Tecnico

Written by Geminello Preterossi Friday, 10 February 2012 13:46 Print

Qualsiasi decisione per la tecnica è una decisione politica. Cioè non è neutra. Le competenze – importanti, ma che in qualche modo dovrebbero essere un presupposto minimo ovvio dell’attività di governo – non sono sufficienti a determinare un’intrinseca e sostanziale legittimazione politica, tantomeno in una democrazia.

 

Qualsiasi decisione per la tecnica è una decisione politica. Cioè non è neutra. Le competenze – importanti, ma che in qualche modo dovrebbero essere un presupposto minimo ovvio dell’attività di governo – non sono sufficienti a determinare un’intrinseca e sostanziale legittimazione politica, tantomeno in una democrazia. Legittimazione, energia che, infatti, i governi cosiddetti “tecnici” come quello di Monti sono costretti a trovare altrove: in una somma autorità “terza”, quale quella del presidente della Repubblica, in un vincolo esterno (l’Europa, i mercati finanziari), in uno stato di necessità (nel caso attuale di natura tecnico-finanziaria, quindi diverso dallo stato di eccezione tradizionale, legato a guerre o ad aspri conflitti interni), nella stessa opinione pubblica. E solo indirettamente, per sottrazione, nei partiti, in virtù del loro passo indietro.

Per quanto si trattasse probabilmente di un esito inevitabile, e sia stato dal punto di vista della sua gestazione istituzionale un successo, la scelta per la tecnica rimane il segno di un fallimento della politica e dei suoi attori (seppur con responsabilità distribuite ben diversamente tra forze di governo e di opposizione). Fallimento che però non è frutto di un complotto dei tecnocrati: la politica – soprattutto quella populista che ha governato il paese negli ultimi anni – si è fatta male da sola, di fatto autocommissariandosi, per la sua incapacità e il suo degrado. Di ciò non c’è molto da gioire. Semmai, c’è da cogliere questa occasione di sospensione, inevitabilmente delimitata temporalmente, per un’analisi critica spietata delle inadeguatezze del sistema politico italiano e per iniziative concrete e simbolicamente cariche di rilancio. Altrimenti gli esiti della parentesi “tecnica” saranno il rigurgito del populismo reazionario e una conseguente deriva autoritaria.

Ma cosa ha da offrire, dal canto suo, l’opzione tecnocratica? Il “plusvalore” che i tecnici possono rivendicare, oltre alle peculiari competenze, è quello di una sorta di neutralità, intesa come estraneità agli interessi di parte, attenzione più immediata al bene pubblico (e in questo senso periodicamente ritorna, di fronte alle crisi ricorrenti del sistema politico italiano, il mito del governo dei tecnici inteso come governo dei “migliori”, sottratto alla partitocrazia e alle pressioni corporative, speculare al mito della società civile “virtuosa”). Ma quanto è effettivamente così, e quanto si tratta di una rappresentazione ideologica? E ancora, in una democrazia pluralista, questa estraneità rispetto alle parti è davvero augurabile e premessa realistica di una progettualità generale? La sintesi in vista dell’interesse collettivo, di lunga durata, non deve essere per sua natura “politica”, cioè frutto della capacità egemonica di proporre una visione che, a partire da interessi e orientamenti culturali determinati, sia in grado di trovare alleati, di offrire un equilibrio credibile per l’intera società, di stabilire mediazioni efficaci? Può essere un affare “tecnico”, questo? O non è piuttosto una questione di egemonia politica democratica? L’egemonia è capacità di orientare, attraverso la costruzione di una credenza intorno a contenuti di interesse collettivo. Per sua natura quello di egemonia è un concetto politico-culturale, che non necessariamente è di natura rivoluzionaria e organicista, ma può essere “alleggerito” calandolo in un quadro pluralista, conflittuale, aperto alla mediazione. Del resto, quando si nega la funzione dell’egemonia, la si ritiene superflua, o la si fugge, c’è qualcun altro che la sta conquistando culturalmente e ne occupa lo spazio. Certo, il concetto di egemonia implica l’idea di una priorità di ciò che è politico, pubblico, collettivo. Lo stesso populismo, soprattutto nelle sue varianti reazionarie, è solo una finzione sostitutiva di egemonia. Laddove non c’è una politica di sostanza, si compensa questo deficit con il culto del capo e la sua fiction mediatica. Ma oggi si pone un’ulteriore domanda: la tecnica può essere una risposta egemonica? No, ovviamente: perché il contenuto della credenza nella tecnica è, al massimo, la gestione efficiente dell’esistente, ovvero l’autofinalità del mezzo. La politica come indirizzo politico (e costituzionale!), come strumento di trasformazione (anche parziale e pragmatico) verrebbe meno. E tuttavia, drammaticamente, la teologia economica neoliberista – che postula una sorta di armonia prestabilita del mercato, da servire liturgicamente, e pur essendo la causa principale della malattia sistemica in cui siamo, ne rivendica paradossalmente il monopolio della cura – producendo di fatto l’annientamento dell’autonomia e della differenza della politica, mira a conquistare una forma di egemonia “apolitica”. Una sorta di dominio esercitato nelle forme della neutralizzazione definitiva, della sterilizzazione di ogni conflitto, dell’asservimento volontario a un meccanismo anonimo. Un incubo pernicioso.

Il governo Monti si trova di fronte a questa ambivalenza, che trascende largamente la vicenda italiana. Certamente ha rappresentato un ritorno alla realtà, e nella misura in cui in questo potrà essere un freno dell’emergenza contingente, sarà utile. Ma il vero problema, per l’Italia e per l’Europa, è il ritorno a una realtà vitale della democrazia. Cioè a un protagonismo dei popoli europei: l’esatto opposto del ripiegamento egoistico, della passivizzazione e del torpore quietista che – soprattutto di fronte alla crisi del modello costituzionale fondato sul valore del lavoro e alla conseguente consumazione delle condizioni minime di un legame sociale solidale – porterebbero alla riedizione di esperienze tragiche che nel Novecento abbiamo già vissuto. A dispetto delle illusioni ciniche e allucinatorie dei teologi neoliberisti, la rottura definitiva dell’equilibrio tra politica ed economia, democrazia e finanza non condurrebbe all’ordine spontaneo del nuovo capitalismo globale, ma a una drammatica regressione civile. I tecnici quale dio servono?