La via italiana all’integrazione

Written by Giorgia Meloni Wednesday, 26 October 2011 12:35 Print
La via italiana all’integrazione Illustrazione: Alessandro Sanna

La terza via all’integrazione, alternativa a multiculturalismo e assimilazionismo, valorizza le identità e passa per una doppia appartenenza: è una via tutta italiana, che affonda le radici nella storia del paese. Per realizzarla è indispensabile promuovere il rispetto reciproco, senza rinunce e in nome di una laicità positiva dello Stato.


Quando il primo ministro britannico, James Cameron, all’inizio di quest’anno ha scosso il mondo intero dichiarando il fallimento del multiculturalismo, in tutto l’Occidente si è riacceso più forte che mai il dibattito su quale sia la via migliore per l’integrazione. Se il multiculturalismo è fallito e l’assimilazionismo tradisce un forte retrogusto neocolonialista, si impone la ricerca di una terza via, che sia “altra” rispetto a entrambe. Una terza via che potrebbe essere tutta italiana.

Alla domanda su cosa debba fare un immigrato di seconda generazione, integrarsi o mantenere l’identità e le tradizioni del paese di provenienza, la risposta può quindi essere una sola: integrarsi mantenendo le proprie tradizioni. “Integrare” deve poter significare amare il luogo in cui si è nati o si è deciso di vivere senza dover per questo rinunciare alla propria cultura di origine. Senza recidere le proprie radici o rifugiarsi esclusivamente all’interno di queste.

Mi sembra un punto focale, ma invece di ragionare in astratto intorno al significato delle parole identità, tradizione e integrazione vorrei riprendere, fra i tanti SMS ricevuti il 17 marzo, giorno dell’anniversario dell’Unità d’Italia, quello che ricordo con maggior piacere e che dice: «Cara Giorgia, a prescindere dalle polemiche sulla festa della nostra amata Italia è stato meraviglioso e solenne ricordare la nostra storia e il tesoro di cui dobbiamo essere degni eredi. Ricordare poi quella breve ma intensa e appassionata lezione sui ragazzini del Risorgimento che ci hai donato ha completato il senso dell’italianità che ci accomuna. Un caro saluto, Lubna Ammoune». Con Lubna ci siamo conosciute due anni fa a un convegno. La sua passione, il rigore, la conoscenza vera, approfondita e sentita della questione che stavamo discutendo davanti a quella platea mi hanno fatto pensare all’immenso patrimonio di energie ed entusiasmo che può venirci da una nuova generazione di italiani come lei.

Questa è la “via italiana” all’integrazione: la via che valorizza e non cancella l’identità. E passa per una doppia appartenenza: un plus, una sintesi autonoma ed eclettica. È una via che conosciamo bene, meglio di chiunque altro su questo pianeta, perché l’abbiamo già percorsa attraverso l’emigrazione italiana nel mondo. Un modello di attaccamento alla propria terra di origine più forte di qualunque cosa. Più forte persino di quello di chi non si è mai allontanato neppure un giorno dall’Italia. Eppure questo grande amore per le proprie radici, anche a distanza di secoli e generazioni, non ha impedito una integrazione talmente profonda e capillare da esprimere sindaci di New York, presidenti indiani, eroi di guerra, campioni sportivi e quant’altro. Si tratta forse di qualcosa che è presente nel nostro DNA fin da tempi antichissimi. Basti pensare a Roma e alla sua capacità di farsi condividere persino dai popoli conquistati con la violenza delle armi. Sarebbe quindi un controsenso storico non valorizzare oggi una via italiana alla giusta integrazione. Quando si parla di immigrazione, la tentazione dell’ideologia, della risposta faziosa e scontata, è sempre in agguato. Così come la tentazione dell’ipocrisia, o del buonismo, o del razzismo. Spesso l’immigrazione viene trattata dalla politica e dall’informazione solo in termini di emergenza e non di opportunità. E dietro la scelta di un vocabolo piuttosto di un altro c’è tutto un mondo di significati diversi. C’è una profonda differenza, ad esempio, tra “tolleranza” e “rispetto”. A me, infatti, non piace la parola “tolleranza”. Non devo “tollerare” alcunché, né devo essere tollerata. Preferisco parlare di una cultura del rispetto. La tolleranza è diventata sinonimo di rinuncia ai propri valori e alla propria essenza, senza nemmeno arrivare a conoscere davvero l’altro. Rispetto deriva invece dal latino respicere, cioè guardare in profondità, cogliere l’essenza dell’altro.

Che cosa può spingermi ad avvicinarmi all’altro, a volerlo conoscere? Il rispetto, certo non la tolleranza, che mi terrà sempre a distanza di sicurezza e mi farà diffidare di lui. Chi è sicuro della sua identità non ha alcun problema a dialogare con chicchessia. Nessuno può farci arretrare dalle nostre conquiste di civiltà e democrazia, e chiunque venga con lo stesso atteggiamento di rispetto, può solo arricchirci. Che è poi il motivo per cui ho così in odio il razzismo e i razzisti, e mi disgusta chi parla degli immigrati in termini dispregiativi. Solo le persone deboli possono, infatti, temere il confronto e il dialogo con chi ha un’altra nazionalità, un’altra cultura, un’altra religione, o con chi ha fatto scelte di vita diverse. Io non faccio passi indietro. Non sulla mia identità e sulla mia storia. Ecco perché non mi piace la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha deciso che esporre il crocifisso nelle classi è «contrario al diritto dei genitori di educare i figli in linea con le loro convinzioni e con il diritto dei bambini alla libertà di religione». Credo sia una sentenza insensata e scandalosa, oltre che pericolosa. Il crocifisso è contrario a diritti e libertà? Nient’affatto. È il simbolo che per primo ci ha insegnato il rispetto degli altri, il loro valore e il valore della solidarietà, e che ci ammonisce sui diritti inalienabili degli esseri umani, tutti, prima ancora che dei cittadini. Se c’è qualcuno che davvero si sente offeso dal simbolo del crocifisso e vuole obbligarmi a toglierlo, allora non dovrebbe scegliere di vivere qui. Perché questa è la nostra storia, veniamo da lì e se a qualcuno non piace non sono obbligata a fare un atto di abiura.

Mi piace riferirmi alla laicità positiva di cui parlarono Sarkozy e Benedetto XVI in un loro incontro di qualche tempo fa. Come loro auspico l’avvento di una laicità positiva che, pur vegliando sulla libertà di pensiero, non consideri le religioni un pericolo ma una ricchezza. Le religioni, infatti, rappresentano un ostacolo solo allo sviluppo di quella cultura nichilista che finisce per confondere i capricci con i diritti. Credo anzi che le religioni possano aiutare gli uomini a non smarrirsi nel presente o in se stessi. Mi ha sempre affascinato la vicinanza di quel detto ebraico che dice «Quando l’uomo pensa Dio sorride » con la celebre affermazione del filosofo islamico Averroé «Chi pensa è immortale, chi non pensa muore». Il pensiero è religione e viceversa.

Ma come viene vissuta questa corrispondenza dai giovani delle seconde generazioni? L’espressione più utilizzata per identificare la radice delle difficoltà o del rifiuto da cui si sentono talvolta attorniati i giovani stranieri intervistati per la ricerca condotta da Mario Abis è ignoranza. Ignoranza di cosa sia l’Islam, delle differenze esistenti tra un marocchino, un algerino, un egiziano; del fatto che i giovani di seconda generazione, cresciuti in Italia, parlino benissimo l’italiano. Questi giovani attribuiscono ai mass media molta responsabilità «nella diffusione della diffidenza e del razzismo», perché raccontano l’immigrazione «evidenziando e dilatando gli episodi di devianza e di criminalità e trascurando tutto il resto. La realtà degli immigrati, la loro quotidianità, le trasformazioni, la loro cultura sono tutti aspetti che non trovano spazio nei media». Condivido molto quest’analisi.

Per questo al ministero della Gioventù ci siamo posti il problema “dell’ignoranza” in questa materia. Abbiamo fornito ai punti Informagiovani materiale e guide per aiutare i ragazzi stranieri che si rivolgono a quegli sportelli: dalle informazioni sui permessi di soggiorno e le pratiche per la cittadinanza, fino ai corsi e alle opportunità di integrazione. Abbiamo anche fornito una serie di schede-paese che possono servire a conoscere i paesi extraeuropei dai quali proviene la maggior parte degli immigrati. Insieme all’ISFOL abbiamo anche condotto una ricerca che sarà disponibile a breve. Sono state poste le stesse domande a ragazzi italiani, di seconda generazione e stranieri. Ho trovato particolarmente interessante il capitolo che riguarda più direttamente la scuola. È ovvio che la scuola sia il luogo principe dell’integrazione. Il quadro che emerge è un quadro in cui in generale la stragrande maggioranza dei ragazzi italiani e dei ragazzi di seconda generazione si considera “molto integrata” nella realtà sociale. La percentuale è un poco più bassa, ma non troppo, se si fa la stessa domanda ai ragazzi stranieri. C’è però un dato che considero interessante, e riguarda la consapevolezza della cittadinanza: né i ragazzi italiani né quelli di seconda generazione hanno in effetti idea di come funzioni la legge sulla cittadinanza. L’appartenenza alla stessa comunità scolastica e sociale è per loro elemento sufficiente. Il resto, ai loro occhi, sembra essere più che altro un problema burocratico.

E questo ci porta ad affrontare in concreto il nodo della cittadinanza. Al netto di tutte le teorie e di tutti i dibattiti che possiamo costruirci intorno, c’è un principio che mi sta a cuore e dal quale vorrei partire: “L’Italia a chi la ama”. Penso che la patria non sia un dato che si acquisisce per mera discendenza, qualcosa che ci troviamo a ereditare e archiviamo. La patria è una scelta che rinnoviamo ogni giorno, una scelta libera e appassionata. Dobbiamo considerare che oggi ci sono migliaia di ragazzi stranieri che sono nati e cresciuti in Italia. Di fatto, sono italiani come i loro coetanei. Il punto resta dunque quello di calare nell’ordinamento dello Stato l’affermazione di principio “l’Italia a chi la ama”. Una questione di cui ultimamente si dibatte molto (nelle commissioni parlamentari ci sono infatti varie proposte di riforma) e che personalmente ritengo si debba affrontare senza demagogie inutili né scorciatoie, ossia integrando lo ius sanguinis con lo ius soli. Il diritto alla cittadinanza per “linea di sangue” non è infatti una questione di razza o di etnia. Rispecchia il concetto per cui chi è figlio di italiani è italiano, perché avrà ricevuto dalla sua famiglia una formazione culturale e civica che fa di lui un cittadino italiano. Ma, allo stesso modo, bisogna riconoscere che un giovane può essere forgiato come cittadino italiano anche in altri modi. E penso ovviamente al ruolo della scuola. Sono in generale contraria all’ipotesi di ridurre a zero o quasi i tempi per la cittadinanza o di renderla automatica dopo un certo periodo di permanenza. Ma credo che un giovane, nato o no in Italia, se frequenta con profitto la scuola dell’obbligo, debba essere considerato alla stregua di un figlio di italiani. E che abbia diritto, quindi, alla cittadinanza italiana.

Dall’esame dell’attuale legge per l’acquisizione della cittadinanza appare chiaro che molto può essere migliorato per facilitare i ragazzi delle seconde generazioni. Per tale motivo, proprio in questi giorni sto ragionando su una iniziativa normativa che consenta di tenere conto del problema, che garantisca ai giovani stranieri pari opportunità. Favorendo, ad esempio, il riconoscimento formale del loro status sostanziale prima della maggiore età e rendendo più semplici le pratiche per la cittadinanza una volta maggiorenni. Non sarebbe nulla di più se non il giusto riconoscimento per quei ragazzi che sono italiani a tutti gli effetti.