Femminismo

Written by Maria Serena Sapegno Wednesday, 23 February 2011 11:20 Print
Femminismo Foto: Fabio Rava

Il termine femminismo è stato rimosso dal vocabolario pubblico italiano ed è perciò spesso del tutto ignoto alle giovani generazioni e liquidato frettolosamente dalle meno giovani.


Per femminismo intendiamo un ampio e complesso processo collettivo che inizia nel mondo occidentale alla metà dell’Ottocento, quando prende corpo la cosiddetta “prima ondata”, che prosegue più o meno fino agli anni Venti del secolo successivo. In tale prima fase, connessa idealmente alle grandi conquiste illuministe e rivoluzionarie, il cammino è tutto in salita, e una salita assai ripida: si tratta di rimontare da un lato uno stato antico di inferiorità morale e giuridica e dall’altro una moderna sistemazione della riflessione sul soggetto.

Sulla base della tradizione misogina e patriarcale che aveva già provveduto a condannare variamente la donna come materia informe e caos primigenio o come “agente del Male e del Disordine”, il pensiero moderno infatti ristruttura nuovamente tale malcerta posizione, sempre al confine dell’umano. La divisione della vita in due sfere rigorosamente separate, pubblica e privata, assegna alla donna il compito fondamentale della cura e della riproduzione, il “peso del corpo”, lasciando libero l’uomo di adempiere pienamente alla sua funzione intellettuale e politica di comprendere e dominare il mondo. Si chiarisce così in termini nuovi, a partire da una radicata economia o logica “binaria” che declina la serie infinita delle opposizioni gerarchiche (uomo/donna, forma/materia, mente/ corpo, intelletto/emozione, cultura/natura, ragione/sentimento), quel concetto di soggetto universale che fonda il nuovo individuo borghese. Quel soggetto non è in verità universale, ma innanzitutto maschile, e l’altro si configura pertanto gerarchicamente come oggetto.

Il primo femminismo coinvolge innanzitutto le donne della variegata classe media, in possesso di strumenti culturali che, prendendo alla lettera le dichiarazioni dei diritti fondamentali, chiedono accesso alla vita pubblica e cittadinanza: diritto di voto, diritto all’educazione e alla proprietà, accesso alle professioni. Questo fenomeno, senza precedenti, nel giro di alcuni decenni coinvolge in diverse forme associative decine di migliaia di donne in un movimento che, per la prima volta, mette a fuoco e sotto gli occhi dell’opinione pubblica un concetto rivoluzionario: l’“asservimento delle donne” non si basa su fatti naturali, ma piuttosto su eventi storici, che hanno portato a quel dominio degli uomini che tiene più di metà degli esseri umani in condizioni di soggezione e di inferiorità. La specificità e unicità di tale condizione non sfugge del resto neanche ai pensatori politici più interessanti del tempo: John Stuart Mill da un lato, Fourier e più tardi Marx ed Engels dall’altro, considerano la condizione delle donne come decisivo punto di osservazione per valutare il livello di civiltà raggiunto da una società, e vedono con chiarezza appunto il nodo cruciale del problema, la collocazione cioè dell’asservimento all’interno della famiglia. Si apre un inedito ambito di dibattito e di scontro politico, si pongono questioni di grande rilevanza particolare e generale, si mettono in moto energie intellettuali e passioni che erano state tenute fuori dalla politica e dalla riflessione collettiva.

La personalità teorica più rilevante del periodo intermedio tra le due ondate del movimento è senza dubbio alcuno Virginia Woolf, a cui si deve una riflessione di straordinaria originalità sulla possibilità stessa di una autonomia delle donne nella società patriarcale, che si spinge a indagare le condizioni non solo materiali, ma culturali e simboliche nelle quali le donne operano. È a partire da un’analisi di tali profondi condizionamenti che, se Woolf da un lato auspica il massimo accesso possibile delle donne all’istruzione e allo spazio pubblico, dall’altro postula la necessità della costruzione di uno spazio separato e autonomo, dove sia possibile costituire e riconoscere un’autorevole autonomia femminile («trovare nuove parole e inventare nuovi metodi»),1 rappresentato nel suo specifico dall’individuazione di una tradizione autoriale al femminile. Si tratta di un nodo delicato e molto importante, quello di una diversità che deve riconoscersi e affermarsi e non si coniughi necessariamente come “estraneità” ma cerchi le forme e i tempi per farsi politica. Nodo problematico e mai risolto fino in fondo, che tende a riproporsi nel tempo.

Solo negli anni Sessanta una generazione di donne occidentali “emancipate”, che hanno creduto cioè nella promessa di parità, e l’hanno praticata con fiducia, scopre che qualcosa non ha funzionato, e probabilmente non può funzionare, nelle conquiste pur fondamentali del primo femminismo. La parità, che ha permesso loro di accedere all’istruzione superiore e alla cittadinanza, non consente appunto né la possibilità di un’autorevolezza riconosciuta, né uno spazio di creatività autonoma, ma solo la fatica di adeguarsi a un modello maschile cui sono costitutivamente estranee. Nel giro di qualche anno, all’interno e al margine dei movimenti per i diritti civili e del Sessantotto, si compie una scelta simbolicamente molto forte, quella del separatismo, il sottrarsi cioè alla sterile e defatigante dinamica per conquistare voce e riconoscimento in uno spazio misto, per concentrarsi invece sulla scoperta delle proprie domande, esigenze e proposte, legate a una nuova dimensione conoscitiva: è il secondo femminismo o “seconda ondata”. Con la scoperta dell’ambito del “personale” come terreno politico e intellettuale si apre alla riflessione e all’analisi uno spazio tradizionalmente ritenuto intimo, si svela la dimensione culturale e generale di questioni vissute come segrete e indicibili, si cerca una nuova voce attraverso un’interlocuzione con il medesimo (le altre donne) in una relazione non gerarchica.

La sessualità e il corpo, da sempre nella sfera del privato, sono sottratti al silenzio e alla censura e restituiti alla storia e alla politica: sono le donne a prendere parola per rinominare l’esperienza, per prendere distanza da una sessualità spesso eco del desiderio dell’altro, per interrogarsi per la prima volta sul proprio desiderio. La riflessione sulla “relazione con l’altro” richiede strumenti conoscitivi nuovi poiché le categorie politiche e interpretative in uso nei vocabolari correnti dimostrano la loro totale inefficacia: i termini sfruttamento, schiavitù, emancipazione, segregazione, oppressione, liberazione, rivendicazione sono usati e poi abbandonati perché parzialmente utili ma imprecisi e sostanzialmente sterili. Più utile e stimolante è invece quel linguaggio della psicanalisi che permette di tener conto del corpo, cerca soprattutto di dar voce all’inconscio e al non detto, ai legami profondi e ambivalenti di odio e amore che tengono insieme le polarità del nuovo terreno politico che porta con sé una pratica politica nuova: il partire da sé e l’autocoscienza.

Si tratta di uno spostamento assai significativo, che pone l’esperienza e la riflessione su di essa come base ineludibile di qualsiasi analisi e proposta politica. Nella pratica dell’autocoscienza si viene a formare la coscienza di una nuova soggettività, si cerca di definire una diversa autorevolezza che, emarginata dall’ordine simbolico fallocentrico dominante, tenti la costituzione di un ordine simbolico al femminile, non per sostituirsi all’altro, ma per metterlo profondamente in discussione, a partire dalla accettazione della parzialità del punto di vista sessuato e dalla restituzione di autorevolezza alla figura materna. È la nascita di un nuovo soggetto: dall’ordine dell’Uno e del medesimo, l’universale astratto e incorporeo, a quello del due, parzialità sessuate, passaggio necessario alla esistenza simbolica del corpo.

Precisamente attraverso il riconoscimento di tale differenza costitutiva del genere umano e la decostruzione dell’intera economia binaria su cui si fonda l’ordine simbolico dominante, diviene possibile scoprire e valorizzare altre differenze che naturalmente attraversano anche i due generi. Differenze già manifestatesi conflittualmente all’interno dello stesso movimento femminista, in particolar modo negli Stati Uniti, nella rivendicazione delle differenze tra le donne sul piano del carattere etnico o su quello della preferenza sessuale. In ambito teorico, invece, si è affermata una diversa impostazione politico-filosofica che, a partire dalla nozione di queer, identifica nell’eterosessualità normativa il principale ostacolo a una liberazione non solo dalle categorie di genere ma anche di sesso, riconducendo così anche il soggetto collettivo donna alla più generale e assoluta frammentazione del soggetto moderno. Tale posizione teorica è rilevante soprattutto per le sue ricadute politiche: la cancellazione di fatto del soggetto politico titolare della politica femminista, rinunciando alla sfida a nominare al proprio interno le pur significative differenze, affrontando conflitti e contraddizioni. Le infinite differenze precipitano nell’irrilevanza politica.

Proprio la costituzione del nuovo soggetto collettivo donna ha spostato l’accento politico dalla rivendicazione dei diritti alla risignificazione del mondo, ha messo in agenda una rilettura del sapere, una trasformazione di tutte le istituzioni civili, non per includere le donne, quanto per permettere loro di abitare la scena pubblica, pienamente e non come uomini mancati. Un cambiamento epocale che deve investire l’organizzazione pratica della vita e la cultura di tutti, per impedire che le donne continuino a essere caricate in modo esclusivo del lavoro di cura e per permettere agli uomini di condividerne la responsabilità e la ricchezza. Non si tratta dell’impegno di una sola generazione, ma le più importanti istituzioni internazionali segnalano con chiarezza l’urgenza e la necessità di dare mano ai grandi cambiamenti indispensabili, non solo e non tanto per un elementare principio di giustizia, ma perché dal coinvolgimento delle risorse di metà del genere umano dipende la sorte del mondo, anche dal punto di vista economico. D’altro canto in alcuni paesi, come l’Italia, dove il movimento ha mostrato sia forza politica e capacità di mobilitazione di massa che originalità di pratica e di riflessione teorica, si assiste a un crescente attacco alle conquiste delle donne e a un tentativo di cancellazione della nozione stessa del movimento femminista. Mentre dati inequivocabili parlano di una condizione delle donne italiane che non ha paragoni negli altri paesi industrializzati, con il più basso tasso di occupazione e allo stesso tempo di natalità, con il grave deficit di servizi alla persona, con l’irrisoria presenza ai vertici della politica e della società civile, con la grottesca immagine pubblica riservata alle donne.

Eppure nel corso del tempo il movimento delle donne ha presentato in Italia caratteri particolari rispetto ad altri paesi europei, per vivacità e ampiezza della partecipazione e degli interessi, per passione verso la politica: dal contributo alla riflessione costituente, alla straordinaria esperienza dell’UDI (Unione Donne Italiane) e delle donne cattoliche, al secondo femminismo, al grande impegno delle donne nei partiti e nei sindacati. È certo necessario interrogarsi su cosa sia accaduto rispetto al grande sforzo di elaborazione e cambiamento compiuto dalle donne italiane e infine dopo l’occasione storica mancata, per il paese e per la sinistra, dai governi del centrosinistra, che non hanno saputo cogliere l’opportunità del salto culturale e politico di una massiccia e paritaria partecipazione delle donne alla trasformazione del paese.

Tale fallimento ha avuto conseguenze politiche profonde che vanno ancora comprese e analizzate fino in fondo. Ha inoltre pesato enormemente sulla capacità di elaborazione e di rinnovamento culturale dell’intero centrosinistra, e d’altro canto anche sulla vittoria ottenuta dalla rivoluzione culturale reazionaria nel nostro paese.

 


[1] V. Woolf, Le tre ghinee, Feltrinelli, Milano 2000, p. 188.


Foto di Fabio Rava