L’ineguaglianza tra economia e politica. Recensione a Joseph E. Stiglitz, The Price of Inequality,

Written by Sergio Fabbrini Tuesday, 04 September 2012 15:02 Print

Quali sono le ragioni che hanno condotto a una drammatica ineguaglianza nei principali paesi occidentali – e negli Stati Uniti in particolare? Il volume del premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz costituisce una formidabile e documentata critica delle politiche di deregolamentazione dei mercati (definite generalmente come neoliberiste, da non confondere con neoliberali) che sono state introdotte prima negli Stati Uniti e poi in Europa negli anni Ottanta del secolo scorso. Secondo Stiglitz, negli Stati Uniti, l’esito di quelle politiche è stato una drammatica redistribuzione del reddito a favore dell’1% “super ricco” della popolazione, con relativo impoverimento del rimanente 99%.

 

Quali sono le ragioni che hanno condotto a una drammatica ineguaglianza nei principali paesi occidentali – e negli Stati Uniti in particolare? Il volume del premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz costituisce una formidabile e documentata critica delle politiche di deregolamentazione dei mercati (definite generalmente come neoliberiste, da non confondere con neoliberali) che sono state introdotte prima negli Stati Uniti e poi in Europa negli anni Ottanta del secolo scorso. Secondo Stiglitz, negli Stati Uniti, l’esito di quelle politiche è stato una drammatica redistribuzione del reddito a favore dell’1% “super ricco” della popolazione, con relativo impoverimento del rimanente 99%. Sia pure in forme più ridotte, tale redistribuzione a rovescio si è verificata anche in quei paesi europei, come la Gran Bretagna, che hanno adottato politiche radicali di privatizzazione e liberalizzazione.

I movimenti sociali che si sono sviluppati nel corso del biennio 2011-12 (come quello americano di Occupy Wall Street o quello europeo degli Indignados) costituiscono l’espressione di un malessere sociale che è destinato, secondo l’autore, ad accentuarsi. A questi movimenti, tuttavia, manca una teoria in grado di spiegare le ragioni del malessere e soprattutto di elaborare strategie alternative di governo della globalizzazione. Lo scopo del volume è appunto quello di fornire tale teoria. O per lo meno di fornire buoni argomenti con cui contrastare, nel mercato delle idee, l’egemonia finora acquisita dagli ideologi del mercato lasciato a sé stesso.

La critica economica di Stiglitz è sicuramente convincente, tuttavia la sua visione politica appare straordinariamente ingenua. Il volume dell’economista americano costituisce una lettura necessaria per criticare il neoliberismo, ma non è sufficiente per costruire un’alternativa politica a quest’ultimo.

Il fallimento del neoliberismo

La crisi finanziaria esplosa tra il 2007 e il 2008 negli Stati Uniti, ed estesasi all’Europa l’anno successivo, costituisce la testimonianza drammatica degli effetti che produce un’economia capitalistica priva di effi caci e indipendenti meccanismi di regolazione. Il volume di Stiglitz spiega con indiscutibile perizia economica perché i mercati non hanno funzionato come avrebbero dovuto. In un contesto di radicale deregolamentazione, il progressivo spostamento della ricchezza dalla produzione alla finanza ha trasformato il sistema bancario nell’arena dove sono state definite le principali strategie economiche, strategie coerenti con gli interessi propri di quel sistema. Privi di contro-bilanciamenti politici, i bankers sono così diventati i nuovi padroni delle ferriere, con la differenza che, contrariamente a questi ultimi, il loro interesse esclusivo è consistito nella produzione di beni immateriali piuttosto che nella costruzione di apparati industriali. Un’economia determinata dagli interessi del sistema finanziario ha finito per creare una rete di aspettative di guadagno svincolate dalla produzione effettiva di beni e servizi. E soprattutto ha legittimato i principali attori del sistema finanziario a conseguire profitti personali (sotto forma di bonus) senza alcuna correlazione con la ricchezza effettiva prodotta.

Anche se, precisa Stiglitz, non tutti i bankers hanno agito secondo modalità predatorie, si è tuttavia formato, negli Stati Uniti, un establishment finanziario dotato di formidabili risorse economiche e culturali per condizionare il processo politico democratico. Principalmente collegato al Partito repubblicano, ma con forti sostegni anche nel rivale Partito democratico, tale establishment ha potuto condizionare le campagne elettorali presidenziali e congressuali, precostituendo così coalizioni di supporto per le politiche di defiscalizzazione dei redditi alti e altissimi, oltre che delle ricchezze finanziarie. Tali politiche hanno comportato un deficit crescente del bilancio federale, che ha giustificato a sua volta una diffusa privatizzazione dei servizi pubblici. Ovvero un ridimensionamento dello Stato federale emerso dalle politiche riformiste del New Deal degli anni Trenta e della Great Society degli anni Sessanta del secolo scorso.

Seppure per strade diverse, un esito di radicale ridimensionamento dell’intervento pubblico si è verificato anche in Europa. In questo caso, però, è stata l’ortodossia finanziaria del pareggio di bilancio, promossa dalla Germania, che ha imposto un dimagrimento drastico dei programmi pubblici perseguiti nel passato dagli Stati membri dell’Unione europea, e in particolare in quelli che hanno adottato la moneta comune. Così, per Stiglitz, l’implicazione principale della crisi finanziaria è stata un’ulteriore messa in discussione dello Stato. Per l’autore è dunque paradossale che la crisi finanziaria, dovuta a un’espulsione dello Stato dall’attività di controllo dei mercati, abbia prodotto un ulteriore indebolimento dello Stato stesso e un approfondimento della sua delegittimazione. Ciò è avvenuto perché nel mercato delle idee si è affermata da tempo una visione antistatale dell’economia postindustriale. Ricorrendo alla teoria gramsciana dell’egemonia, Stiglitz giunge a spiegare la vittoria del neoliberismo con la sua supremazia culturale. La crisi finanziaria ha costituito la prima grande opportunità per mettere in discussione tale supremazia e per promuovere una visione politica capace di legittimare di nuovo lo Stato in quanto rappresentante degli interessi collettivi. Lo scopo ultimo del volume è fornire argomenti a favore di tale visione.


Il ritorno al neokeynesismo?

È indubbio che i mercati deregolati abbiano fallito. Ma è tutt’altro che certo che il ritorno allo Stato keynesiano possa costituire la risposta alle sfide sollevate dalla globalizzazione. È comprensibile che Stiglitz difenda le ragioni dello Stato in un paese, come gli Stati Uniti, che lo ha sempre guardato con sospetto. Tuttavia, nella sua difesa, Stiglitz tende a sottovalutare le implicazioni dell’intervento pubblico sulla società e l’economia. La stessa esperienza americana dimostra che lo Stato non è, per definizione, il rappresentante dell’interesse collettivo. In realtà, la crisi del liberalismo di quel paese negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso (e del Partito democratico che lo aveva tradotto in politiche e strategie) fu dovuta alla progressiva trasformazione dei programmi federali in risorse per alimentare interessi particolari (da quelli dei dipendenti pubblici a quelli delle comunità etniche).

Come da tempo hanno mostrato studiosi liberal come Theodore Lowi o communitarian come Robert Putnam, la trasformazione del liberalismo da ideologia dei diritti a giustifi cazione di rendite (interest groups liberalism) ha portato al suo declino nel mercato delle idee, oltre che alla sconfi tta del Partito democratico nell’arena elettorale. In realtà, la Terza via del presidente democratico Bill Clinton negli anni Novanta e il Pragmatismo di Barack Obama negli ultimi quattro anni costituiscono il tentativo (più o meno di successo) di salvare il liberalismo dall’ipoteca statalista. In entrambi i casi (e in particolare in quello di Obama), alla base dell’azione politica c’è stata l’idea che l’interesse collettivo non risieda necessariamente né nello Stato né nel mercato, ma in una loro combinazione virtuosa. Una combinazione che va ricercata volta per volta, secondo modalità che sono (e saranno) diverse in contesti diversi e in tempi diversi. Il mercato necessita di regolazione per potere funzionare as expected, ma uno Stato regolatore non è necessariamente uno Stato keynesiano. I mercati e le società debbono agire all’interno di parametri stabiliti da politiche pubbliche, non necessariamente politiche statali. L’interesse pubblico può essere dunque promosso anche dall’esterno dello Stato, anche se non certamente contro lo Stato.

Tale approccio sembra non convincere Stiglitz, che anzi rileva come la presidenza Obama non sia riuscita a introdurre il cambiamento promesso. Certamente egli è consapevole che la deregolamentazione del finanziamento delle campagne elettorali ha formidabilmente aiutato l’establishment finanziario e delle grandi corporations a condizionare il dibattito pubblico e congressuale (come si è visto durante la battaglia virulenta per bloccare l’approvazione della Patient Protection and Affordable Care Act nella primavera del 2010) così da neutralizzare i progetti di riforma indesiderati. Tuttavia, sottovaluta gli effetti della polarizzazione politica degli ultimi vent’anni che ha impedito ai democratici di promuovere politiche alternative, anche quando hanno controllato la presidenza.

Il governo diviso (cioè con maggioranza di un partito nell’esecutivo e maggioranza dell’altro partito nel legislativo) ha caratterizzato sei degli otto anni della presidenza Clinton e due dei quattro anni della presidenza Obama. In un sistema a separazione dei poteri, è difficile promuovere un cambiamento delle politiche se non si dispone di una maggioranza nelle tre istituzioni di governo (presidenza, Camera e Senato), oltre che nella Corte suprema. Pur avendo fatto parte dell’Amministrazione Clinton, l’economista Stiglitz sembra essere inconsapevole delle implicazioni decisionali del sistema di governo del suo paese.

Tale ingenuità politica emerge anche nell’analisi della crisi dell’euro, che viene interpretata come il derivato di un’ortodossia monetarista imposta da Germania e altri paesi nordeuropei al resto del continente. Certamente, quell’ortodossia è stata causa di non pochi problemi. Ma la crisi dell’euro ha radici più strutturali, non poche delle quali collegate alla precedente esperienza di un intervento pubblico lasciato a sé stesso.

Stiglitz avanza una visione dello Stato e delle sue capacità anticicliche – proposta anche come soluzione della crisi europea – che ha poco o punto correlazione con la realtà empirica di molti Stati membri dell’eurozona. Basti pensare all’Italia, che ha prodotto uno dei debiti pubblici più alti al mondo, senza che ciò abbia favorito la crescita economica, la riduzione delle diseguaglianze, l’incremento della produttività, la redistribuzione territoriale della ricchezza. Una verifica analoga potrebbe essere fatta in altri paesi europei dove lo Stato si è rivelato un vincolo piuttosto che una risorsa ai fini della riduzione delle ineguaglianze. In Europa, la crisi dell’euro potrà essere risolta solo da politiche molto più sofisticate di quelle derivate dagli schemi keynesiani. Tale soluzione richiederà un ridimensionamento dei programmi statali a livello degli Stati membri dell’eurozona e un rafforzamento delle politiche pubbliche perseguibile dalle istituzioni sovranazionali.


Conclusioni

Un moderno riformismo europeo non può affidarsi a schemi astratti per orientare la propria azione. Uno Stato più leggero deve costituire l’occasione per dare vita a uno Stato più efficiente, perché libero da condizionamenti interni che rispondano a interessi di parte e non a un interesse generale. Allo stesso tempo, un moderno riformismo deve individuare modalità efficaci, sul piano sovranazionale, per realizzare un sistema di regolazione politica dei mercati adeguato al livello e alle dimensioni di quest’ultimo. Non c’è un futuro, per le sinistre riformiste in Europa e negli Stati Uniti, se continuano a rimanere l’espressione di una coalizione di gruppi di interesse particolari. Certamente, l’economista non può possedere tutti gli strumenti analitici e concettuali per spacchettare lo Stato e capirne la logica interna. Tuttavia, lo scienziato politico non può esimersi dal rilevare i possibili effetti degenerativi di quest’ultima. Fatto si è che, nelle due sponde dell’Atlantico, l’esperienza empirica ci dimostra che l’alternativa tra Stato e mercato non è più nei termini in cui è concepita dai neoliberisti (a destra) e dai socialdemocratici (a sinistra). Il volume di Stiglitz va raccomandato alla lettura per la ricchezza della sua analisi economica. Ma è bene che chi lo legge tenga presente che la politica non è mai (e non è mai stata) un inevitabile derivato dell’economia.