul quale il papa-re ha esercitato funzioni sovrane, amministrato la giustizia e il governo, sparso il sangue dei sudditi condannati alla pena capitale, non ultimi i patrioti. Pio IX questo potere lo perde due volte, a spese della Repubblica romana, e poi, ventidue anni dopo, a spese del Regno d’Italia e in modo definitivo. In quel frangente – come ha mostrato uno studio di Saretta Marotta per “Cristianesimo nella storia” – la segreteria di Stato spinge i militari sabaudi a varcare i ponti e a occupare i rioni Trastevere e Borgo, con la chiara convinzione che un papa che ha perso il potere temporale non debba e non possa amministrarlo su un coriandolo di terra. Tuttavia, pur avendo consapevolmente rinunciato a una sovranità effettiva, la Santa Sede non cessa di guardare Roma con occhi antichi: l’usanza di darle governo pastorale attraverso un cardinal vicario, di affidare chiese e parrocchie alle realtà emergenti della Chiesa fossero essi i religiosi o i movimenti laicali, lo sforzo per costituire a portata di sguardo un capitale immobiliare di rilievo e i tentativi di garantire una mobilità finanziaria esente da minacce e controlli, tutto ciò dice che nel tempo la Santa Sede rimane convinta che il rapporto con Roma sia non solo, ma prima di tutto, un rapporto di reciproca protezione e non un rapporto pastorale. Sarà Roma “città sacra” del concordato Gasparri-Mussolini a definire in modo formale una qualifica che verrà fatta valere – ora dall’alto ora dal basso – nelle circostanze più varie: dall’occupazione nazista del 1943- 44 (durante la quale lo stesso ebraismo italiano s’illude di essere protetto dal suo ex sovrano), alla messinscena de “Il Vicario” di Hochhuth nel 1963, al momento della Gay Pride Parade del 2000.

È con il pontificato di Giovanni XXIII che si riaffaccia invece la più antica, dimenticata e tradizionale dimensione del papa: quella di vescovo di Roma. Qualificazione non certo preteribile del ministero petrino, ma rimasta come nascosta dall’insieme di attribuzioni e laudi di cui l’ufficio papale s’è rivestito nel tempo, fino a dare a un titolo assunto dalla religione romana (il “pontefice”) una valenza maggiore che quella episcopale. Roncalli “fa il vescovo” a Roma: convoca il primo sinodo romano, visita l’ospedale e il carcere, va in visita alle parrocchie e prende possesso in modo non formale della cattedra del Laterano; non ci sono riscontri puntuali sull’idea di tornare a risiedere nel palazzo lateranense come i suoi antichi predecessori, ma già questo fa intendere come quel principio sia stato sentito, elaborato, vissuto. “W il vescovo di Roma” sta scritto in un lenzuolo appeso nei pressi di Santa Sabina per una visita di Roncalli e dice come una svolta di grande significato ecclesiologico ed ecumenico abbia avuto corda e spazio.

Montini e Giovanni Paolo II intensificano questo rapporto con Roma, ciascuno a modo suo. Montini visitando la città e convocando nel turbolento inizio degli anni Settanta un convegno sui “mali di Roma” che mostrerà un cambio di passo politico. Infatti, usando l’argomento che Roma “città sacra” non poteva cadere in mano a una giunta di sinistra il partito clerical-reazionario studiato da Andrea Riccardi – il “partito romano” – aveva immaginato vent’anni prima di costruire una alleanza apparentemente civica fra cattolici e neofascisti, che mentre si ammantava del compito di “proteggere” il papato da un’onta, voleva collaudare la possibilità di svolte reazionarie di portata maggiore. Paolo VI, ostile per storia e natura a quei disegni di forzatura antidemocratica, non aveva invece abbandonato il sostegno alla DC, ma al tempo stesso non aveva impedito la militanza a sinistra o nel PCI di chi vedeva i democristiani come i responsabili del sacco della città.

Il papa polacco – primo vescovo “forestiero” dai tempi di Adriano VI – non conosce queste sfumature. E vive Roma come una città alla quale applicare il proprio programma pontificale di riconquista alla fede di uno “spazio pubblico” da scuotere con una serie di mobilitazioni: anche se il nuovo concordato Casaroli-Craxi ha coraggiosamente intestato alla Conferenza episcopale la riscossione di una somma che si rivelerà più ingente del previsto, non è la Chiesa italiana che gestisce Roma, ma il papa e un nuovo anello di movimenti che orbitano attorno alla figura del pontefice e che riempiono il paesaggio con nuovi seminari, nuove facoltà, nuovi insediamenti.

Wojtyla non riempie Roma solo con il suo peregrinare, ma anche con gesti simbolici che per converso restituiscono alla città la sua funzione “capitale”: la visita storica alla sinagoga della sua città rende Roma epicentro di un ripensamento delle relazioni ebraico-cristiane, la sua esplicita militanza antirazzista mediata dalla Caritas di Di Liegro segna un impegno esemplare nella capitale per tutta Italia, l’adunanza dei movimenti della Pentecoste del 1988 ribadisce che è a Roma che si devono centrare e poi, più oltre, il Giubileo del 2000 e i suoi funerali manifestano la insensatezza e la impossibilità di pensare Roma senza il suo vescovo – in anni di politica debole un riferimento progressivamente surclassato da Camillo Ruini che diventa vicario di Roma e presidente della CEI per oltre un quindicennio. La rielezione di uno “straniero” nell’aprile 2005 avviene però in questo solco: lo scarso entusiasmo di Benedetto XVI per le folle si riflette sul rapporto con le parrocchie e col clero; Ratzinger sceglie però una figura non politica come proprio vicario per Roma e il cardinal Vallini gestisce un territorio nel quale un episodio gravissimo e sul piano canonico molto discutibile – il diniego dei funerali a una famiglia che li chiede per un proprio congiunto – aveva lasciato una cicatrice vistosa. Diventando papa, Ratzinger aveva fatto una scelta apparentemente marginale: aveva cioè deciso di non usare nel proprio stemma pontificale il triregno, già abbandonato da Paolo VI, e di porvi in testa una mitria episcopale. A sottolineare come l’autore con Karl Rahner di “Primato e collegialità” non aveva bisogno che gli si spiegasse che la qualifica episcopale del titolare della sede di Pietro e Paolo non era una diminutio, ma un consolidamento autorevole.

Quando l’11 febbraio 2013 quel papa ha rinunciato all’ufficio di vescovo di Roma ha così sancito, con la forza e la drammaticità di un gesto, che il processo di episcopalizzazione del ruolo petrino aveva superato la soglia di non ritorno. E che dunque Roma poteva guardare oltre Tevere non come alla fonte di minacce politiche, ma come si guarda a un pezzo di un paese ammorbato dal populismo, dalla corruzione, dalla vulnerabilità a spinte autoritarie e a interessi, non dissimili da quelli che si trovano oltre Po oppure oltre Vulture: un pezzo d’Italia, uguale agli altri componenti di questo italico Arlecchino, che può essere risanato da un comportamento sano e sanificante sul piano politico, reso pericoloso da atteggiamenti pericolosi, ignorati da sentimenti ignoranti.

Con un di più: il vescovo di Roma è primate d’Italia. E così come s’è assuefatto per secoli all’idea di non governare la propria diocesi, s’è anche disabituato al suo primo e principale potere, che è quello di poter leggere metro per metro un territorio che la politica sonda con le spanne della tecnologia, della sociologia o del lume di naso. Per decenni, anzi, s’è creduto a una influenza ecclesiastica sul voto che non esiste: è solo questo radicamento capillare che rende il mondo cattolico capace di essere il campione più perfetto del paese e dunque, quando chi lo guida ne ascolta i sussulti, dà l’illusione ottica di guidare movimenti che in realtà, semplicemente, lo muovono. Spesso – è stato il caso di Martini, Cè, Tettamanzi – i vescovi sono stati in grado di presentire la pericolosità di smottamenti separatisti o xenofobi e hanno usato tutta la loro capacità di tenuta per impedire frane; altre volte hanno cavalcato onde comode. Roma e il suo vescovo non fanno eccezione in questo: il papato montiniano accompagnò la vittoria del PCI alle elezioni, mentre sotto Wojtyla s’è consumato un progressivo distacco con una amministrazione apparentemente devotissima e sempre meno capace di frenare i processi di dissoluzione sociale che colpiscono gli anziani, i giovani, le fragili famiglie dell’oggi precario. Sotto Ratzinger sono stati sommi e irrinunciabili principi che hanno guidato una visione della realtà molto schematica, dove si scontravano grandi “-ismi” (il relativismo, il nihilismo ecc.) e dove le persone concrete, i concreti cammini di vita o di fede, restavano privi di guida e di consolazione.

Il vescovo di Roma che succederà a Benedetto XVI riprenderà da qui, da una elezione nella quale il “populismo altruista” di una nuova forza politica mescola antichi richiami autoritari e meno antiche insofferenze per la Costituzione: un inizio per il nuovo vescovo di Roma che sarà da subito impegnativo.