Beni culturali

Written by Antonio Paolucci Tuesday, 21 June 2011 17:12 Print
Beni culturali Illustrazione di Guilherme Kramer

Quando diciamo “beni culturali” (l’espressione è diventata ufficiale con la nascita del ministero di Spadolini ma era entrata nell’uso già negli anni Sessanta dello scorso secolo, al tempo della Commissione Franceschini) diciamo tutto e niente. Perché sono beni culturali i Tiziano e i Caravaggio della Galleria Borghese, i palazzi rinascimentali di Venezia, i codici miniati della Biblioteca Laurenziana di Firenze, ma possono esserlo anche le scatole di fiammiferi e i manifesti pubblicitari vecchi di qualche decennio.

Quando diciamo “beni culturali” (l’espressione è diventata ufficiale con la nascita del ministero di Spadolini ma era entrata nell’uso già negli anni Sessanta dello scorso secolo, al tempo della Commissione Franceschini) diciamo tutto e niente. Perché sono beni culturali i Tiziano e i Caravaggio della Galleria Borghese, i palazzi rinascimentali di Venezia, i codici miniati della Biblioteca Laurenziana di Firenze, ma possono esserlo anche le scatole di fiammiferi e i manifesti pubblicitari vecchi di qualche decennio.

Quello di “beni culturali” è un concetto universale e pervasivo dal momento che tutto è “cultura” nelle azioni, nelle opere, nei prodotti dell’uomo. Una espressione così generica al cittadino non dice molto.

Ciò che noi chiamiamo “beni culturali”, in Francia è definito patrimoine, heritage in Inghilterra e nel mondo anglosassone. Dire “patrimonio” ed “eredità” è molto più efficace, soprattutto è assai più vincolante nella percezione dei cittadini. Significa chiamare direttamente in causa i concetti di “proprietà” e di “responsabilità”. I Tiziano e i Caravaggio, i palazzi rinascimentali e le aree archeologiche sono “miei” perché li ho ereditati dalla storia del mio paese. Si tratta di un patrimonio che ho ricevuto in temporaneo affidamento e che do-vrò consegnare inalterato a chi verrà dopo di me. Sono quindi responsabile della sua conservazione e valorizzazione. Questo significano “patrimonio” ed “eredità”.

Fino alla fine degli anni Cinquanta dello scorso secolo nell’italiano della amministrazione tutelare si usavano termini di cui era chiara la provenienza in parte dall’ordinamento napoleonico e soprattutto dalla antica trattatistica accademica italiana (da Vasari a Lanzi). Se il “soprintendente” aveva ruolo e potestà analoghi a quelli del prefetto, egli amministrava cose che si chiamavano “belle arti”, “gallerie”, “monumenti”. Così fino a ieri, perché oggi la mutazione linguistica ha creato i “beni artistici” ma anche (insieme nella stessa epigrafe) “demoantropologici”, mentre i monumenti rientrano nella definizione di “beni ambientali e architettonici”.

La conseguenza più grave della grande mutazione linguistica è che l’antico, bellissimo “godimento” di fronte ai capolavori dell’arte è diventato “fruizione”. L’effetto è perverso e comico insieme. Credo sia evidente atutti, infatti, che si può “fruire” della toilette quando se ne ha bisogno, delle agevolazioni fiscali qualora se ne abbia diritto, degli sconti in stagione di saldi. Ma come è pensabile che si possa “fruire” della “Primavera” di Botticelli agli Uffizi o dell’“Apollo e Dafne” di Bernini alla Galleria Borghese?

Se la “fruizione” è comica, il “territorio” è pericoloso. Una volta la parola “territorio” praticamente non esisteva. C’erano il contado, la campagna, il paesaggio. Il “territorio” lo hanno inventato i sindaci, gli assessori, gli architetti, gli urbanisti, i geometri. Perché la parola “territorio” è progressista e liberatoria. Porta con sé l’idea di utilizzo, di modifica, di sfruttamento. Il territorio è fatto apposta per costruirci sopra ipermercati e aree industriali, villette a schiera e capannoni. Quanto è più democratico il “territorio” rispetto all’ottocentesco, reazionario “paesaggio” che coinvolge idee di contemplazione, di immodificabilità, di vincolo!... La conseguenza è che se consideriamo uguale a uno ciò che è stato costruito nella penisola italiana in duemilacinquecento anni, dai templi di Agrigento al Foro Mussolini, quello che abbiamo edificato fra il 1950 e oggi è pari a nove volte quell’uno. Conseguenza perversa della mutazione linguistica. Ecco cosa succede a far diventare il paesaggio territorio...