La ripresa di un'agenda per le liberalizzazioni

Written by Michele Grillo Friday, 29 February 2008 20:49 Print
Le liberalizzazioni fanno parte dell’agenda della politica economica italiana da oltre un decennio. La spinta iniziale non è maturata all’interno del paese, ma è venuta da Bruxelles, quando, negli anni Ottanta, ci si pose l’obiettivo di estendere l’unificazione del mercato europeo a tutte le attività economiche e, in particolare, al vasto comparto dei servizi. L’Italia ha risposto alla sollecitazione europea introducendo nella legislazione nazionale, con la legge 287 del 1990, i principi di diritto della concorrenza contenuti nel Trattato di Roma e riconoscendo, nel sistema istituzionale, un ruolo primario all’Autorità garante della concorrenza e del mercato che la legge istituiva. Nella seconda metà degli anni Novanta, la politica economica italiana ha considerato momenti salienti del suo calendario il recepimento delle direttive europee di liberalizzazione di alcuni servizi a rete (TLC, energia elettrica e gas).

Tra i fattori che hanno aiutato a far maturare nel paese l’adesione al progetto comunitario ha giocato un ruolo fondamentale la consapevolezza che il sistema produttivo italiano si trovava di fronte ad una profonda riorganizzazione nella divisione internazionale del lavoro. I settori del made in Italy erano anche quelli nei quali i paesi emergenti avevano i propri vantaggi comparati. Naturalmente, non erano i settori aperti alla concorrenza internazionale a necessitare direttamente di riforme liberalizzatrici, ma la loro competitività dipendeva dalle condizioni alle quali i settori protetti offrivano beni salario e beni e servizi intermedi alle imprese. Ma, soprattutto, le inefficienze dei settori protetti condiziona vano la capacità di aggiustamento del sistema produttivo nel suo complesso.

Le liberalizzazioni erano quindi necessarie per rendere il sistema produttivo più flessibile e consentirgli di adeguarsi con minori costi sociali al mutato contesto internazionale. Partecipare all’allargamento del mercato europeo aiutava ad affrontare la sfida.

Ma altre vicende si intersecavano. Il progetto europeo procedeva anche per altri canali, realizzando successi più tangibili. L’unificazione monetaria è stata un evento grandioso che ha portato in prima linea, in Italia, l’urgenza di porre rimedio all’elevato debito pubblico. Una politica di liberalizzazioni, accompagnandosi al ritiro della mano pubblica dall’intervento diretto nelle attività produttive, poteva favorire anche la finalità macroeconomica. Ciononostante, i due obiettivi non si sono intrecciati in modo complementare: sul secondo hanno fatto premio alla fine le prospettive di cassa, rispetto al progetto, più ambizioso e più di lungo periodo, di rendere il sistema economico più aperto e più concorrenziale. Privatizzare senza liberalizzare adeguatamente non significava però soltanto perpetuare il monopolio pubblico nel monopolio privato. Significava, soprattutto, mandare un messaggio ambiguo: cioè, che i responsabili della politica economica facevano ben poco affidamento sulle liberalizzazioni come fattore di crescita per il paese; che, altrimenti, diversamente avrebbero soppesato le (possibili) minori entrate dell’oggi, con le (attendibili) maggiori entrate di domani. C’è da aggiungere che l’agenda delle liberalizzazioni non venne estesa, in quegli anni, oltre i settori sui quali si concentravano gli stimoli europei. Molte aree dei servizi restarono ignorate: in particolare, quei servizi nei quali prevalgono non i monopoli pubblici, bensì strutture industriali disperse, organizzate però con assetti fortemente corporativi. Nell’ultimo decennio, il progetto europeo ha conosciuto una fase di rallentamento e il suo affievolimento si è riflesso nella politica economica seguita durante la XIV legislatura. La coalizione di centrosinistra che ha vinto le elezioni politiche del 2006 si è però esplicitamente impegnata a riprendere in mano l’agenda delle liberalizzazioni. Nel luglio 2006 e nel gennaio 2007, il governo ha dato un primo seguito a questo intento con due decreti del ministro Bersani, nei quali l’agenda viene estesa anche a molti settori rispetto ai quali il progetto europeo incideva meno. Anche a causa dell’affievolita tensione europea, la ripresa del programma di liberalizzazioni deve fare i conti con alcune problematiche che meritano di essere approfondite. Prima fra tutte, con il fatto che oggi non è più l’epoca delle grandi direttive comunitarie di liberalizzazione o, se si preferisce, del disegno illuministico che nello scorso decennio si irradiava da Bruxelles. La scelta politica è nelle mani dei singoli paesi. Negli anni passati gli Stati membri hanno reagito con intensità molto difformi alle sollecitazioni liberalizzatici della Commissione. I paesi anglosassoni, i paesi scandinavi e, per certi aspetti, la Spagna sono andati in molti casi ben oltre il recepimento di misure che, a livello europeo, erano disegnate necessariamente come condizioni minime. Altri paesi, tra i quali spesso anche l’Italia, hanno preferito interpretare gli standard «minimi» di Bruxelles come un tributo «massimo» da pagare al progetto di unificazione europea; in altre parole, non come una opportunità ma come un costo. Il programma di governo per la XV legislatura recupera una tensione progettuale. Occorrerà tuttavia avere consapevolezza che questa volta si dovrà fare, in ampia misura, da soli. Nel panorama europeo le liberalizzazioni hanno mutato carattere: non sono più il contenuto di un progetto di cooperazione, ma sono diventate un fattore di competizione tra i paesi dell’Unione. La principale conseguenza negativa è che l’unificazione del mercato europeo si è allontanata nel tempo, come mostrano le vicende dei grandi settori a rete delle public utilities, forse il capitolo più importante delle vicende degli anni Novanta. L’elettricità, il gas, i trasporti, le poste, le stesse telecomunicazioni sono ancora oggi, in Europa, mercati frammentati a livello nazionale, anche se talvolta (come nel caso del mercato elettrico nei paesi Scandinavi) il mercato è stato unificato tra piccoli gruppi di paesi. Per effetto delle direttive europee sono scomparsi, all’interno dei singoli paesi, i vecchi monopoli, legali o di fatto; ma lo spazio aperto al confronto concorrenziale rimane sostanzialmente quello, spesso angusto, delimitato dai confini nazionali. Nelle public utilities l’integrazione dei mercati è particolarmente legata all’assetto delle reti e questo tema solleva una difficoltà più concettuale. Dalla liberalizzazione dei mercati ci si attende un più ampio spazio al decentramento delle decisioni economiche e una riduzione dei momenti di decisione collettiva. Ma è ovviamente impensabile, anche in un disegno astratto e stilizzato, rimuovere del tutto gli ambiti della decisione pubblica. La questione cruciale – che tuttavia è rimasta spesso ambigua e sfumata, sia nel disegno europeo di liberalizzazione, sia nell’attuazione da parte dei singoli paesi membri – riguarda la distinzione del tempo della decisione collettiva dal tempo della delega al mercato. Nel settore delle public utilities il monopolio pubblico si giustificava storicamente a causa del monopolio naturale delle infrastrutture di rete. Poiché la tecnologia richiedeva l’integrazione verticale, il monopolio era esteso a tutta la filiera. Gli sviluppi tecnologici hanno consentito di separare verticalmente le fasi che possono essere operate in concorrenza dalle fasi a rete, dove il monopolio naturale permane. Il nucleo del disegno di liberalizzazione delle public utilities investe perciò la regolazione appropriata dell’interazione tra il monopolio della rete e le fasi in concorrenza. A causa del monopolio naturale, molte decisioni relative alle reti devono configurarsi, direttamente o indirettamente, come decisioni pubbliche, condizionate al perseguimento di obiettivi collettivi. Ma come fissare l’ambito «irriducibilmente» pubblico di tali scelte e qual’è la modalità più appropriata per realizzarle? Il disegno europeo ha affrontato questa questione in una prospettiva particolare, individuando il fulcro della decisione collettiva nella necessità di garantire parità di accesso alla rete e, quindi, level playing field per tutti gli operatori. In tale quadro, ai fini del momento pubblico della decisione è sufficiente l’azione di un «regolatore» con il compito di vanificare gli incentivi dell’impresa di rete a comportamenti opportunistici.

Tuttavia, l’imparzialità dell’accesso non esaurisce l’ambito delle decisioni collettive riguardo alle reti. Altrettanto rilevanti sono le decisioni di investimento nelle infrastrutture. Anche se ignorata nel disegno europeo, che ne ha delegato la soluzione ai paesi membri, tale questione merita attenzione in Italia dove, per molti servizi, le liberalizzazioni sono state avviate partendo da dotazioni inadeguate delle infrastrutture di rete. Le carenze infrastrutturali mettono a repentaglio non solo l’attuazione dei programmi di liberalizzazione, ma perfino le condizioni di consenso a questi programmi, perché sono la causa prima della mancata diminuzione dei costi di molti servizi. Ad esempio, nel settore elettrico, l’insufficienza della capacità trasmissiva nazionale e delle reti di inter-connessione con l’estero resta la principale ragione della sopravvivenza di impianti di generazione marginali inefficienti sui quali si reggono le elevate rendite del sistema. E anche nel gas, dove non c’è un problema di adeguatezza tecnica della rete, la capacità dei gasdotti e la carenza di impianti di rigassificazione sono funzionali al monopolio di ENI nell’approvvigionamento.

Come confermano anche le notizie di queste settimane, in Europa non è prevalso un principio di rigida separazione proprietaria tra rete e offerta dei servizi. Eppure la separazione totale tra rete e servizio è cruciale quando occorre far fronte alle carenze infrastrutturali, ancor più che alla parità delle condizioni di accesso. Il produttore di un servizio a rete che controlla l’infrastruttura ha interesse a che la capacità non ecceda quella compatibile con un assetto «monopolistico» del mercato: basti ricordare le resistenze di ENEL ed ENI che, negli anni scorsi, a ogni sollecitazione ad adeguare le infrastrutture, hanno ripetutamente opposto previsioni di «eccesso di offerta». Al contrario, non può esserci reale concorrenza nell’offerta del servizio se le infrastrutture di rete non sono caratterizzate da un eccesso di capacità produttiva rispetto al fabbisogno che emerge in un equilibrio non concorrenziale. Ma la stessa separazione proprietaria, pur necessaria, può non essere sufficiente. Un operatore di rete separato, quando prende le proprie decisioni sulla base dei «segnali» che riceve dal mercato, può essere indotto anch’egli a scelte di investimento non compatibili con un contesto concorrenziale, se quei segnali riflettono equilibri oligopolistici collusivi tra gli operatori del servizio. La rottura di questi equilibri potrebbe venire soltanto da nuovi concorrenti ai quali però il vincolo strutturale impedisce di inviare i segnali corretti. L’operatore di rete deve essere allora non soltanto separato dagli operatori del servizio, ma anche in grado di finalizzare le proprie decisioni all’obiettivo (che è intrinsecamente pubblico) di investimenti infrastrutturali compatibili con equilibri concorrenziali del mercato. È possibile fare affidamento, a tal fine, sulla regolazione? O non si rende piuttosto inevitabile un controllo pubblico diretto e quindi, in ultima analisi, una proprietà pubblica delle reti? Mentre la regolazione dell’accesso ha raggiunto un elevato grado di sofisticazione, l’esperienza di una regolazione incentivante degli investimenti nelle reti è scarsa e incerta. Agire per via tariffaria offre pochi margini: non basta tenere le tariffe «un poco alte» se queste devono essere remunerative, ma d’altra parte tariffe troppo alte metterebbero a repentaglio l’accesso a condizioni concorrenziali. In questo caso le tariffe finirebbero per essere uno strumento di trasferimento alle reti del surplus di monopolio. L’Autorità per l’energia elettrica e il gas ha tentato alcuni anni fa, in tema di interconnessione con l’estero, una diversa strategia: sottrarre una parte significativa (fino all’80%) delle reti elettriche di nuova costruzione all’obbligo di accesso. In principio, si è trattato di un’idea promettente; ma i risultati ad oggi osservabili non consentono di concludere che tale strategia abbia avuto il successo auspicato. In conclusione, il tema delle reti e del loro controllo pubblico resta cruciale per un programma di effettiva liberalizzazione dei settori a rete: dove ancora percorribile, la linea maestra sembra essere la separazione totale del servizio dalla rete, privatizzando il primo e mantenendo la seconda in mano pubblica. Ma anche nei settori nei quali la rete è stata già, almeno parzialmente, privatizzata, è necessario che il soggetto pubblico trovi modalità appropriate per rendere credibile un forte commitment a favore di una adeguata politica di investimenti infrastrutturali. Problematiche diverse pone l’estensione di un programma di liberalizzazione a servizi offerti non in presenza di condizioni di monopolio, ma in settori che sono strutturalmente dispersi e nei quali l’assetto non concorrenziale del mercato si regge frequentemente su forme di organizzazione corporativa. Sono, in prevalenza, settori di questo tipo i destinatari dei due decreti Bersani, del luglio 2006 e del gennaio 2007. Nella maggior parte dei casi, i due decreti hanno opportunamente rimosso vincoli «istituzionali» di carattere corporativo all’operare dei meccanismi concorrenziali (come nel caso dell’abrogazione delle tariffe minime obbligatorie dei professionisti e dei divieti di pubblicità e di offerta di servizi multiprofessionali), oppure modificando talune condizioni strutturali del mercato, così da ampliare l’area di libera scelta di consumatori e imprese (come nel caso della distribuzione commerciale o delle semplificazioni amministrative per la nascita di nuove imprese). Talvolta però, e in maggior misura con i provvedimenti contenuti nel secondo decreto, più che muoversi nel solco di una effettiva liberalizzazione, si sono introdotte ulteriori e specifiche restrizioni all’autonomia decisionale delle imprese. Si sono giustificate queste misure come volte ad avvantaggiare direttamente i consumatori, ma gli effetti ultimi sono in realtà tutt’altro che chiari, come ha ripetutamente sottolineato il dibattito di questi mesi. Il problema è allora che provvedimenti di questo tipo non solo sono difficilmente interpretabili come misure di liberalizzazione ma, soprattutto, introducono tensioni improprie tra l’obiettivo generale di ampliare l’autonomia decisionale degli operatori nel mercato e una tutela del consumatore che viene perseguita attraverso interventi di policy specifici e invasivi. Inoltre, alcune di queste misure si sostituiscono a norme più generali di protezione della concorrenza e dei consumatori, sollevando particolari perplessità: come nel caso del decreto del luglio 2006, che definisce le clausole di esclusiva tra le imprese di assicurazione e i loro agenti come intese anticoncorrenziali vietate dalla legge 287 del 1990 (il che pone un serio problema di architettura del diritto antitrust), oppure nel caso del decreto del gennaio 2007 che regola specificamente le offerte pubblicitarie dei voli aerei, una materia che sarebbe stato più opportuno affrontare rivedendo, se necessario, i principi generali delle norme sulla pubblicità ingannevole.

È, per altro verso, importante che i decreti Bersani abbiano segnato un cambiamento nei rapporti tra l’Autorità garante della concorrenza e del mercato e il governo. L’AGCM si è costantemente impegnata a contribuire alle scelte di liberalizzazione esercitando i poteri di advocacy. Le segnalazioni a governo e parlamento hanno però trovato più agevole ascolto quando la tutela della concorrenza investiva obblighi nei confronti dell’Unione europea, mentre sono rimaste spesso inascoltate nelle altre occasioni. Il nuovo governo si è impegnato a tradurre in legge molte raccomandazioni delle indagini conoscitive e delle segnalazioni dell’AGCM e questo è senza dubbio un evento istituzionale rilevante, a maggior ragione in una fase in cui la tensione e gli stimoli comunitari appaiono affievoliti.

All’AGCM compete tuttavia anche un altro ruolo – questa volta suo proprio e specifico – e non di minor valore nel sostenere le scelte di liberalizzazione: attuare il diritto della concorrenza. La ratio del diritto della concorrenza non è la «promozione» della concorrenza, che è nelle mani del potere politico e a cui un’Autorità della concorrenza è solo debolmente attrezzata, giacché può utilizzare appunto soltanto poteri di segnalazione. La ratio attiene piuttosto alla definizione della liceità o della illiceità dei comportamenti delle imprese al fine di impedirne l’esercizio del potere di mercato. La sua finalità precipua è quella di rendere possibile e socialmente desiderabile il «mercato» in quanto assetto di decisioni decentrate, consentendo ai soggetti economici di esercitare la propria autonomia anche quando interagiscono nei mercati «reali», dove le condizioni della concorrenza sono normalmente lontane dalle condizioni ideali. Nell’esperienza italiana, la storia dell’antitrust è stata ripetutamente attraversata da questa tensione tra l’essere più vicino alle scelte della politica economica per incidere più fattivamente sulle condizioni concorrenziali dei mercati o lo svolgere piuttosto un ruolo di garanzia, cioè di verifica del rispetto della legge da parte dei soggetti economici. Se risolta attraverso un esercizio parallelo dei due ruoli, l’esito della tensione è soltanto benefico. Ma il secondo ruolo è irrinunciabile. Il punto è che, in questi anni, la tensione sembra attraversare non soltanto la scelta di dare maggior enfasi ai poteri di advocacy oppure all’applicazione delle norme di concorrenza, ma le stesse modalità di applicazione della legge. Il problema nasce a livello europeo, dove l’ambiguità è favorita dal fatto che il soggetto preposto all’applicazione del diritto della concorrenza è anche un soggetto politico. In particolare, il regolamento 1/2003/CE ha ammesso la possibilità, per la Commissione e per le autorità nazionali di concorrenza, di accettare dalle imprese, nel corso di una procedura per infrazione delle norme di concorrenza, impegni in grado di far venire meno i profili anticoncorrenziali e, sulla base di tali impegni, chiudere il procedimento senza accertare ulteriormente l’infrazione. Il primo decreto Bersani ha recepito la norma comunitaria nel diritto italiano e l’AGCM vi sta facendo ampio ricorso. La questione non è nella norma in sé che può avere una sua ratio, soprattutto nel consentire di chiudere velocemente casi che sono, al contempo, più incerti e di minor rilievo. La questione è l’indirizzo di «politica » della concorrenza che il ricorso alla norma suggerisce. Non è desiderabile che la chiusura delle procedure antitrust con impegni e senza accertamento dell’infrazione diventi prassi normale, perché ciò finirebbe con il configurare l’intervento dell’Autorità di concorrenza come una sorta di regolazione a posteriori. Ma sarebbe singolare che l’attuazione del diritto della concorrenza avvenisse attraverso una valutazione di concorrenza di ogni scelta strategica di impresa. In primo luogo, perché sarebbe una scelta di policy che, per essere realmente e non sporadicamente efficace, si rivelerebbe estremamente costosa e complessa dal punto di vista amministrativo, considerando che il diritto della concorrenza si applica, a 360 gradi, a tutti i settori economici. In secondo luogo, perché la sua finalità è quella di esaltare l’autonomia decisionale delle imprese nel mercato, nel rispetto delle regole di concorrenza. Tale autonomia sarebbe invece inevitabilmente avvilita da un intervento sistematico, intrusivo e specifico dell’autorità antitrust sulle scelte di impresa. In altri termini, proprio ai fini di una politica generale di liberalizzazione, è auspicabile che un’autorità antitrust non agisca come una autorità di regolazione. L’enforcement del diritto antitrust non può avvenire che in via preventiva, cioè attraverso meccanismi di dissuasione. Ma ciò è incompatibile con un disegno nel quale l’autorità antitrust si limiti a porre rimedio specifico a posteriori ai comportamenti anticoncorrenziali delle imprese di cui viene in qualsiasi modo a conoscenza.