Dare voce alla protesta: il sistema dell’informazione e l’antipartitismo

Written by Italianieuropei intervista Antonio Padellaro Monday, 09 July 2012 16:08 Print

Le elezioni amministrative dello scorso maggio hanno radicalmente mutato lo scenario politico nazionale. Rispetto al passato, il voto di “protesta” che le ha caratterizzate ha incrociato una forte debolezza del tessuto connettivo della politica, alle prese con una profonda crisi e con un diffuso sentimento antipartitico, descritto e amplifi cato dal sistema dell’informazione. Su questi temi Italianieuropei ha intervistato il direttore de “il Fatto Quotidiano”.

 

Italianieuropei Non possiamo non partire dal discutere dell’esito delle scorse amministrative e dei segnali che hanno lanciato: l’astensionismo e il carattere “di protesta” che questo voto ha evidentemente avuto. Qual è il suo giudizio su quanto accaduto?

Antonio Padellaro In Italia il voto di protesta è sempre esistito. Negli anni Settanta, Giorgio Almirante con il Movimento Sociale Italiano otteneva percentuali di voto perfino del 9-10%. Nell’immediato secondo dopoguerra, il Fronte dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini aveva avuto un boom di consensi ancora superiore, successivamente però venne riassorbito dai partiti tradizionali che erano allora diretta espressione del CLN. Anche l’exploit dell’MSI fu riassorbito, soprattutto per l’incapacità di Almirante di mettere a frutto quei voti, che finirono, come si disse allora, “in frigorifero”. Dopo di ché, non essendo più utilizzabili politicamente, in gran parte svanirono.

Negli anni Novanta, la Lega Nord è stata l’espressione più clamorosa di un dissenso territoriale che ha finito per diventare forza di governo. Non dimentichiamo che alle elezioni amministrative del 2010 la Lega è riuscita a concentrare su di sé gran parte del voto di protesta del Centro-Nord, sconfinando in Emilia-Romagna e in Toscana. Oggi la Lega è ridotta male, ma solo un paio di anni fa minacciava di annettersi perfino pezzi del partito di Silvio Berlusconi. Anche in quel caso, però, la ribellione più organizzata che si ricordi in Italia nei confronti dello Stato centrale ha finito per essere riassorbita proprio grazie a Berlusconi. Si tratta di un passaggio che il Cavaliere ha più volte rivendicato come un suo successo politico: aver portato questo movimento “eversivo” dentro il sistema, averlo tutto sommato ricondotto al rispetto della Costituzione, nonostante le parole d’ordine eversive sempre presenti nella retorica del Carroccio.

Rispetto al passato, però, oggi il voto di protesta incrocia una debolezza profonda del tessuto connettivo della politica. Mentre prima il sistema partitocratico riusciva a riassorbire questi fenomeni, li normalizzava e addirittura li usava, oggi la politica tradizionale si dibatte in una crisi tale da lasciare un vuoto in cui si può inserire di tutto: non sappiamo se buono, cattivo, democratico, antidemocratico.

È questa la realtà con cui è necessario fare i conti: quelle forme partito a cui la democrazia italiana si era adattata e abituata per oltre mezzo secolo non sono più contenitori di spinte, istanze, interessi e naturalmente culture politiche ma, avendo perso credibilità di fronte agli elettori, rischiano di ridursi a gusci vuoti.

IE Ma quale democrazia può esserci senza partiti? E, poi, è giusto mettere nello stesso calderone, e quindi condannare senza distinzioni, tutti i partiti, un’ intera classe politica?

A. P. I partiti svolgono una funzione essenziale in una democrazia degna di tale nome. Ma la loro sopravvivenza non può essere affidata a una rendita di posizione. Sono gli elettori che non si riconoscono in una politica che diventa sempre più casta. L’abitudine a confondere le acque e i problemi sembra, invece, la conseguenza di una difesa interessata di questa politica da parte di chi ne sfrutta le opportunità.

A proposito del Movimento 5 Stelle si è chiamata spesso in causa l’antipolitica, commettendo però un errore madornale e voluto, perché di Beppe Grillo e dei grillini si possono pensare le cose più diverse, ma non si può dire che incarnino l’antipolitica, visto che si sono candidati a gestire la “cosa pubblica”. L’antipolitica sta fuori dai canoni del controllo della democrazia e delle sue regole, e sceglie altre strade per imporsi. L’antipolitica ha in sé qualcosa di autoritario, di peronista; qualcosa che comprime le regole della democrazia e, appunto, dà la possibilità all’“uomo forte” di prevalere. Ma oggi in Italia questa antipolitica non la vedo.

Dice Grillo, che il M5S che abbiamo in Italia è comunque meglio dei nazisti in Grecia o dei lepenisti in Francia. È una battuta che contiene una parte di verità. I grillini non solo si sottopongono al voto e quindi al giudizio degli elettori, ma, al di là delle provocazioni mediatiche di Grillo, propongono programmi che potrebbero essere sottoscritti benissimo da un candidato IDV, del PD o di SEL.

I partiti, non avendo promosso e dato seguito in maniera credibile a un processo di autoriforma chiaro e trasparente, hanno prodotto una omologazione che in questa fase crea una contrapposizione, abbastanza virtuale, che vede, da una parte, coloro i quali sono acriticamente antipolitici e, dall’altra, con la stessa intransigenza, i difensori della politica. È un fatto, però, che la mancata attuazione delle grandi riforme che andavano realizzate è colpa di tutte le forze politiche, anche se è chiaro che chi aveva la maggioranza – quindi Berlusconi – porta sulle spalle un maggior grado di responsabilità.

Il secondo elemento di omologazione è dato dal governo Monti. Quando nasce una maggioranza composta dalle forze che prima erano al governo con quelle che sedevano sui banchi dell’opposizione, è evidente che il comune cittadino vede una maggioranza formata da PDL, PD e UDC ed è portato a ritenere, comprensibilmente, che siano tutti uguali. In sostanza, così come la parola politica non può diventare una parolaccia è anche sbagliato difendere la politica a prescindere dai suoi fatti e misfatti. E chi dai misfatti vuole distinguersi dovrebbe far sentire alta la sua voce. Ma oggi questa voce non si sente.

IE O magari, semplicemente, non viene ascoltata e ripresa dai mezzi di informazione...

A. P. Forse sì, forse non è facile distinguere, forse troppo spesso si ricorre a facili automatismi, e questo è un errore. Ho però l’impressione che questo sistema dei partiti faccia molta fatica a trovare e indicare una via d’uscita. Sono passati anni dalla pubblicazione del libro sulla casta di Stella e Rizzo e dagli innumerevoli annunci di autoriforma che ne sono seguiti. Sono passati anni ma non è cambiato assolutamente nulla. La politica degli annunci è sbagliata, deleteria. Si possono anche non fare le riforme perché ci si rende conto che non è possibile e non ci sono le condizioni per farle, ma è sbagliato continuare ad annunciarle e non farle mai. In questo modo si crea nei cittadini una forma di assuefazione che alimenta il qualunquismo: l’idea, cioè, che i politici non daranno seguito alle parole con i fatti e che continueranno a pensare solo agli affari loro.

IE Dei partiti, dicevamo, non si può fare a meno. Nella prima Repubblica fu proprio grazie alla Democrazia Cristiana e al Partito Comunista che si riuscirono a tenere a bada le pericolose spinte che prima ricordavamo. Il berlusconismo, invece, alterando l’equilibro tra poteri previsto nella Costituzione, in maniera sistematica, ha privato il Parlamento del suo ruolo fondamentale, smontato il sistema dei partiti su cui esso era fondato, attaccato il potere giudiziario e ha alterato il sistema dell’informazione, accentuando e imponendo il carattere personalistico e leaderistico delle forme di partecipazione politica e provando a neutralizzare le forme di “garanzia” previste dalla Costituzione. Siamo forse, per fortuna, di fronte all’epilogo della seconda Repubblica? E, soprattutto, come si esce da questa situazione?

A. P. Sono d’accordo nel dire che la tripartizione dei poteri prevista dalla Costituzione è oggi profondamente mutata, nel senso che i poteri realmente in grado di incidere sono rimasti solo due: il potere esecutivo e quello giudiziario, mentre il potere legislativo ha perso o sta perdendo qualsiasi capacità di contare.

Grazie al Porcellum, voluto dal PDL e dalla Lega, il Parlamento della Repubblica si è trasformato in un’assemblea di nominati, in cui si è perso il legame con l’elettore, elemento chiave del rapporto fra rappresentanti e rappresentati che è fondamento di ogni democrazia. Nei cittadini prevale la sensazione che se la scelta dei parlamentari spetta ai segretari di partito invece che agli elettori, non bisognerà più rispondere a questi ultimi del proprio operato. È importante che gli elettori abbiano la possibilità di scegliere chi votare. Il rapporto che il parlamentare instaura con il proprio collegio è fondamentale. Il Parlamento non è solo luogo di decisione, è luogo di rappresentanza, e se mancano la rappresentanza e il controllo sulla rappresentanza le Camere non smettono di essere luogo di decisione. Abbiamo visto infatti che ormai la maggior parte dei provvedimenti varati sono decreti legge approvati ricorrendo prevalentemente al voto di fi ducia. Tutti i governi, senza distinzioni, usano il Parlamento semplicemente come cassa di compensazione su piccole questioni. I provvedimenti di iniziativa parlamentare sono davvero pochi e marginali, e riguardano materie irrilevanti rispetto alle grandi scelte del paese.

Del resto, basta vedere come il lavoro del Parlamento viene seguito dalla stampa. I giornali non seguono quasi più l’attività parlamentare, anche quando ci sarebbero i motivi per farlo, come nel caso dell’attività delle commissioni, o dell’iter dei provvedimenti di spesa, comunque importanti e che non vengono più coperti. Quando ho cominciato questo mestiere (era il secolo scorso), il cuore della politica era il Parlamento. Quindi è vero che c’è stata una trasformazione materiale dei poteri, non saprei dire però se questo mutamento abbia portato l’informazione a diventare un vero contropotere. Certo influisce più sull’establishment che non sui cittadini. Basta guardare i numeri: i giornali vendono sempre meno, sono sempre più in crisi. Sopravvive una certa capacità di pressione, ma la cosiddetta opinione pubblica einaudiana, cioè quella stampa in grado di formare l’opinione della maggior parte dei cittadini, ormai non esiste più.

IE Molti hanno identificato l’intento di alterare gli equilibri della Costituzione tentato da Berlusconi con il progetto “riformatore” di Gelli...

A. P. Fortuna che Berlusconi non è più a Palazzo Chigi e che Gelli non aveva internet! Entrambi non potevano prevedere che ci sarebbe stato uno strumento grazie al quale l’informazione sarebbe stata effettivamente eterodirette, senza mediazione, e che quindi la funzione dei giornali come creatori di opinione pubblica sarebbe appunto progressivamente diminuita.

IE Che ruolo hanno avuto, allora, i giornali rispetto a un voto così fortemente connotato dall’antipartitismo come quello del maggio scorso?

A. P. I giornali sono, nella stragrande maggioranza dei casi, di proprietà dei cosiddetti “poteri forti”, direbbe Monti. Nel salotto buono del “Corriere della Sera” ci sono imprenditori, banchieri e proprietari di cliniche.

“La Repubblica” è un giornale progressista, ma il suo proprietario è un signore che possiede a sua volta uno dei più grossi gruppi finanziari italiani, con molteplici e legittimi interessi. Poi ci sono i giornali riconducibili al gruppo Agnelli e quelli del gruppo Caltagirone. La famosa leggenda dell’editore puro è, appunto, una leggenda. Almeno in Italia quella figura non è mai esistita. L’unico giornale che in questo momento ha una sua autonomia è “il Fatto”. Siamo stati favoriti dal declino della stampa quotidiana in Italia e ci siamo inseriti in una realtà che presentava spazi di libertà che nessuno aveva il coraggio di riempire. Credo che abbia poco senso la polemica sulla scelta di assecondare l’antipartitismo, sull’opportunità o meno di “lisciare il pelo” a un’opinione pubblica arrabbiata con i partiti, soprattutto se si pensa che viviamo una crisi economica gravissima che colpisce ampi strati sociali. Certo, in una situazione del genere è più facile prendersela con la politica, identificata come prima responsabile del disagio. Più rischioso è prendersela con l’onnipotente sistema delle banche, con la FIAT, con Marchionne, con i finanzieri, perché sono questi i detentori degli unici poteri che in Italia contino ancora. La politica è l’avversario più semplice, bisogna dirlo, in quanto non fa niente per non accreditarsi come casta e quindi i giornali hanno buon gioco a raccontare le gesta dei tanti ladri che fanno la bella vita con i soldi del finanziamento pubblico. Naturalmente, non tutti i tesorieri sono corrotti e non tutti i partiti arraffano.

Vorrei ricordare la polemica del “Fatto” nei confronti di Italianieuropei riguardo alla trasparenza dei suoi finanziamenti. Non eravamo contrari alla scelta di ricorrere a contributi privati, ma quando alcuni personaggi che avevano finanziato Italianieuropei sono finiti in un’inchiesta giudiziaria, abbiamo chiesto di rendere pubblica la lista di tutti quelli che finanziavano la Fondazione. La risposta che Massimo D’Alema ci ha dato è che lo avrebbe fatto volentieri se solo la legge di tutela della privacy non lo avesse impedito. Ci è sembrata una spiegazione debole e riteniamo inoltre che cercare di rendere più trasparenti le forme di finanziamento avrebbe comunque giovato all’immagine della Fondazione.

IE Ma non è irrealistico pensare che si possa fare uno screening preventivo di tutti i potenziali finanziatori, per di più quando la raccolta di sponsor per le iniziative e della pubblicità per un quotidiano o per una rivista avviene attraverso società di intermediazione? E se un signore che finanzia oggi la rivista commette un reato dopo dieci anni, come faccio a prevederlo?

A. P. Questo è vero. È però altrettanto vero che questa posizione è più facilmente difendibile quando c’è una lista di finanziatori liberamente consultabile. Ecco un modo per farsi un’opinione senza colpevolizzare nessuno. Viviamo in una democrazia sospettosa, nella quale è radicata l’idea che il potere nasconda sempre qualcosa di inconfessabile. Essere il più possibile trasparenti è l’unica medicina alla malattia del sospetto.

IE Per tornare al mondo dell’informazione, dicevamo che non esistono editori puri, almeno fra i grandi. È però altrettanto vero che questo è un mondo che sta cambiando rapidamente: saltano le forme di mediazione, cambiano le modalità di elaborazione dei contenuti e le forme della loro distribuzione. Cambiano di conseguenza le professioni: anche le grandi testate tendono a rinunciare alla figura del redattore classico esperto di alcune materie, per assumere giovani a basso costo pronti ad occuparsi di tutto, la cui unica fonte è spesso solo internet.

A. P. Su questo punto posso portare l’esperienza del “Fatto”, esperienza che si basa su un modello di piccola impresa editoriale. Quello che viene dopo, cioè i contenuti giornalistici, sono l’effetto, la conseguenza positiva di una società che è stata sempre molto attenta ai costi. Contenendo al massimo i costi fissi con la possibilità di riassorbire i costi flessibili nel momento in cui le cose per il giornale non dovessero andare bene. I giornali veramente liberi sono quelli con i conti in regola. Quando i conti non sono in regola, cominciano i compromessi e addio libertà. L’errore di fondo delle imprese editoriali italiane, forse ormai irrimediabile, è di aver creato dei modelli editoriali troppo costosi, inutilmente costosi, per cui bisognava innanzitutto darsi degli emolumenti cospicui, dotarsi di corrispondenti, inviati, consulenti e largheggiare nei benefit. Tutto ciò si paga nel momento in cui i giornali vendono meno.

IE È cambiata però anche la figura professionale del giornalista. Si è fatta strada l’idea che ognuno possa farsi da sé il suo giornale, la sua inchiesta, la sua indagine. Le notizie sulle rivolte della Primavera araba sono state diffuse prima dai blog che dai giornali.

A. P. Diciamo che è stato superato un equivoco, un luogo comune assolutamente dannoso, ossia che per fare il giornalista si debba avere il timbro di un ordine professionale. Fino all’esplosione di internet, dei blog, di Twitter, giornalista era chi era stato accettato nella grande corporazione perché, oltre a saper fare il suo lavoro, aveva una serie di requisiti. Questa idea oggi è superata. Chiunque può raccontare una storia, può riportare quello che vede, può farlo anzi, con maggiore immediatezza, e non c’è bisogno di avere il timbro dell’ordine professionale. Un grande passo in avanti, anche se non privo di pericoli riguardo all’attendibilità delle notizie diffuse. È il rovescio della medaglia della libertà di internet: ciò che leggiamo sarà vero? La possibilità di raccontare in maniera più libera e immediata deve avere sempre un contrappeso nella verifica accurata delle fonti.

IE Qual è oggi il rapporto tra lettori e contenuti? E come vengono gestiti i contenuti?

A. P. I lettori, certamente i nostri lettori, si mostrano molto informati, ipercritici, anche rispetto a ciò che scriviamo. Ora, ad esempio, alcuni sono arrabbiati perché ci ritengono troppo filo-grillini. All’arrivo di Monti ci avevano invece rimproverato l’eccessiva criticità nei confronti del premier “tecnico”. Poi però ci siamo ritrovati quando anch’essi hanno cominciato a essere critici verso le scelte del governo. Hanno, in definitiva, una forte capacità di reazione, sono molto attenti, usano spesso internet, non si lasciano facilmente manipolare. Spesso risultano più informati dei giornalisti.

E poi sono attenti soprattutto al tema della legalità, che è ovviamente più sentito nei momenti di crisi economica: quando il portafogli è vuoto, il senso di ingiustizia rispetto a chi ha di più si rafforza. In un periodo di prosperità quello dei privilegi resta un tema fra i tanti, ma nei momenti di crisi diventa una sentenza definitiva. Gli scandali che hanno investito i tesorieri di Lega e Margherita ne sono un esempio: pur rappresentando solo un pezzo della realtà, hanno finito per travolgere l’intera storia del finanziamento pubblico, colpevolizzando tutti. Si tratta di quel tipo di notizie chiave che determinano il clima, il contesto. Inutile difendersi facendo dei distinguo, perché l’opinione pubblica non ne fa più. Per salvarsi, i partiti dovrebbero fare la riforma più radicale: rinunciare a qualsiasi forma di finanziamento pubblico. Non lo faranno mai.

IE Ma non si corre così il rischio di avvantaggiare chi si fa portatore degli interessi di pochi potenti facoltosi?

A. P. Grillo ha dimostrato che si può fare campagna elettorale anche con poco. A Parma i grillini di Pizzarotti hanno speso 7000 euro. Forse non è più necessario avere tanti soldi per fare politica. E forse non è più necessario neanche andare in televisione. Anzi, può essere perfino controproducente partecipare a certe trasmissioni-contenitore che, omologando i luoghi comuni, finiscono per non dare spazio alle idee più forti e nuove. È un errore che commette il Partito Democratico mandando in TV sempre le stesse facce. Il PD ha un’eccellente classe di amministratori locali, molti giovani, persone che fanno bene il loro mestiere e di cui quasi nulla si sa perché nei talk show ci vanno sempre i soliti papaveri. Non è possibile che l’unico rappresentante del “nuovo” che c’è nel PD sia Matteo Renzi, che nuovo non è più da tempo.

Fino alla primavera del 2013 saranno tante le novità che entreranno in campo, e i partiti come li conosciamo rischiano davvero di essere messi alle corde. Se il PD non lo capisce, si condanna a un sicuro declino.

IE Come andrebbe scelto, a suo giudizio, il candidato premier del centrosinistra?

A. P. Con questa legge elettorale, attraverso le primarie, ma con delle primarie vere, diverse da come le conosciamo. Le primarie, se regolate come competizione tra tanti e non come trampolino per consacrare il prescelto dal sinedrio di partito sono l’ultimo volano utilizzabile dai partiti per dire: eccoci, esistiamo ancora. Ma solo se c’è lotta vera tra i candidati può esserci un reale coinvolgimento popolare. Se il centrosinistra riuscisse a far competere quattro o cinque candidati forti, tutti con la possibilità di vincere, questa sarebbe la migliore risposta a chi già celebra il de profundis della politica e dei politici. Temo però che ormai il tempo sia scaduto.