Palestina: quale futuro?

Written by Carlo Pinzani Friday, 29 February 2008 17:01 Print

La contraddizione di Amos Oz Sul «Corriere della Sera» del 1° agosto Amos Oz esprimeva un moderato ottimismo sulle prospettive di pace per la ripresa dei rapporti tra il governo israeliano e quel che resta dell’Autorità nazionale palestinese dopo la sconfitta subita da al Fatah nella striscia di Gaza ad opera di Hamas. Per quanto limitato e di basso profilo, l’evento poteva giustificare una reazione di questo tipo, dopo quasi sette anni di ininterrotta violenza nei rapporti israelo-palestinesi. Lo stesso Oz, tuttavia, in un’intervista telefonica al medesimo giornale affermava perentoriamente il 14 agosto che fino a quando Hamas non riconoscerà Israele «non esisterà spazio per alcun compromesso».

Eppure, Amos Oz è tra gli israeliani maggiormente consapevoli della necessità del dialogo: «Il popolo palestinese ha subito una terribile tragedia nel 1948. Un’altra ne ha subita nel 1967, e questa mi riguarda anche se non ne porto alcuna responsabilità. Mi riguarda perché non sono in pace. I miei figli non saranno sicuri, i miei nipoti non potranno condurre una vita normale fino a quando il popolo palestinese subirà questa tragedia».1 Lo scrittore israeliano aveva pronunciato queste parole nell’ottobre del 2003 a Ginevra, in occasione della presentazione del complessivo accordo informale raggiunto tra «colombe» palestinesi e israeliane, che risolveva tutti i problemi che le diplomazie ufficiali non erano riuscite a risolvere nell’ultimo incontro formale avvenuto a Taba agli inizi del 2001.

È certo che, nel drammatico contesto della questione palestinese, il problema di Hamas è emerso in tutta la sua importanza dopo la vittoria militare ottenuta dal movimento integralista a Gaza; questa ha reso almeno provvisoriamente impossibile la collaborazione tra le due principali formazioni politiche palestinesi e ha complicato enormemente, se mai ce ne fosse stato bisogno, l’interminabile processo di pace tra Israele e i palestinesi.

A questo punto sembra lecito chiedersi attraverso quale percorso la questione palestinese potrà mai essere risolta. A Ginevra, Oz aveva lucidamente affermato il principio per cui soltanto attraverso la pace con i palestinesi e con gli arabi in generale Israele potrà raggiungere il livello di sicurezza occorrente per coronare l’ultracentenario disegno sionista di dare al popolo ebraico una patria definitiva sulla terra biblica. Oggi, lo stesso scrittore ritiene impossibile ogni compromesso, se non alla condizione che Hamas riconosca espressamente e definitivamente lo Stato d’Israele, facendo propria la posizione di quanti, nei due campi, nel corso del tempo hanno avanzato condizioni preliminari a ogni trattativa e tali da non poter essere accettate dall’interlocutore. Com’è possibile che uno degli esponenti più coraggiosi del pacifismo israeliano (un pacifismo, si badi, del tutto particolare e diverso da quello ideologico prevalente in Europa) abbia finito per accettare un’impostazione tradizionalmente utilizzata dalla destra israeliana?

Il bisogno di sicurezza di Israele La risposta a questa domanda richiederebbe un discorso che non è possibile fare in questa sede. Occorrerebbe, infatti, riesaminare le condizioni di vita degli ebrei nella diaspora, con le infinite persecuzioni e gli infiniti soprusi subiti nel corso dei secoli da questo popolo per il suo attaccamento alla propria tradizione. Bastino qui alcune brevi considerazioni attinenti alle comunità ebraiche che, a partire dalla fine dell’Ottocento, hanno cominciato a realizzare in Palestina il sogno sionista.

Lo Stato d’Israele, ben prima della sua nascita, è venuto strutturandosi attorno a due cardini fondamentali, tra loro strettamente correlati: l’acquisizione di terra e la sorveglianza armata sulle comunità ebraiche che la terra intendevano sfruttare anche contro le resistenze degli arabi. Come risulta in modo convincente da una recente ed estesa storia del sionismo,2 la soddisfazione del bisogno di sicurezza si è gradualmente evoluta da forme originarie di polizia rurale alla costituzione di una vera e propria organizzazione militare diffusa in tutta la Palestina, l’Haganah. Con la proclamazione dello Stato d’Israele nel 1948, questa si trasformò in esercito regolare e subito ottenne lo straordinario risultato di sconfiggere gli eserciti di tutti i paesi arabi coalizzati.

In modo solo apparentemente paradossale, le dimensioni di questa vittoria, anziché ridurre, aumentarono il bisogno di sicurezza degli israeliani: non solo il territorio militarmente conquistato eccedeva sensibilmente le dimensioni previste per lo Stato ebraico nel piano di spartizione delle Nazioni Unite dell’ottobre del 1947, ma l’Haganah condusse le operazioni militari in forme che provocarono un massiccio esodo di popolazione palestinese verso i paesi arabi confinanti.3 Questo esito potenziò il risentimento e la frustrazione degli arabi, ulteriormente aumentati dalla partecipazione israeliana alla sciagurata spedizione anglofrancese di Suez contro l’Egitto nel 1956: così il bisogno di sicurezza di Israele continuò a porsi in forme acute, e fu alla base di due importanti decisioni politico-militari assunte nel corso degli anni Sessanta.

La prima riguardava lo sviluppo della tecnologica nucleare nell’impianto di Dimona nel deserto del Negev; un dato che, per quanto mai ufficialmente ammesso, è ormai un elemento consolidato di tutte le analisi strategiche sul Medio Oriente. In questo modo, i governi israeliani si garantivano una forma di deterrenza diretta nei confronti di ogni potenziale aggressore nonché la possibilità di coinvolgere comunque la comunità internazionale.

All’esigenza di tutelare lo sviluppo delle armi nucleari era collegata anche la seconda decisione, quella d’inferire nel giugno del 1967 un gravissimo colpo preventivo ai paesi arabi confinanti (Egitto, Giordania e Siria), sia pure in risposta a gravi provocazioni del presidente egiziano Nasser.4 Dopo la «guerra dei sei giorni» (una formula coniata con un chiaro riferimento biblico) e dopo l’occupazione israeliana della Cisgiordania, di Gaza, del Golan e del Sinai, i rapporti di forza sono sempre stati a favore d’Israele: sarebbe stato legittimo attendersi che il bisogno di sicurezza israeliano si fosse fortemente ridotto. In realtà, l’occupazione dei territori or ora indicati ha determinato una situazione in cui il conflitto con gli arabi e con i palestinesi in particolare si è inasprito e cronicizzato, e l’argomento del bisogno di sicurezza è stato utilizzato dai governi israeliani in maniera sempre più strumentale, tanto più che la comunità internazionale affermò praticamente da subito l’illegittimità delle conquiste e la necessità del ritiro israeliano.5

Sta di fatto che l’impedimento ultimo alla conclusione di un accordo durevole e condiviso è stato sempre il bisogno di sicurezza israeliano, che spesso ha consentito di avanzare pregiudiziali per la prosecuzione o la ripresa di tentativi di mediazione o di trattative dirette. L’ultimo, clamoroso esempio di questo modo di procedere è stato quello del primo governo Sharon che, per anni, durante la seconda intifada, ha sempre richiesto periodi di tregua più o meno brevi per riprendere le trattative e riavviare il percorso di pace, fornendo così agli estremisti del campo avverso continue occasioni di sabotare ogni intesa.

È stato con il ricorso a questo metodo che lo stesso governo Sharon ha definitivamente distrutto il già declinante potere di Arafat. Dopo il fallimento dei pur lodevoli sforzi di Clinton nelle fasi conclusive del suo secondo mandato, gli israeliani e l’Amministrazione di G. W. Bush sono arrivati alla conclusione che il presidente dell’OLP non poteva essere più considerato un interlocutore credibile.

In realtà, a non essere più credibile era l’intero impianto degli accordi di Oslo che, dopo l’uccisione di Rabin, avevano incontrato ostacoli crescenti rilanciando così l’estremismo in entrambi i campi. È opinione comune che le origini della seconda intifada siano da ricercare nella plateale e provocatoria passeggiata di Sharon sulla spianata delle moschee nell’ottobre del 2000, volta com’era a riaffermare con veemenza la piena, totale ed esclusiva sovranità israeliana sull’intera Gerusalemme. In realtà, le cause della rinnovata resistenza palestinese vanno ricercate anche nella stanchezza degli abitanti della Cisgiordania e di Gaza per il perpetuarsi dell’occupazione e, da parte israeliana, nella mancanza di incentivi economici a proseguire nello sforzo di pace dopo la fine del boicottaggio economico da parte dei paesi arabi. La ripresa delle agitazioni nei Territori occupati fu decisiva per il ritorno al governo della destra israeliana con l’esplicito programma di portare a compimento la completa distruzione del processo avviato ad Oslo, ivi compreso il principio fondamentale della pace in cambio della terra. E, alla base di tutto questo stava, per la grande maggioranza degli israeliani, il bisogno di sicurezza, reso sempre più acuto dallo stillicidio di attentati suicidi, di aggressioni ai coloni in Cisgiordania, di bombardamenti su obiettivi di confine. Il tutto, ovviamente, con il contrappunto delle ritorsioni israeliane.

Questo infernale meccanismo fu rafforzato dagli attentati dell’11 settembre 2001, che solo in forme molto mediate avevano una connessione con la questione palestinese. Il veicolo principale di questo rafforzamento fu quello dell’enorme presa che la nozione indiscriminata di terrorismo acquistò nell’opinione pubblica mondiale. Si giunse così molto rapidamente alla formazione di un consenso o, quanto meno, di un’acquiescenza internazionale sulla liquidazione di Arafat. Al tempo stesso tramontava definitivamente l’orientamento israeliano, emerso dopo la crisi del processo di Oslo, di favorire l’ascesa di Hamas come contraltare del consenso goduto da al Fatah in Cisgiordania e a Gaza: soltanto nel marzo 2004, con l’uccisione del leader integralista Ahmed Yassin da parte dell’esercito israeliano (seguita quasi un anno dopo da quella del suo successore Aziz al Rantissi), i «falchi» israeliani sembrarono rendersi conto che il pericolo di Hamas non era certo inferiore a quello rappresentato da al Fatah.

È evidente, dunque, che i primi anni del XXI secolo, con la spirale di terrore che li ha caratterizzati, hanno dato nuovo vigore al bisogno di sicurezza degli israeliani e diventa così comprensibile che anche le «colombe» come Amos Oz pongano pregiudiziali, anche se dalle parole da lui pronunciate nel 2003 si evince con sufficiente chiarezza che l’insicurezza attuale nasce dalle conquiste del 1967 e che soltanto la piena e consapevole accettazione del principio della pace in cambio della terra può eliminarla.

Gli obiettivi finali di Israele «Il movimento sionista si è domandato prestissimo se bisognasse proclamare forte e chiaro il proprio obiettivo finale»: con questa frase Bensoussan apre il paragrafo conclusivo della sua ricostruzione del movimento sionista,6 riferendosi a tutta la fase antecedente la seconda guerra mondiale. Soltanto nel 1942, con il programma approvato all’hotel Biltmore di New York dove si svolse il congresso sionista, fu proclamato apertamente lo scopo di giungere alla creazione di uno Stato (Commowealth) ebraico in Palestina. Neppure la proclamazione dello Stato d’Israele ha però sciolto il dubbio fondamentale enunciato da Bensoussan: l’indeterminatezza si è automaticamente trasferita dall’esistenza dello Stato ai suoi confini. L’opposizione araba al piano di spartizione delle Nazioni Unite del 1947 consentì agli israeliani di espandere il proprio territorio dimezzando quello riservato agli arabi dall’ONU. Ma rimane ancor oggi aperta l’indeterminatezza circa i veri confini che la stragrande maggioranza gli israeliani può considerare sufficienti sia a garantire la sicurezza sia a conseguire gli obiettivi nazionali.

Il dubbio è alimentato soprattutto dal fatto che, nonostante l’annessione dei territori occupati nel 1967 non sia mai stata proclamata (se non, significativamente, per Gerusalemme), è continuata e continua tuttora, in forme striscianti e non ufficialmente sostenute, la politica degli insediamenti al di fuori dei confini internazionalmente riconosciuti. Si continuano così a praticare forme di acquisizione di terra delle più diverse provenienze per insediarvi comunità ebraiche come ai tempi del mandato britannico. Soltanto che, ora, queste ricevono subito la protezione e spesso i servizi essenziali da parte delle autorità israeliane, le quali, dal canto loro, procedono ad attuare negli insediamenti ormai urbanizzati e consolidati una politica di costruzione di abitazioni, al fine – si dice – di tener conto dello sviluppo demografico. Questa politica è contestata da ristretti gruppi di minoranza israeliani, mentre la comunità internazionale non si cura adeguatamente del rispetto degli impegni ripetutamente assunti dai governi israeliani di non procedere a nuovi insediamenti e di smantellare quelli già costituiti. Si sono così determinate numerose situazioni in cui le due comunità si ritrovano in stretto contatto, ricreando in qualche modo il contesto che esisteva ai tempi del mandato britannico, con la decisiva differenza che ora l’ordine è assicurato in modo incontrollato dall’esercito israeliano. 7 È evidente che queste contiguità conflittuali hanno un impatto for- temente negativo sulla situazione complessiva, non solo in quanto aumentano la frustrazione e il rancore nella comunità palestinese, ma anche perché minano la credibilità del governo israeliano nei confronti della comunità internazionale.

Vi è poi un ulteriore e più grave motivo di preoccupazione che deriva dalla mancanza di chiarezza circa gli obiettivi finali del governo israeliano a proposito del destino dei Territori occupati: si tratta del rischio, ormai evidente, dell’impossibilità di dare attuazione al principio della spartizione della Palestina tra due Stati sovrani autosufficienti e capaci di convivere durevolmente. E qui risiede anche la sola possibilità di realizzare il sogno sionista di dare una patria sicura al popolo ebraico. Se, nella storia del sionismo, sono in passato emerse anche posizioni che auspicavano la creazione di un unico Stato binazionale, oggi una soluzione del genere non appare più possibile in quanto sarebbe in radicale contrasto con gli accordi internazionali già assunti dallo Stato d’Israele, con gli orientamenti prevalenti nella comunità internazionale (Stati Uniti compresi) e, soprattutto, con le realtà demografiche, dal momento che non esiste alcuna possibilità che a scadenze più o meno lontane possa esistere un’omogenea maggioranza ebraica in Palestina.

Restano, a questo punto, due sole possibilità di uscita da una situazione sempre più insostenibile per le due comunità: quella di una ripresa seria, impegnata e rapida del percorso di pace sulla base delle intese pregresse e mai attuate e quella della realizzazione di due Stati profondamente squilibrati tra loro, uno dei quali finirebbe inevitabilmente per dominare l’altro imponendo con la forza e con la discriminazione la salvaguardia dei propri interessi, perpetuando dunque il conflitto.

Palestina: pace non apartheid Questa formula riproduce letteralmente il titolo di un recente libro dell’ex presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter, protagonista degli accordi israelo-egiziani di Camp David del 1978 e profondo conoscitore della realtà palestinese.8 Come sostie- ne Carter, purtroppo, la soluzione dell’apartheid è quella che sembra ispirare la politica israeliana a partire dal ritorno al governo di Sharon. È altrimenti difficile spiegare scelte come quella di distruggere completamente l’impalcatura degli accordi di Oslo, di smantellare quasi integralmente l’Autorità nazionale palestinese, di annientare Arafat e al Fatah, di portare avanti unilateralmente processi di sistemazione permanente dell’assetto territoriale della Cisgiordania quali la costruzione del «muro di sicurezza»,9 procedendo nel contempo alla più dura repressione dell’intifada. In questo processo il governo Sharon si è avvalso del contributo decisivo derivante dall’evoluzione della politica mediorientale degli Stati Uniti dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 e ancor più, come si è detto, del giustificato e generale sdegno nei confronti del terrorismo utilizzato dall’estremismo islamico. Da questo punto di vista è interessante osservare come l’interazione tra la politica di Sharon e quella delle Amministrazioni Bush sia stata assai complessa, specialmente riguardo ad Hamas.

Inizialmente, il divieto dell’Amministrazione di mantenere rapporti finanziari con le organizzazioni terroristiche e di sequestrarne i beni negli Stati Uniti riguardava soltanto quelle con «una vocazione globale». Ne conseguiva l’esclusione dal divieto delle organizzazioni anti-israeliane come Hamas o Hezbollah, non soltanto perché non avevano una vocazione globale ma anche perché si riteneva negativo irritare gli alleati arabi. Soltanto in un secondo momento, e soprattutto per le pressioni di esponenti repubblicani, le due organizzazioni palestinesi furono incluse nell’Executive Order 13224, la cui concreta attuazione avvenne solo dopo ulteriori pressioni e nel quadro della decisione di appoggiare complessivamente la politica del governo israeliano.10

Non vi è dubbio che, nella seconda intifada, Hamas sia stata all’avanguardia nell’organizzazione di attentati suicidi e di azioni terroristiche, ma è anche vero che proprio nello stesso periodo accentuava il suo carattere politico, divenendo un punto di riferimento per la frustrazione dei palestinesi, come già risultava dal successo conseguito nelle elezioni amministrative tanto in Cisgiordania quanto a Gaza. Quando, nel qua- dro della politica generalizzata e astratta di diffusione della democrazia in Medio Oriente promossa dall’Amministrazione Bush, si svolsero le elezioni politiche nei Territori occupati, Hamas ottenne abbastanza facilmente la maggioranza.

A questo punto, la divisione politica all’interno dell’ormai declinante Autorità nazionale palestinese era definitivamente consacrata, fornendo una piena giustificazione a posteriori alla posizione israeliana volta a regolare unilateralmente la situazione per la mancanza di un valido interlocutore. Ciononostante, Sharon non era riuscito a convincere l’Amministrazione americana a rinunciare all’idea della creazione di uno Stato palestinese e, quindi, dovette intraprendere una dura battaglia all’interno del proprio partito per far passare una politica di ritiro unilaterale da alcuni insediamenti israeliani nei Territori occupati, a cominciare dalla striscia di Gaza. Sconfitto, Sharon decise di lasciare il Likud e fondare un nuovo partito, Kadima: questo riuscì a riconquistare la maggioranza parlamentare, nonostante la grave malattia che aveva colpito Sharon e che condusse alla sua successione con un altro ex esponente del Likud, Ehud Olmert.

La scelta di iniziare dalla striscia di Gaza l’attuazione della politica di definizione unilaterale dei confini d’Israele non era certo casuale, dal momento che nell’ex territorio egiziano si trova la maggiore concentrazione di profughi palestinesi, cacciati o fuggiti nel 1948 e nel 1967. Un problema che era stato percepito fin dall’inizio dell’occupazione, quando si pensava di poter annettere la striscia soltanto se «svuotata dei profughi»11 e che, ora, richiedeva gli sforzi più dispendiosi per la protezione delle comunità ebraiche che vi si erano installate.

Inoltre, Gaza era divenuta la roccaforte di Hamas, la cui integrazione nel processo politico era sempre parziale e contrastata: in realtà, la striscia negli anni della seconda intifada è divenuta un focolaio di ribellione e di frustrazione incontrollabile. Una popolazione in grande maggioranza composta di giovani, priva di risorse e di lavoro è difficilmente convertibile ad una politica di moderazione e di rifiuto della violenza, anche se i dirigenti di Hamas fossero unanimemente impegnati in una politica del genere. Gli sforzi fatti per giungere alla formazione di un governo di unità nazionale comprendente tanto Hamas che al Fatah, sono stati vanificati, oltre che dai contrasti tra i due movimenti, dal rifiuto internazionale, motivato con l’appartenenza di Hamas alle organizza- zioni terroristiche e dalle reazioni israeliane alle provocazioni delle componenti palestinesi più radicali.

In queste condizioni, si comprende come gli sforzi compiuti da Abu Mazen per riprendere il percorso di pace siano stati presentati dai dirigenti di Hamas come una forma di collaborazionismo con gli israeliani e che questo messaggio abbia avuto un’eco nella popolazione, tanto più che il collaborazionismo non è certo una novità nella tragica storia dei rapporti tra arabi e israeliani in Palestina.

Uno sguardo al futuro Con un meccanismo abituale nella lunga vicenda palestinese, la cacciata di al Fatah dalla striscia di Gaza ha mostrato ancora una volta come l’estremismo finisca sempre per fare il gioco dell’avversario. L’esistenza di due poteri contrapposti, l’uno appoggiato pubblicamente dalla comunità internazionale e l’altro sostenuto più o meno riservatamente da altri governi islamici favorisce nettamente la prospettiva di giungere alla creazione di uno Stato palestinese debole e frazionato, realizzando in una certa misura il modello deprecato da Carter.

Nei piani di quanti nutrono una visione di questo genere, la striscia di Gaza e Hamas dovrebbero essere abbandonati al loro destino: i soli rapporti consentiti sarebbero quelli necessari a evitare una catastrofe umanitaria e quelli puramente repressivi condotti dai militari israeliani. Questa è, in fondo, la visione di tutti quelli che subordinano ogni contatto con Hamas al riconoscimento da parte di quest’ultima del diritto all’esistenza dello Stato d’Israele, che sarebbe comunque un gesto prevalentemente simbolico, di significato incomparabilmente inferiore sul piano sostanziale alla partecipazione del movimento islamico ad una seria trattativa di pace.

È chiaro in ogni caso che questa strada potrebbe portare soltanto ad una soluzione provvisoria, oltretutto assai pericolosa: l’isolamento e la frustrazione di Hamas, protratti per un periodo non breve, potrebbero avere ripercussioni gravissime per l’intero Medio Oriente, considerati i rapporti che il movimento islamico ha con la Fratellanza musulmana e le non floride e comunque non eterne condizioni del regime di Mubarak in Egitto.

Sembra dunque urgente tornare a coinvolgere tutti i movimenti palestinesi nel processo di pace, anche, eventualmente, in forme indirette e non formali. La ventilata conferenza promossa dagli Stati Uniti e la stessa attività di Tony Blair, il nuovo mediatore incaricato dalla comunità internazionale di rilanciare il processo di pace, non possono condurre a risultati stabili se non si fonderanno anche su un accordo tra le più importanti componenti palestinesi. E anche in questo modo sarà arduo giungere alla pace, nonostante che gli schemi di un possibile accordo siano già disponibili anche in forme dettagliate.

Ma, ancora una volta, la chiave del problema si trova nelle mani degli israeliani. Come afferma Segev a conclusione del suo lavoro a suo modo celebrativo della guerra del 1967 e riferendosi al padre della patria israeliana Ben Gurion: «Come faceva spesso, Ben Gurion esprimeva una sentimento che molti israeliani avrebbero condiviso: col passare del tempo, essi non vedevano l’ora di uscire dalla situazione creata dalla guerra, ma non sapevano come. La maggior parte di loro non intendeva tornare alla realtà in atto prima della guerra, ma in misura sempre crescente cominciò a temere che il governo israeliano sui residenti a Gaza e in Cisgiordania non aiutava il paese ma lo danneggiava. Di fronte alla realtà, tutto era provvisorio, e tale sarebbe rimasto fino a quando non si fosse trovata una soluzione, ma, tra una guerra e l’altra, il 1967 cominciò ad apparire una “causa di pianto per generazioni”, con la sua preoccupante durevolezza; tutto quello che sarebbe successo dopo sarebbe avvenuto nell’ombra di quell’anno».12

Si tratta certamente di un giudizio storico e non si può certo pretendere che esso si trasformi automaticamente in una presa di coscienza collettiva degli israeliani tale da consentire il profondo mutamento politico indispensabile per una pace reale. Anche se negoziata e non unilaterale, anche se parzialmente diversa dalla condizione di apartheid deprecata da Carter, la formazione di uno Stato palestinese che veda la propria vitalità limitata dalle mutilazioni territoriali necessarie per salvaguardare buona parte degli insediamenti ebraici esistenti, dalla condizione di enclave all’interno del territorio israeliano, dalla frustrazione derivante da una sostanziale sconfitta nella quarantennale resistenza all’occupazione, non sarebbe certo una soluzione durevole per la pace mediorientale. Sarebbe soltanto una tregua, probabilmente meno durevole di quella pluridecennale proposta da Hamas.

Per evitare questa soluzione la comunità internazionale, e segnatamente i soggetti che compongono il Quartetto che da tempo sovrintende con scarsi risultati al processo di pace, deve intensificare la propria pressione sulle parti, evitando l’illusione di poter durevolmente escludere uno dei soggetti che al processo partecipano. Ne consegue la necessità di spingere le fazioni palestinesi ad una riconciliazione, sostenendo Abu Mazen e quel che resta dell’Autorità palestinese, ma al tempo stesso evitando di abbandonare Hamas al suo destino. Da questo punto di vista, l’azione internazionale sarà tanto più efficace quanto più rapide e sostanziali saranno le concessioni israeliane per migliorare le condizioni di vita in Cisgiordania e per evitare quanto meno che peggiorino a Gaza.

Ma per questa via si torna al tema principale: i paesi amici d’Israele devono adoprarsi perché esso rinunci all’obiettivo, espresso o non espresso, di conservare tutto o la massima parte di quello che aveva conquistato nel 1967, rinunciando almeno in parte ai riferimenti biblici e sostituendo le suggestioni ideologiche con il realismo della pace.

[1] Le parole di Oz sono riferite da Charles Enderlin, corrispondente da Gerusalemme dell’emittente francese France 2, un osservatore da sempre vicino alle posizioni della sinistra israeliana e autore di altri due volumi sul processo di pace israelo-palestinese. Cfr. C. Enderlin, Les années perdues. Intifada et guerres au Proche-Orient. 2001-2006, Fayard, Parigi 2006, p. 263. La tragedia che i palestinesi devono subire è, evidentemente, l’occupazione della Cisgiordania ed è ampiamente documentata nel volume, al pari delle altre tragedie che i palestinesi hanno inflitto agli israeliani.

[2] G. Bensoussan, Il sionismo. Una storia politica e intellettuale. 1860-1940, vol. II, Einaudi, Torino 2007, pp. 1148-1258.

[3] Una recente e documentata ricostruzione degli eventi del 1948-49 fatta da uno storico israeliano presenta le operazioni militari israeliane come volte soprattutto alla realizzazione di un piano di «pulizia etnica», accuratamente poi dissimulato per un sessantennio e tendente a fare della Palestina una terra a maggioranza ebraica. In questa ricostruzione, del tutto convincente, il bisogno di sicurezza è soltanto lo schermo propagandistico di un disegno puramente ideologico. Cfr. I. Pappe, The Ethnic Cleansing of Palestine, Oneworld Publications, Oxford 2007, pp. XVIII-319.

[4] Che questa ricostruzione della «guerra dei sei giorni» sia corretta risulta con grande chiarezza dal recente, ottimo lavoro di T. Segev, 1967. Israel, the War, and the Year that Transformed the Middle East, Metropolitan Books, New York 2007. Per lo sviluppo del programma nucleare israeliano si vedano le pp. 164-66 e sui timori di un attacco egiziano su Dimona p. 229.

[5] Con le risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite n. 242 del 22 novembre 1967 e n. 338 del 21-22 ottobre 1973, sempre riaffermate in tutte le mediazioni e i tentativi di pace che si sono succeduti.

[6] Bensoussan, op. cit., p.1258.

[7] Questa affermazione non è scalfita dall’esistenza di una missione di osservatori internazionali ad Hebron, istituita nel 1994 in seguito ad un massacro di palestinesi in preghiera ad opera di un invasato israeliano. Attualmente è in corso un tentativo, blandamente contrastato dalle autorità militari israeliane, di collegare l’insediamento ebraico nel centro di Hebron con una nuova acquisizione di edifici nella direzione di Kyriat Arba, un insediamento residenziale ufficiale che gli israeliani intendono conservare (cfr. «Washington Post», 26 luglio 2007). Quello del collegamento tra insediamenti esistenti è stato sempre il modo principale per acquisire territorio agli israeliani.

[8] Nel libro, violentemente denunciato dalla propaganda israeliana e sostanzialmente ignorato dall’opinione internazionale, la situazione cui si fa qui riferimento è così descritta: «Un sistema di apartheid, con due popoli che abitano la stessa terra completamente separati, con gli israeliani pienamente dominatori e capaci di eliminare la violenza privando i palestinesi dei loro fondamentali diritti umani». Si tratta di un quadro probabilmente un po’ forzato ma che rende l’idea della situazione esistente. Cfr. J. Carter, Palestine: Peace Not Apartheid, Simon & Schuster, New York 2006, p. 215.

[9] È questa la decisione politica israeliana che ha suscitato i maggiori dissensi nella comunità internazionale e che è stata condannata sia dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite sia dalla Corte internazionale dell’Aja. L’idea di un «muro di ferro», a protezione delle comunità ebraiche è un dato di lungo periodo nella storia del sionismo. Già nel 1923 un articolo di Jabotinskij (Il muro d’acciaio) ricorreva alla metafora del muro alludendo alla necessità di sviluppare una spirito guerresco tra gli ebrei di Palestina. Non v’è dubbio che la pratica degli attentati suicidi abbia fornito un fondamento razionale all’iniziativa: ma ad essa non sono estranei né la necessità di una definizione dei confini d’Israele, né l’esigenza di aumentare il territorio israeliano.

[10] I. H. Anderson, Biblical Interpretation and Middle East Policy. The Promised Land, America, and Israel, 1917-2002, University Press of Florida, Gainesville 2005, pp. 135-36.

[11] Segev, op. cit., p. 516.

[12] Ivi, p. 584.