Il realismo etico e la battaglia per l'anima dell'America

Written by John Hulsman Sunday, 02 March 2008 18:39 Print

Diversi anni fa, fui invitato ad un confronto con un esponente neoconservatore americano di fronte alla commissione relazioni estere del Bundestag tedesco. Terminato l’evento, gli chiesi in privato che cosa sarebbe accaduto al suo movimento se la guerra in Iraq fosse andata male. Non ho mai dimenticato ciò che replicò. Rispose con tono indifferente: «Se la guerra va male, ne daremo interamente la colpa all’incompetenza del presidente e della sua squadra, e passeremo a John McCain. E voi realisti continuerete a essere una voce di minoranza all’interno del Partito (Repubblicano)». Ripenso a quella conversazione quasi ogni giorno, poiché molto di ciò che discutemmo in tale occasione si è effettivamente verificato. Soprattutto, il mio avversario mi ricordò che le idee e i movimenti ideologici sono filtrati dalle persone reali e dalla politica reale. Avere ragione non basta; senza il potere politico, avere ragione è pura impotenza informata.

A meno che non si faccia qualcosa e in fretta, questo è il pericolo che si prospetta per tutti i critici della guerra in Iraq e dei neoconservatori che l’hanno voluta.

Perché dopo l’Iraq, dopo le elezioni di midterm, dopo il rapporto Baker-Hamilton, rimane un fatto incredibile: i neoconservatori, lungi dall’essere stati messi politicamente in ombra, hanno ancora una certa possibilità di mantenere il potere, perfino dopo la fine del mandato di George W. Bush. Questa è la spaventosa realtà con cui deve fare i conti la scena politica e intellettuale americana. Non è sufficiente limitarsi ad affermare che i neoconservatori si sono dimostrati disastrosamente sprovveduti, come molti di noi hanno già fatto. Piuttosto, gli americani moderati di entrambi i partiti dovrebbero assestare il colpo di grazia definitivo al vampiro neoconservatore, e non soltanto a parole. Serve una strategia politica congiunta e coerente.

Un cattivo piano batte l’assenza di piani

I neoconservatori hanno prosperato in un mondo in cui un cattivo piano ha battuto l’assenza di piani. Come ha chiarito Bob Woodward, la pianificazione della guerra in Iraq è iniziata quasi subito dopo l’attacco dell’11 settembre. I neoconservatori, in particolare nella persona dell’allora vicesegretario alla Difesa Paul Wolfowitz, sono stati in grado di giocarsi meglio la partita sul piano intellettuale, perché avevano una visione ingannevolmente semplice ma concreta del mondo, che corrispondeva agli umori del paese (e, in maniera cruciale, a quelli del presidente) in quei terribili giorni seguiti all’attacco di al Qaeda. La visione del mondo dei neoconservatori si basava su due fatti fondamentali: l’America aveva un potere senza eguali ed era, allo stesso tempo, altrettanto eccezionalmente vulnerabile. Solo l’America poteva prosciugare la palude, sconfiggere i dittatori dovunque si trovassero e impiantare al loro posto governi democratici che, col tempo, sarebbero inevitabilmente stati più filoamericani. Checché ne dicano, oggi, i topi neoconservatori che abbandonano la nave che affonda, la débâcle irachena è il diretto risultato di una filosofia secondo la quale «si poteva aggiungere un po’ d’acqua e ottenere George Washington», una filosofia che credeva che il coinvolgimento della popolazione locale fosse sempre secondario rispetto alla potenza militare americana, e che stabiliva una semplicistica equiparazione tra esiti filodemocratici ed esiti filoamericani.

Questo, però, non è l’ennesimo articolo di denuncia dei limiti del neoconservatorismo. Piuttosto, sul piano politico rimane il fatto che, mentre le falle di questa spaventosa teoria sono state sempre evidenti, né i wilsoniani a sinistra né i realisti a destra, all’epoca, avevano qualcosa di nuovo da dire di politicamente accorto dopo l’11 settembre; i neocon invece sì. I wilsoniani (e la maggior parte degli europei) non facevano che parlare dei vantaggi della «cooperazione multilaterale», senza nemmeno spiegare in che cosa questa consistesse in termini di politica concreta: come combattere al Qaeda; quali strumenti e istituzioni utilizzare; come avrebbe funzionato il processo decisionale su una strategia comune. Alla fine, le tesi dei wilsoniani ammontavano a poco più di uno slogan anti-Bush dopo l’11 settembre.

Certo, all’epoca i realisti non furono più intellettualmente incisivi né politicamente più abili. Come i wilsoniani, erano preoccupati all’idea di combattere una guerra preventiva, una guerra per scelta più che per necessità. Ma come i loro colleghi a sinistra, i realisti offrirono ben poche alternative politiche. Nonostante il loro eterno parlare dell’interesse nazionale americano, i realisti non specificavano che cosa significasse, sul piano politico, questo termine dall’ambiguità esasperante. Di fatto, i realisti della vecchia guardia come l’ex consigliere per la sicurezza nazionale Brent Scowcroft (contrario alla guerra) e l’ex segretario di Stato Henry Kissinger (tiepido sostenitore della guerra) erano il simbolo dell’imbarazzo dei realisti, incerti se l’attacco a Saddam fosse o meno negli interessi americani. Inoltre, come i wilsoniani, i realisti non proposero alcun convincente programma politico alternativo per combattere al Qaeda. È a nostra perpetua vergogna che si sia aperto un tale baratro di mancate risposte. Perché esso è stato più che sufficientemente ampio da permettere ai neoconservatori di attraversarlo a gran velocità, dominando la politica estera americana nei primi sei anni dell’Amministrazione Bush.

Il realismo etico emerge come alternativa praticabile

Ci è voluto fin troppo, ma nella corsa alle elezioni di midterm è emersa una visione americana alternativa, completa di prescrizioni politiche che discendono da un insieme di principi fondamentali ben diverso da quello sostenuto dai neoconservatori. Il mio collega a sinistra, Anatol Lieven, e io, ci trovammo d’accordo anni fa sul fatto che la politica estera americana fosse a pezzi e che così sarebbe rimasta, finché non fosse riemersa una convincente alternativa teorica, con solide radici nel passato americano.1 Aperto apprezzamento per tale filosofia è stato espresso da pensatori strategici di appartenenza politica diversa come Hillary Clinton, Seymour Hersh e Gary Hart, così come Brent Scowcroft e Chuck Hagel.

«Ethical Realism» costituisce la base di molte delle conclusioni della commissione bipartisan Baker-Hamilton. Oltre a offrire un’alternativa politica in sé coerente, la ragione del fermento intorno a questo approccio risiede nel fatto che ad abbracciare quest’ultimo siano decision maker politici, sebbene si tratti di quelli in disgrazia presso l’Amministrazione. Invece di seguire i tanti che osservano in primo luogo quel che hanno sbagliato i neocon, abbiamo pensato che fosse di vitale importanza guardare ad un passato in cui gli Stati Uniti, in larga misura, facevano le cose per bene, al mondo dell’immediato dopoguerra di Harry Truman e Dwight D. Eisenhower. Sul piano politico, essi gettarono le basi della dottrina del contenimento, che avrebbe portato l’Occidente alla vittoria nella guerra fredda. Truman si liberò della minaccia politica della sinistra americana, personificata dal vicepresidente di Franklin D. Roosevelt, Henry Wallace, che nei confronti di Stalin aspirava più a una politica di appeasement che a una contrapposizione. Allo stesso modo, Truman ed Eisenhower respinsero la sfida del generale MacArthur e del senatore Robert Taft, sostenitori di una strategia di competizione militare con l’URSS, che implicava una politica volta a far arretrare i comunisti dalle posizioni raggiunte, il cosiddetto rollback, e a questo fine prendeva in considerazione perfino una guerra preventiva. Invece, conquistando alleati in Europa e in Asia, Truman ed Eisenhower propugnarono una competizione in gran parte politica con i sovietici, che, date l’attrattiva rappresentata dall’esempio della società americana e la generale avversione nei confronti di Stalin, entrambi i leader ritenevano che gli Stati Uniti fossero certi di vincere. Sarebbero state tracciate linee intorno agli interessi strategici dell’Occidente, come la Germania e il Giappone, interessi da difendere militarmente se attaccati dal Cremlino. Tuttavia, al di là di questo, sia Truman sia Eisenhower credevano che il modello sovietico, una volta accerchiato, avrebbe finito per soccombere alla pressione politica esercitata nel tempo dagli Stati Uniti e dai loro alleati. Un simile approccio paziente è stato quasi interamente convalidato con il trionfo nella guerra fredda.

In seguito ci si è poi soffermati sui supporti teorici di tale trionfo politico, il credo etico-realista difeso dai grandi pensatori strategici, il teologo protestante Reinhold Niebuhr, il padre delle moderne relazioni internazionali Hans Morgenthau, e il teorico del contenimento George Kennan. Il credo etico-realista può essere riassunto in cinque virtù fondamentali. La prima è la prudenza: sii consapevole che i piani militari o politici raramente vanno come ci si aspettava e pertanto è importante avere un «piano B». La seconda, l’umiltà, è in linea con la Preghiera della serenità di Niebuhr: «Dio ci conceda la serenità di accettare le cose che non possiamo cambiare, il coraggio di cambiare quelle che possiamo cambiare, e la saggezza di distinguere tra le due». La terza, lo studio: né in Iraq né in Vietnam abbiamo messo in campo decision maker che sapessero qualcosa della cultura e della popolazione che ci si aspettava avrebbero «trasformato». Quarta, la responsabilità: non basta avere buone intenzioni; in politica estera, piuttosto, qualsiasi azione dovrebbe essere valutata rispetto alla sua probabilità di apportare un chiaro miglioramento alla posizione dell’America, portando nel contempo un vasto aiuto al resto del mondo. Quinta, il patriottismo: gli Stati Uniti devono accettare che anche gli altri siano patrioti, e che le loro sincere divergenze con noi possano basarsi su qualcosa di diverso dal male. Ovviamente, basta uno sguardo superficiale a questo elenco per rendere chiaro che si tratta di una filosofia trascurata dall’attuale Amministrazione.

Poi ci si è concentrati su un’altra epoca della storia in cui una potenza regolatrice conobbe un vasto successo politico. L’attenzione si è concentrata sulla Gran Bretagna tra il 1890 e il 1914, poiché le analogie strutturali con l’odierna posizione degli Stati Uniti sono sorprendenti. In entrambi si tratta di primus inter pares a livello mondiale, perfino in un periodo in cui emergono altre grandi potenze (nel caso attuale la Cina, nel caso del XIX secolo la Germania guglielmina e gli Stati Uniti). Tanto Londra quanto Washington, sul piano militare, dipendevano dalla forza d’urto, dalla capacità di collocare più soldati in più luoghi più velocemente; nel caso della Gran Bretagna ciò era fatto attraverso la Royal Navy, nel caso dell’America attraverso la Marina e l’Aeronautica. Sebbene avessero avuto, a tratti, punte di protezionismo, entrambe le potenze erano generalmente sostenitrici del libero scambio, con centri finanziari rispettivamente a Londra, in passato, e a New York oggi. Tanto la sterlina allora, quanto il dollaro oggi, sono la valuta di riserva mondiale. Entrambi i paesi, infine, possiedono un vastissimo bacino di soft power. Detestata o meno che fosse, la cultura britannica, nel XIX secolo, veniva emulata nel mondo intero; le famiglie della classe dirigente indiana, per esempio, mandavano i propri figli a ricevere un’educazione da gentleman inglese. Analogamente, l’America, sebbene tramite campioni della cultura popolare come il cinema e il jazz, o per i grandi risultati della cultura superiore – per esempio la capacità delle scuole di specializzazione americane di attrarre gli studenti migliori e i più brillanti a livello mondiale – gode di un enorme vantaggio competitivo rispetto ai potenziali rivali come la Cina. Dunque, non è che agli Stati Uniti manchino strumenti non militari, è che hanno dimenticato come usarli.

Ma i britannici fecero due cose che nessun neoconservatore si sogne- rebbe di fare. In primo luogo, rendendosi conto dei limiti del proprio potere, pur esteso, i britannici fecero alcune scelte davvero strategiche, basate sui propri interessi nazionali prioritari. Per esempio, osservando la crescita industriale americana (e preoccupati delle costanti controversie con Washington alla fine del XIX secolo), i britannici finirono per accettare il predominio regionale degli Stati Uniti nell’emisfero occidentale, un fatto che portò a una duratura alleanza con la loro ex colonia. Non è azzardato affermare che, se non avesse fatto scelte difficili nel ventennio precedente al 1914, la Gran Bretagna si sarebbe trovata dalla parte degli sconfitti della prima guerra mondiale. Continuando ad abbracciare l’idea fantasiosa secondo la quale gli Stati Uniti non sono tenuti a fare simili scelte, l’attuale strategia dell’Amministrazione Bush, se persisterà, non potrà essere altro che una ricetta per un rapido declino.

In secondo luogo, i britannici si assicurarono che altre grandi potenze potessero trarre sufficienti vantaggi dal predominio globale inglese, tali da ottenere il loro consenso rispetto all’ordine creato da Londra. È molto improbabile, per esempio, che i governi francesi della seconda metà del XIX secolo guardassero con gioia al predominio britannico. Ciò nonostante, poiché la Marina britannica garantiva l’apertura delle rotte navali intorno al globo, Londra facilitava il libero scambio internazionale (e perciò, indirettamente, la prosperità francese), ed entrambe finirono per temere la Germania più che temersi l’un l’altra. Parigi fu disposta ad adeguarsi alla posizione predominante di Londra sul piano internazionale (o perlomeno a non sfidarla apertamente), traendo evidenti vantaggi dall’ordine mondiale che ne conseguiva.

Oggi Washington ha esattamente la stessa opportunità, sconosciuta all’Amministrazione Bush. Due fattori operano a sostegno della possibilità per Washington di produrre beni comuni per grandi potenze come la Russia, la Cina, l’Europa e l’India. In primo luogo, tutte le principali potenze mondiali accettano il capitalismo, in una qualche forma, come il credo economico dominante, e hanno legato la propria sopravvivenza politica all’ininterrotta prosperità che esso promette. Di per se stessa e come principale potenza all’interno delle istituzioni economiche internazionali globali, cui ha impresso il proprio modello, gli Stati Uniti mantengono un immenso potere, esattamente perché sono la principale potenza capitalistica in un mondo dominato dal capitalismo. Secondo questa logica, il progresso dell’oggi moribondo Doha Round sul libero scambio sarebbe più utile ad accrescere l’influenza americana, nel continuare a fornire beni comuni, di quasi qualsiasi altra cosa che Washington possa realizzare.

In secondo luogo, tutte le grandi potenze temono al Qaeda, i veri barbari ai cancelli internazionali. Al Qaeda, nemica di qualsiasi ordine che non sia essa stessa a imporre, mira a sovvertire la Russia, la Cina, l’Europa e l’India così come gli Stati Uniti in nome della propria visione criminale del califfato. È su questa duplice base di prosperità e sicurezza che bisogna spingere gli Stati Uniti ad aprire un nuovo dialogo con le altre grandi potenze globali, un dialogo che può rivelarsi sorprendentemente fruttuoso poiché tutte le principali potenze sulla scena mondiale hanno interessi comuni su entrambi i versanti.

Infine, si è fatto quello che ben pochi altri hanno fatto di recente: compiere esplicite scelte di politica basate sulla appena descritta strategia filosofica. È questo livello di specificità che mancava in quasi tutte le opere critiche sui neoconservatori, europee o di stampo realista; senza proporre politiche alternative che abbiano una possibilità di funzionare, gran parte della critica recente dell’Amministrazione assomiglia a nulla più che a un inutile chiacchiericcio nel sicuro di un caffè parigino. Da parte nostra si sono invece volute applicare ricette politiche improntate al realismo etico alla Cina, alla Russia, al Medio Oriente, e alle questioni relative al commercio e allo sviluppo.

L’Iraq fornisce un caso pertinente. Una parte centrale del credo del realismo etico consiste nel vedere il mondo per come è, invece di desiderare che sia qualcosa di diverso, se un policy maker vuole davvero renderlo migliore. Come direbbe Max Weber, si tratta di un’etica delle conseguenze, invece che di un’etica della convinzione. A prescindere dalle intenzioni dell’Amministrazione, questi fatti sono incontrovertibili. La guerra in Iraq è stata un’occasione d’oro di proselitismo per il nemico numero uno, al Qaeda. Contrariamente a quanto asserito dai neoconservatori, la guerra non è stata fiscalmente neutra ma, al contrario, è costata al contribuente americano 400 miliardi di dollari, alla misura corrente. Ha sottoposto a uno sforzo eccessivo l’esercito americano e portato vicino al disastro la Guardia nazionale, riducendone la capacità di affrontare crisi altrove. Perfino un presidente quasi del tutto distratto è stato costretto ad ammettere che l’Iraq è un disastro.

Invece di aspettare invano un nirvana democratico in Iraq, l’obiettivo dovrebbe essere quello di scongiurare una guerra civile totale, capace di trascinare i paesi confinanti con l’Iraq in un conflitto regionale. Questo imperativo, e non la costruzione nel cielo di castelli di sabbia neoconservatori, dovrebbe rappresentare l’obiettivo dei prossimi anni a venire. Questo richiede una politica molto diversa dal rovinoso aumento di truppe che è probabile sia chiesto dal presidente. Coerentemente alla strategia generale del realismo etico, l’obiettivo deve essere la creazione di quella che il cardinale Richelieu definiva «una comunità della ragione». Tutte le potenze regionali devono essere consultate, e devono essere chiariti i loro interessi comuni a tenere insieme l’Iraq come uno Stato problematico, ampiamente decentrato, ma unitario. La buona notizia è che una tale comunità, fondata su interessi condivisi, potrebbe emergere effettivamente. L’Arabia Saudita teme la crescente autonomia degli sciiti in Iraq, dato che i propri turbolenti sciiti «siedono» proprio sul petrolio saudita. Un Iraq unito è un deterrente contro il sogno degli sciiti sauditi di una maggiore autonomia, il che è certamente negli interessi della casata saudita. Analogamente, l’ultima cosa che la Turchia può volere è un Kurdistan indipendente alle proprie porte, che potrebbe far riemergere le spinte indipendentiste dei curdi in Turchia, prigionieri di un aspro conflitto etnico con Ankara. Un Kurdistan indipendente ha anche il potenziale di coinvolgere la Siria e l’Iran (dove, a loro volta, sono presenti irrequiete minoranze curde) in una competizione con la Turchia per lo smembramento del nuovo Stato curdo. Perfino l’Iran, oggi la maggior potenza del Golfo grazie alle follie americane in Iraq, è improbabile che voglia mettere a rischio la propria indubbia posizione di mentore del nuovo governo a predominanza sciita di Baghdad. Avendo vinto, perché gli iraniani dovrebbero voler compromettere uno status quo così perfettamente funzionale ai propri interessi? In ogni caso, tenere insieme l’Iraq è utile agli interessi delle potenze regionali.

Il primo compito di un tale concerto di potenze dovrebbe essere il contenimento della guerra civile irachena. Tutti gli Stati della regione dovrebbero: acconsentire a rispettare gli attuali confini dell’Iraq; accettare un quadro federale per l’Iraq con al centro una condivisione garantita del potere tra i tre maggiori gruppi etnici; ma soprattutto, dichiarare una moratoria della fornitura di armi alle opposte fazioni, la quale aumenta fortemente il rischio di una guerra regionale. Di questo accordo dovrebbero essere testimoni e garanti gli Stati Uniti, le Nazioni Unite, l’Unione europea e la Lega araba.

Una simile ricetta politica è destinata a far inorridire i neoconservatori: come osano gli Stati Uniti parlare con i propri nemici? Ma qual è la vera alternativa? Dovrebbe essere ormai evidente che l’Amministrazione Bush ha provocato un terribile pasticcio in Iraq, e che si sta dimostrando incapace di tenerlo sotto controllo. Allo stesso modo, le istituzioni politiche e della sicurezza create in Iraq dagli Stati Uniti stanno ugualmente fallendo; se le cose vanno avanti così, è un’evidente possibilità una guerra civile totale, che potrebbe coinvolgere le altre potenze dell’area. Il realismo etico ci impone di scegliere la migliore opzione pratica di poli- tica estera; spesso ciò significa fare la meno sgradevole delle scelte in un mare di alternative ripugnanti. Mentre il presidente Bush continua a crogiolarsi nella disastrosa illusione che la vittoria in Iraq sia possibile, la vera moralità (e non il falso moralismo dell’attuale Amministrazione) impone che Washington guardi all’Iraq per quel pasticcio che è, e provi a limitare il disastro.

Tra poco si scopriranno le carte

Sembrano esserci ben pochi dubbi sul fatto che l’Amministrazione liquiderà questa strategia improntata al realismo etico, insieme alle analoghe soluzioni indicate dalla commissione Baker- Hamilton. Invece, con la sconsideratezza morale e pratica tipica del movimento neoconservatore, farà – per dirla con il linguaggio del gioco d’azzardo – un «rilancio», preferendo alzare la posta in gioco aumentando l’impegno militare così da annullare quello che è essenzialmente un problema politico. Come ha evidenziato Clausewitz, i mezzi militari non sono che uno strumento politico; i neocon nell’Amministrazione Bush hanno sempre completamente frainteso quest’affermazione.

Ma questi non sono i giorni dello shock seguito all’11 settembre. Nel realismo etico vi è ora un’autentica alternativa politica al neoconservatorismo; un cattivo piano non può più essere una carta che la spunta sull’assenza di piani. Le consultazioni del presidente con il nuovo Congresso si sono rivelate incoraggianti. Praticamente tutti i democratici e la maggioranza dei repubblicani ascoltati si sono detti contrari a un rafforzamento dell’impegno in Iraq. Mentre la Costituzione è esplicita sul fatto che il presidente resta il primus inter pares nel forgiare la politica estera, il Congresso ha sia il controllo della spesa sia la capacità di indagare sui pressoché infiniti errori di politica estera che possono essere attribuiti all’Amministrazione. In altre parole, aspettiamoci lo scoppio di una guerra civile politica in seno al Partito Repubblicano tra realisti etici come Chuck Hagel, James Baker e un’Amministrazione indebolita e ferita. Nelle file democratiche, aspettiamoci uno sforzo per coordinare una politica estera comune in senso anti-neoconservatore, da parte di seri professionisti come Joe Biden e Zbigniew Brzezinski. Questa guerra civile culminerà nelle primarie presidenziali, potenzialmente le più importanti dal 1952, quando la vittoria di Eisenhower su Taft garantì l’attuazione della dottrina del contenimento. Non abbiamo ancora raggiunto un «momento Truman», che veda la coalizione dei due partiti intorno a una strategia bipartisan di politica estera moderata. E tuttavia, con il sorgere del realismo etico, c’è almeno una possibilità che un tale momento possa profilarsi all’orizzonte. E così sia.

 

[1] Questo giudizio è l’elemento centrale di J. C. Hulsman, A. Lieven, Ethical Realism: A Vision for America’s Role in the World, Pantheon Press, New York 2006.