Riformismo mancato e «libertà di mercato». Sulle vicende della Commissione d'inchiesta antitrust

Written by Mattia Granata Friday, 29 February 2008 20:54 Print

Sul finire degli anni Settanta, ripercorrendo l’evoluzione del capitalismo italiano nel dopoguerra, Guido Carli, allora presidente della Confindustria, attribuiva alla sottovalutazione del tema della concorrenza e degli strumenti più adatti a favorirne il libero dispiegarsi nei mercati uno dei fattori ritardanti significativi, che avevano segnato lo sviluppo del paese.

 

«Gli imprenditori – affermava – non si [erano] mai battuti seriamente per una legge che disciplinasse la concorrenza (…) era l’intero ambiente politico, culturale ed ideologico a sottovalutare il tema (…) i grandi partiti politici, il democristiano, il comunista, il socialista, erano decisamente contrari alla stessa ideologia della competitività e, quindi, dell’efficienza. (…) Sì, credo che gli imprenditori italiani si siano accollati una pesante responsabilità non impegnandosi in una aperta battaglia a favore della concorrenza».1

In effetti il tema della concorrenza, delle dimensioni e del grado di apertura dei mercati, ma anche, più in generale, delle forme di governo dei soggetti che nei mercati medesimi agivano, rimase, fin dalla Liberazione, poco approfondito sia in sede politica che in ambito culturale. Si devono evidentemente eccettuare i riferimenti di ordine generale e propagandistico che emersero nell’ideologizzato dibattito politico dei primi anni del dopoguerra.

L’Italia era dotata di un Codice civile che risentiva della temperie culturale dell’epoca precedente, mosso da una ratio semmai opposta al sostegno della concorrenza, che, come è stato evidenziato, «ignora[va] (…) i moderni problemi dell’economia di mercato».2 La stessa Assemblea costituente non richiamò l’esigenza di impostare specifiche iniziative di antitrust a tutela dei mercati. Per tutto il primo decennio postbellico, quindi, l’Italia non solamente rimase priva di norme contro le pratiche lesive o restrittive della libera concorrenza, ma anche di un qualificato dibattito in proposito. Fu nel corso degli anni Cinquanta che, progressivamente, maturò un’opinione pubblica riguardo ai temi del monopolio; contribuirono in tal senso gli studi di economisti e l’opera di pubblicisti quali Ernesto Rossi e di periodici come il «Mondo» che, focalizzando le caratteristiche dei settori della siderurgia, dell’energia, degli idrocarburi, del cemento, dello zucchero, ne esplicitarono le barriere all’entrata e le conseguenze legate allo sfruttamento dei consumatori. Certamente contribuirono alla divulgazione del tema – se non alla sua analisi – gli indirizzi di lotta al monopolio sostenuti in ambito sindacale e politico dalle forze di matrice socialcomunista, e l’avversione confindustriale tradizionalmente rivolta verso i monopoli statali e le pretese alterazioni al regime concorrenziale che da questi sarebbero derivate. Il momento di avvio della «lunga marcia »3 per una riforma del diritto societario e soprattutto del processo di confronto degli interessi, propedeutico all’elaborazione di una disciplina antimonopolistica, fu rappresentato dal primo convegno degli «Amici del Mondo», intitolato «Lotta contro il monopolio», tenutosi a Roma il 12 e 13 marzo del 1955. L’impostazione riformista che connotava questa iniziativa, apportò un deciso contributo agli studi in materia di limiti alla concorrenza4 e dal confronto attivato, oltretutto, emersero i primi progetti di legge in proposito presentati in parlamento, nel 1956, ad opera di deputati liberali. Un’accelerazione, o almeno un’esteriore e generalizzata condivisione del problema, si manifestò in seguito all’entrata in vigore del Trattato del MEC, nel 1958, che pareva rendere urgente il tema dell’elaborazione di una legislazione in materia di concorrenza. Infatti, negli articoli 85 e successivi del trattato si dichiaravano «incompatibili» con il mercato comune gli accordi tra imprese, le decisioni d’associazione e le pratiche restrittive concordate fra soggetti economici. In sede internazionale, poi, la questione delle pratiche lesive della concorrenza, già considerata nella Carta dell’Avana, era stata ripresa esplicitamente dallo statuto della Comunità del carbone e dell’acciaio.5

In uno dei primi progetti di legge di questo periodo, quello di Riccardo Lombardi e Ugo La Malfa del 12 settembre 1958,6 si evidenziava come l’Italia fosse «l’unico paese di qualche importanza la cui legislazione non conten[eva] alcuna norma contro le intese consortili…[che avevano] sempre abbondantemente prosperato nel nostro paese contribuendo in modo rilevante a limitare le dimensioni del mercato, a consentirne lo sfruttamento da parte degli ‘operatori abituali’ precludendo la via di accesso ai nuovi imprenditori, infine a sclerotizzare la vita produttiva».7 In questo contesto, il 21 novembre dello stesso anno, Roberto Tremelloni, deputato socialdemocratico già ministro dell’industria e delle finanze, presentò per la prima volta alla camera la sua proposta di «Inchiesta parlamentare sui limiti posti alla concorrenza nel campo economico » (poi detta «Antitrust»). Tremelloni era esponente di un socialismo riformista di tradizione liberale e antimarxista, fautore di un capitalismo progressivo, che aveva nel laburismo inglese e nella tradizione fabiana un punto di riferimento culturale; ma era anche un appassionato studioso di fatti economici, tanto da essere considerato per tutta la sua carriera politica, svolta senza deviazioni al fianco di Giuseppe Saragat, quale rigoroso tecnico attivo in politica. Da sempre convinto sostenitore dello strumento dell’inchiesta parlamentare, contemplato nella Costituzione all’articolo 82, era stato il primo che, rifacendosi ovviamente all’esempio britannico del piano Beveridge, e pure alle indagini di Jacini e sui contadini del mezzogiorno, aveva valorizzato questo strumento promuovendo la storica «Inchiesta parlamentare sulla disoccupazione », affiancata dall’inchiesta sulla miseria, di Ezio Vigorelli e seguita da quella sulle condizioni dei lavoratori di fabbrica. L’organismo progettato avrebbe dovuto accertare le principali limitazioni alla concorrenza nelle «unità produttive del paese», nonché «pratiche concertate o altre condizioni limitative che po[tessero] (…) impedire, restringere o falsare il gioco della normale concorrenza»; secondariamente esso avrebbe dovuto mirare ad esaminare e valutare i motivi di permanenza o le cause (…) di tali limitazioni; infine, doveva esaminare, anche rispetto alle esperienze condotte in altri paesi, le modalità di rimuovere, se necessario, tali cause suggerendo al parlamento concrete proposte legislative e provvedimenti di politica economica.

Scopo dichiarato da perseguire era impedire che le caratteristiche e i comportamenti diffusi nel nostro paese si risolvessero in un ritardo per «l’effettivo accesso al Mercato comune europeo, o comunque in un ritardo dello sviluppo economico».8 Nei mesi che seguirono la proposta Tremelloni, evidentemente dissimile dalle altre poste in campo per il diverso terreno su cui suggeriva di indirizzare l’impegno del parlamento, i progetti di legge provenienti dai differenti gruppi politici si susseguirono.9 Comune a tutti i progetti fu la costituzione, seppur in varie forme, di un organismo con facoltà di condurre indagini su organizzazioni e attività delle SpA e dei trust. Di altro tenore era il progetto di «Controllo sui monopoli» avanzato dal gruppo comunista, al principio del 1960, con primo firmatario Giorgio Amendola,10 mirato a comporre una «Commissione permanente di controllo sui monopoli», attraverso cui si sottoponeva al parlamento il controllo della concorrenza privata, differenziandosi dagli indirizzi seguiti dalla disciplina statunitense ed europea.11 «Il vero problema » si affermava «è di stabilire chi controlla, chi deve controllare e dirigere – e a quali fini – le grandi imprese che operano in condizioni di monopolio. O il potere politico democratico riesce ad imporre ai monopoli – sia pure per gradi – un suo controllo e una sua programmazione fondata sulle esigenze di sviluppo economico nazionale, o i monopoli continueranno ad imporre il loro soffocante dominio non solo sulla vita economica ma anche su quella politica».

A dimostrazione del picco d’interesse raggiunto in questa fase, nel febbraio del 1960 giunse il disegno di legge sulla concorrenza12 del ministro dell’industria Colombo. L’analisi fatta da questo contribuiva ulteriormente ad allargare il dibattito fra gli operatori economici, gli studiosi e i rappresentanti politici.

Era in questo clima di interesse per il tema – in sede storiografica valutato come un «rituale di fede europeista insincero»13 – che alcuni mesi prima Tremelloni, constatando l’«ansia (…) di esplorare questo grosso problema»14 aveva nuovamente presentato al parlamento la proposta di inchiesta. Egli partiva dalla constatazione che le norme recenti del Trattato di Roma per la Comunità economica europea rendevano urgente la soluzione del problema, ma indicava quale principale motivazione la necessità di porre in atto tutte le misure possibili per «accelerare lo sviluppo economico». «Non si può, infatti» sosteneva il socialdemocratico «pensare ai problemi dello sviluppo economico se non si è disposti a mantenere alto, o a un sufficiente livello, il ‘grado di innovazione’. E questo grado non si raggiunge se non si eliminano le condizioni che lo frenano. Siffatti elementi frenanti sono, ad esempio, quelli che si manifestano con l’inflessibilità dei prezzi, con l’altissimo grado di concentramento (…); infine, con la mancanza di libertà di accesso in talune attività produttive. (…) È, dunque, dovere dei pubblici poteri (…) tenere sotto osservazione costante alcuni fenomeni della nostra vita economica e sociale, evitando che si creino fantasmi e nebbie intorno ad alcuni fatti, ma evitando anche che cadano nel dimenticatoio». Esprimeva un formale apprezzamento per il «tentativo legislativo» avanzato da Colombo, pur interpretando la legge antimonopolistica solamente come uno degli strumenti necessari, che rischiava, senza l’adeguata conoscenza dei fatti, di costruire sul piano legislativo «scatole giuridiche che minaccia[va]no di essere o di rimanere delle scatole vuote».

D’altra parte Tremelloni si distanziava dalla posizione delle sinistre evidenziando l’intenzione di «non fare unicamente divertenti e costosi, seppur appassionanti, processi all’impresa X o all’impresa Y, quasi sempre senza alcun risultato punitivo o repressivo». Su queste basi, richiamando le inchieste statunitensi e britanniche, sottolineava l’esigenza di istruire un’indagine «non [a] carattere inquisitoriale, ma [a] carattere conoscitivo» che offrisse gli elementi per impostare «una legislazione non improvvisata e giustamente severa» e per stimolare la formazione di un’opinione pubblica: «la conoscenza» affermava «[era] sempre, e rimane[va], la forza più rivoluzionaria che il mondo po[tesse] utilizzare con profitto per un progresso economico e sociale non effimeri».15 «Un libro bianco che potesse essere presentato dall’inchiesta, e che [potesse] poi essere aggiornato annualmente (…) sulle posizioni e condizioni monopolistiche riscontrate da un collegio di alto valore politico e tecnico, avrebbe probabilmente [avuto] assai maggiore valore risolutivo ed educativo che non leggi affrettate che ‘seppelliscono’ il problema», egli concludeva. Le diverse proposte di legge vennero fatte defluire verso una commissione speciale, incaricata dell’esame dei progetti e presieduta da Giulio Pastore affiancato dallo stesso Tremelloni e da Amendola in qualità di vicepresidenti, nominata nel maggio del 1960. Dopo un anno di lavoro essa si pronunciò sulla proposta di inchiesta cui era stata attribuita la precedenza. Essendo l’inchiesta sollecitata per precedere l’impostazione dei progetti di legge, il timore, espresso da La Malfa e da Lombardi, e causa dell’acceso confronto nell’organismo, era che l’istituzione di una commissione potesse «contro le intenzioni del proponente », venire strumentalizzata come mezzo di diversione indeterminata delle decisioni.16 Si decise quindi di creare la commissione d’inchiesta, sciogliendone però il legame di priorità rispetto ai lavori della commissione speciale che avrebbe autonomamente proseguito nella valutazione dei progetti di legge. L’approvazione avvenne con un’unanimità in cui confluì anche il voto del Partito comunista che, per altro, impegnò la Commissione a rendere palesi tutti gli elementi negativi che si frapponevano al libero dispiegarsi della concorrenza per evidenziare che «una efficace politica contro i monopoli non la si [poteva] fare certo soltanto con i provvedimenti (…) in discussione, ma agendo in un determinato modo, con le aziende di Stato, con la politica generale del governo, con determinate nazionalizzazioni, con un determinato tipo di politica di investimenti». A queste affermazioni rispondeva il democristiano Buttè, smentendo che l’inchiesta si istruisse per «aiutare la vasta azione politica del Partito comunista»: «sarebbe un po’ contraddittorio» ironizzava «che noi, volendo difendere l’economia di mercato, ci alleassimo con coloro che questo mercato vogliono sopprimere».

Il testo approvato il 19 aprile 1961 modificava l’iniziale proposta Tremelloni, snellendola ma ampliando lo spettro di osservazione; se l’esponente socialdemocratico aveva proposto di «accertare le principali limitazioni alla concorrenza nelle unità produttive del paese», il testo modificato ampliava l’indagine ai «vari settori delle attività economiche del paese».17 A far parte della Commissione, costituita il 18 maggio successivo e presieduta da Tremelloni, affiancato dal democristiano Dosi e da Lombardi, vennero chiamati ventidue deputati.18 L’avvio dei lavori fu faticoso per la vastità dei compiti assegnati e per la difficoltà nel reperimento della documentazione in mancanza di una sedimentata tradizione di studi. A differenza di altri paesi mancavano, inoltre, organi dell’amministrazione paragonabili al dipartimento del commercio e alla trade commission statunitensi, in grado di fornire documentazione sistematica. L’individuazione di un condiviso metodo di lavoro, quindi, doveva tener conto innanzitutto di questo aspetto a cui si affiancava, tuttavia, un non meno significativo aspetto politico. Il «conflitto» sorgeva tra la maggioranza della Commissione, che conducendo indagini settoriali mirava ad accertare in modo non preconcetto i casi di limiti alla concorrenza, e una sua parte, rappresentata dagli esponenti socialcomunisti, che mirava a «personalizzare» la ricerca, indagando casi specifici scelti a priori – ed evidentemente già valutati patologici – come la Federconsorzi, la Fiat, la Montecatini, l’Eridania e così via.19 L’inchiesta venne così suddivisa in due fasi:20 la prima, definita «esame dei fatti», si connotava come essenzialmente conoscitiva e mirava ad acquisire gli elementi indispensabili alla formulazione del giudizio attraverso la raccolta di dati, di pareri di esperti, in Italia e all’estero, la somministrazione di questionari e l’affidamento di ricerche a studiosi qualificati. La seconda fase fu dedicata all’esame delle conclusioni, alla redazione dei suggerimenti e della relazione conclusiva e alla pubblicazione degli atti. Alle questioni metodologiche e politiche se ne aggiungevano altre non meno significative poiché se di difficile reperimento erano i dati storici o pubblici, ostacoli quasi insormontabili si ponevano per l’acquisizione di dati occulti, quali gli accordi o le intese fra operatori economici.

La Commissione affidò a studiosi ed economisti l’indagine su decine di temi afferenti alla materia, e diffuse i propri quesiti a ministeri, enti, associazioni e organismi a carattere pubblico e privato, nonché a privati e studiosi. Essa stessa, inoltre, avviò nell’inverno 1961-62, «interrogatori » a studiosi di chiara fama in grado di indirizzare la raccolta e l’interpretazione dei dati.21 Gli interrogatori conoscitivi permisero d’incontrare in un breve torno di tempo i professori Sylos Labini, Steve, Coppola D’Anna, Corbino e Rossi Doria.22

Un primo momento di sospensione, ma anche di verifica del lavoro della Commissione fu dovuto, nel febbraio del 1962, alle dimissioni di Tremelloni, chiamato al ministero del tesoro. Lasciando l’incarico rilevò che, superata la prima «difficile» fase, il terreno da esplorare si era presentato «più vasto» di quanto non si potesse prevedere a priori, e irto di «ostacoli e trabocchetti »,23 costantemente frapposti alla raccolta di informazioni, dovuti alla «diffidenza generale» che circondava il tema. Gli osservatori esterni, poi, evidenziarono le manovre diversive provenienti in particolare dalle associazioni di rappresentanza che in genere – ovviamente – escludevano a priori l’esistenza di accordi, e, se ammettevano l’esistenza di concentrazioni, ne escludevano conse- guenze dirette sui prezzi e sui profitti, attribuendo le colpe di limitazioni alla concorrenza all’attività dello Stato. In materia di utili rispetto al capitale investito, affermava Tremelloni, «i più rispondevano di non sapere come calcolarli». Anche chi ammetteva l’esistenza di intese, come l’associazione fibre tessili artificiali, negava che queste ledessero la concorrenza considerandole anzi benefiche; quanto alle risposte della Confindustria alle richieste di elenchi di intese e accordi tra produttori, queste non offrivano elementi utili all’analisi. L’unica eccezione era rappresentata dagli industriali farmaceutici che denunciavano l’esistenza della Pharmindustria – accordo fra Lepetit, Carlo Erba, Farmitalia e Squibb – che svolgeva una «decisa e dichiarata azione verso la monopolizzazione dell’industria».24

Le dimissioni del presidente sospesero le attività della Commissione fino al settembre successivo, quando salì alla presidenza Dosi, affiancato dal socialdemocratico Orlandi.25 In questo momento, mentre proseguivano gli interrogatori conoscitivi con le audizioni dei principali esponenti del capitalismo italiano (tra gli altri Valletta, Pirelli, Siglienti, Carli, E. Rossi oltre a Casaltoli, Giustiniani, Borletti, Nuraghi, Faina, Petrilli, De Maria), la Commissione decretava terminata la fase di studio dei problemi di ordine generale e settoriale, inaugurando le indagini dirette sui vari settori a partire dal cementiero, dal farmaceutico e dagli enti operanti in agricoltura. Pochi mesi dopo, nel febbraio, lo scioglimento delle camere provocò una nuova interruzione dell’attività per la decadenza della Commissione stessa. Tale avvenimento sospese il lavoro proprio nel momento in cui era conclusa l’indagine sul settore del cemento e pressoché terminata quella relativa agli enti agricoli. La sospensione, anzi, avvenne proprio nel giorno in cui di fronte alla Commissione dovevano sfilare in audizione i due più alti funzionari del ministero dell’agricoltura allo scopo di approfondire l’attività della Federconsorzi e i rapporti tra potere pubblico e associazioni private. Al principio della IV legislatura, si susseguivano due proposte di legge per istituire nuovamente la Commissione, presentate da parte socialdemocratica26 e comunista. Quest’ultima si esprimeva in modo molto netto sull’«ingiustificato (…) [e] inopinato scioglimento» della Commissione, che aveva provocato «inquietanti interrogativi» presso l’opinione pubblica che seguiva con «vivo interesse» l’operato dell’organismo. Le indagini condotte, dal punto di vista del PCI, avevano fornito in «risultanze di grande interesse anche ai fini della moralizzazione della vita pubblica».27 E in luglio, quando i progetti passarono al vaglio della camera, da parte comunista si attribuiva alla «responsabilità diretta» della Democrazia Cristiana lo scioglimento della Commissione.28

La ricostituzione di quest’ultima avvenne finalmente nel successivo ottobre29 e se ne stabilì la durata fino al giugno del 1965, cercando così di ottenere quel respiro temporale nei lavori che fino a quel momento non aveva certo contrassegnato per serenità il suo operato. All’elezione di Tremelloni alla presidenza, tuttavia, e alle nuove dimissioni da parte di quest’ultimo per l’assunzione del ministero delle finanze,30 seguì una nuova sospensione dei lavori che si protrasse fino al gennaio quando, dopo quasi un anno di inattività, sotto la presidenza di Orlandi, si riavviò l’attività da dove s’era interrotta: ossia dall’audizione del professor Albertario e del dottor Miraglia del ministero dell’agricoltura. I lavori della Commissione si conclusero nel giugno del 1965. Nei pur frammentati quattro anni della sua attività essa aveva tenuto settantuno sedute in plenaria e quarantuno nelle sottocommissioni settoriali, dedicando sessantatre ore agli interrogatori conoscitivi, utili per indirizzare il lavoro in virtù del supporto degli esperti, e settantasei ore agli interrogatori contestativi ai principali operatori dei settori indagati. Essa aveva stimolato la produzione stenografica degli interrogatori e la stesura di circa trenta monografie su aspetti specifici del problema, parte delle quali era affidata alla pubblicazione con la relazione riassuntiva al parlamento.31 Come ultimo atto, oltre ad una riforma del Comitato interministeriale prezzi, la Commissione propose alla camera la costituzione di un organismo permanente finalizzato al reperimento dei dati relativi alle restrizioni alla concorrenza e al continuo aggiornamento delle norme in materia. All’istituendo organismo, inoltre, doveva spettare il compito di vigilanza sui mercati e sul loro grado di apertura ed efficienza.

Il fatto che tali questioni, così come la redazione di una specifica normativa, come è noto, rimanessero impregiudicate ancora per lungo tempo, rende ancora più interessanti, ben al di là dei risultati raggiunti, le vicende di questa prima Commissione antitrust, antesignano esperimento, voluto da Roberto Tremelloni, di indagine sul grado di libertà e civilizzazione dei mercati italiani.

[1] E. Scalfari, Carli. Intervista sul capitalismo italiano, Laterza, Roma-Bari 1977, pp. 21 e sgg.

[2] N. Irti, Codice civile e società politica, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 44.

[3] P. Marchetti, Diritto societario e disciplina della concorrenza, in F. Barca (a cura di), Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra ad oggi, Donzelli, Roma 1997, p. 471.

[4] Ivi, p. 473.

[5] Legislazione antimonopolistica e mercato comune, in «Mondo economico», 6 dicembre 1958.

[6] Progetti di legge 247 e 248 del 12 settembre 1958.

[7] «Rivista di diritto industriale», 1/1960, pp. 298 e sgg.

[8] Camera dei deputati, Atti parlamentari, discussioni, seduta del 21 novembre 1958, p. 4212.

[9] Progetti di legge 933 del 12 marzo 1959 dei liberali Malagodi, Bozzi, Cortese e Alpino; 1172 del 9 maggio 1959 dei democristiani guidati dall’onorevole Carcaterra; e 1714 del 18 novembre 1959 firmata da democristiani, liberali, socialdemocratici.

[10] Progetto di legge 1903 del 15 gennaio 1960.

[11] Marchetti, op. cit., pp. 468- 469.

[12] Disegno di legge 2076 del 24 febbraio 1960.

[13] Marchetti, op. cit., p. 485.

[14] Camera dei deputati, Atti parlamentari, discussioni, seduta del 16 febbraio 1960, pp. 13165 e sgg.

[15] R. Tremelloni, Inchiesta sui monopoli, in «La Giustizia», 12 dicembre 1959.

[16] Camera dei deputati, Atti parlamentari, discussioni, seduta del 19 aprile 1961, p. 20769.

[17] Proposta di legge 582 del 21 novembre 1958, p. 3.

[18] Commissione d’inchiesta sui limiti posti alla concorrenza nel campo economico. Proposte, in Archivio Tremelloni (Art.), B. 1436.34, Ciriec.

[19] C. Cavalli, L’inchiesta parlamentare sui monopoli ostacolata dai dissensi tra i vari partiti, «Il Messaggero», 7 febbraio 1962.

[20] Ordinamento dei lavori e struttura della Commissione, in Art, b.1436.34.

[21] Proposta di legge 582 bis del 22 marzo 1962, pp. 1-2.

[22] F. Orlandi, Introduzione alla relazione della Commissione d’inchiesta alla Camera dei deputati, Roma 1965, p. 18.

[23] R. Tremelloni, Alcune brevi osservazioni sul lavoro finora compiuto e su quello da compiere, in Art, B. 1436.34.

[24] V. Apicella, La Confindustria restia ad offrire notizie, in «Il Giorno», 18 marzo 1962.

[25] Orlandi, op. cit., p 18.

[26] Progetto di legge 3 del 16 maggio 1963.

[27] Progetto di legge 25 del 17 maggio 1963.

[28] Camera dei deputati, Atti parlamentari, seduta del 17 luglio 1963, p. 366- 367.

[29] Camera dei deputati, Atti parlamentari, seduta del 26 luglio 1963, p 793.

[30] Lettera di Mario Dosi a Roberto Tremelloni del 23 ottobre 1963, in Art, b., 1436.34.

[31] Atti della commissione parlamentare di inchiesta sui limiti posti alla concorrenza nel campo economico, Progetto di legge 3 del 16 maggio 1963.