Revival democratico

Written by John B. Judis Friday, 29 February 2008 16:28 Print

La politica americana tende a procedere per cicli. Un solo partito, con la propria filosofia politica, prevaleper vari decenni per poi essere soppiantato dall’altro. Il partito di governo non necessariamente controlla tutte le cariche principali: durante il ciclo di prevalenza democratica, che è durato dal 1932 al 1968, c’è stato un presidente repubblicano, Dwight Eisenhower, dal 1952 al 1960, ma i democratici avevano la maggioranza al Congresso e in gran parte degli organi legislativi dei vari Stati. Erano loro che definivano l’agenda politica del paese.

L’ultimo importante riassetto politico ha avuto luogo nel 1980 e ha dato il via a un ciclo repubblicano e conservatore. Questo sembrava sul punto di esaurirsi verso la fine degli anni Novanta, ma dopo gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 il Partito repubblicano, guidato da George W. Bush, si è ripreso e, secondo il suo principale teorico, Karl Rove, sembrava che potesse restare alla guida della politica americana per vari decenni a venire. Poi, alle elezioni per il Congresso del 2006, la ruota ha ripreso a girare in senso contrario e i democratici hanno riconquistato la maggioranza. Così ora l’interrogativo riguarda ciò che accadrà nel 2008 e negli anni successivi.

In queste elezioni la posta in gioco è chiaramente alta. Cinquant’anni fa le differenze tra i due partiti non erano così profonde. I democratici avevano un’ala conservatrice, i repubblicani una liberal, e le scelte in politica estera erano bipartisan. Invece, a partire dagli anni Novanta tra i due partiti si è aperta una netta divergenza. I democratici sono diven tati il partito della sinistra e del centrosinistra, sono favorevoli a un’internazionalizzazione della politica estera e all’intervento del governo per limitare le disuguaglianze e per regolamentare le imprese private nel pubblico interesse. I repubblicani hanno assunto uniformemente posizioni conservatrici, sono impegnati in una politica estera unilaterale e a eliminare le regole fissate dal governo sulle attività private. Il partito che vincerà le elezioni nel 2008 deciderà quale sarà l’atteggiamento degli Stati Uniti riguardo alla guerra in Iraq e al riscaldamento globale, ma anche nei confronti di quei 47 milioni di americani che sono privi di assistenza sanitaria.

I possibili scenari relativi al dopo elezioni del 2008 sono due e sono fra di loro contrapposti. Il primo, che è stato prospettato da alcuni repubblicani, prevede che il loro partito riconquisti il controllo sulla politica americana dopo un breve interregno nel 2006-08, provocato dai passi falsi in politica estera e dall’inettitudine dimostrata dall’Amministrazione Bush in occasione dell’uragano Katrina. L’altra possibilità1 è che i democratici ritrovino la spinta ascendente interrotta l’11 settembre e che ridiventino il partito di maggioranza. In questo articolo si sosterrà e si cercherà di dimostrare che quest’ultima è la prospettiva più probabile.

Le maggioranze politiche in America si basano su tre fattori: una concezione del mondo dominante (che va distinta da una piattaforma politica particolareggiata), una coalizione eterogenea di gruppi sociali (composta per esempio da donne, operai e agricoltori) che in genere approva quella concezione del mondo, e le regioni o gli Stati (il Sud, il Midwest, le grandi metropoli, le periferie) in cui prevalgono quei gruppi e la con- cezione del mondo cui essi aderiscono. La maggioranza conservatrice repubblicana, che si identificava soprattutto in Ronald Reagan, si fondava su una visione che si esprimeva nell’ostilità alle tasse e agli interventi del governo; che sosteneva, nel periodo della guerra fredda, una politica estera aggressiva; che si opponeva a riforme tese a contrastare le discriminazioni razziali, come quelle che prevedevano azioni volte ad assistere le vittime dei pregiudizi e la lotta alla segregazione scolastica; e che detestava la controcultura e il femminismo degli anni Sessanta e il diritto all’aborto.

Quella visione del mondo in genere si era guadagnata il sostegno decisivo di due gruppi di ex democratici: i bianchi del Sud e le minoranze bianche delle periferie del Nord (che avevano lasciato il Partito democratico per contrasti sulla politica razziale, sulla politica estera e sul conservatorismo sociale). La stessa concezione aveva unito questi gruppi ai sostenitori tradizionali della grande e della piccola impresa e degli agricoltori. La coalizione repubblicana degli anni Ottanta comprendeva tutta la fascia degli Stati del Sud, quelli tradizionalmente repubblicani delle praterie e delle Montagne Rocciose, oltre a quelli del Midwest e della costa atlantica centrale, dove i repubblicani potevano contare sull’insoddisfazione delle minoranze bianche e della borghesia suburbana, composta da professionisti e manager.

Nel corso del decennio successivo quella coalizione cominciò a disgregarsi, mentre parte della visione conservatrice divenne impopolare o ininfluente. La recessione del 1991 contribuì parecchio al discredito di quella che era stata battezzata «reaganomics», soprattutto tra gli elettori delle classi lavoratrici. Molti di questi ricominciarono a guardare ai democratici per avere garantita la propria sicurezza economica. La fine della guerra fredda fece apparire inappropriata la politica estera dei repubblicani. Gli americani volevano una politica estera che proteggesse il loro benessere e non che li difendesse da pericoli che non esistevano più. Alle elezioni del 1996 e del 2000 i temi di politica estera smisero di essere centrali.

I democratici fecero anche alcuni passi per annullare il vantaggio dei repubblicani sulle questioni razziali. Queste si intrecciavano a numerosi altri temi: la pena di morte, le imposte, il welfare, la criminalità. Per esempio, l’opposizione alle politiche sociali si basava sull’idea che gli interventi di assistenza rappresentassero un’elargizione destinata alle minoranze, anche se erano proprio i bianchi poveri a ricevere la maggior parte dei sussidi. Sotto la guida del Democratic Leadership Committee, i democratici cominciarono a sostenere la riforma del welfare e a mettere in secondo piano o a riconsiderare la propria opposizione alla pena di morte. Questo non servì a riconquistare il voto del Sud, ma, quanto meno, quello degli elettori bianchi del Nord. Infine, il conservatorismo sociale cominciò a essere intaccato dall’evoluzione della società, perché una nuova generazione di americani, in buona parte con istruzione superiore, non era più ostile ai diritti delle donne e al progresso scientifico. Come fu evidente nelle elezioni del 1992, per i repubblicani l’identificazione con la destra religiosa stava diventando controproducente. Alle elezioni per il Congresso del 1994 i repubblicani registrarono un certo recupero, in gran parte dovuto agli errori dei primi due anni dell’Amministrazione Clinton, ma i democratici si ripresero la maggioranza al Congresso nel 1996, nel 1998 e nel 2000, come già se l’erano presa al Senato. Nel 1996 Bill Clinton fu rieletto senza difficoltà, e Al Gore ebbe la maggioranza dei voti popolari nel 2000, anche se la nomina a presidente gli venne negata a causa della sentenza della Corte Suprema che favorì George W. Bush.

Questa maggioranza democratica emergente non era molto diversa da quella precedente. Comprendeva, per esempio, gli elettori afroamericani e quelli di origine ispanica, che votavano per il Partito democratico da decenni. Lo stesso facevano gli iscritti ai sindacati. La nuova maggioranza, però, comprendeva anche diversi gruppi che prima votavano in modo preponderante per i repubblicani. Le donne avevano sempre dato più voti ai repubblicani che ai democratici. Nel 1960, per esempio, Richard Nixon ebbe la maggioranza dei voti femminili, ma a John Kennedy andò la grande maggioranza di quelli maschili, che gli fecero vincere le elezioni. Invece nel 1972 e in modo più netto nel 1980 le donne cominciarono a preferire i democratici. Questa scelta riguardava soprattutto le donne single e quelle più istruite, due gruppi che rappresentano una percentuale crescente del voto femminile. La causa principale di questo mutamento sembra essere l’identificazione dei repubblicani con la destra religiosa e con una concezione patriarcale delle relazioni tra uomini e donne, ma anche l’adozione di un’economia del laissez-faire e la loro opposizione alle spese per la sanità e l’istruzione.

Un altro gruppo che cominciò a votare per i democratici era quello dei professionisti: lavoratori con istruzione superiore, che producono servizi e idee, ovvero insegnanti, infermieri, ingegneri, programmatori di software, attori, piloti. Cinquant’anni fa essi rappresentavano il 5% dell’elettorato e della popolazione attiva, e all’interno di questa erano il gruppo più vicino al partito repubblicano. Oggi i professionisti costituiscono il 16% dell’elettorato, costituiscono una porzione ancora maggiore dei votanti effettivi, e cominciano a propendere per i democratici. Nelle quattro elezioni tra il 1988 e il 2000, per esempio, il rapporto fra coloro che votarono per i democratici e quelli che votarono per i repub- blicani fu di 52 a 40. Anche loro appartengono a una generazione uscita dai fermenti culturali degli anni Sessanta: sono a favore della parità tra i sessi e dei diritti civili e non amano il conservatorismo sociale dei repubblicani. In quanto lavoratori, sono stati anch’essi soggetti a quella che i marxisti chiamano «proletarizzazione ». Pensano che il proprio lavoro sia eccessivamente tartassato dalle burocrazie pubbliche e private e sono molto più scettici nei confronti del capitalismo liberista di quanto non fossero i loro omologhi delle precedenti generazioni, che si consideravano imprenditori indipendenti. Infine, sono cresciuti in un’epoca in cui gli americani prendevano coscienza dei problemi dell’inquinamento ambientale e della scarsa sicurezza dei prodotti automobilistici e farmaceutici. La concezione politica di questi gruppi è diversa da quella dei vecchi democratici del New Deal. I professionisti e altri elettori con istruzione superiore tendono a considerare con scetticismo una forte presenza del governo e guardano con sospetto anche le teorie del «buon governo», temendo la corruzione della politica. Qualcuno di loro è sindacalizzato, ma nel complesso non s’identificano con il movimento sindacale. La loro posizione politica è più di «centrosinistra» o di «centro» che di sinistra. Quando riesce a unire nella coalizione una minoranza sufficiente di questo gruppo sociale al proletariato bianco e quello delle minoranze etniche, che sono sempre stati lo zoccolo duro del suo elettorato, il Partito democratico può vincere le elezioni. In quasi tutte le competizioni elettorali, i democratici devono conquistare circa il 40% dei voti del proletariato bianco: questa percentuale, sommata a quella degli altri gruppi, potrà quasi certamente garantire la vittoria nelle competizioni nazionali e in gran parte di quelle statali.

La nuova coalizione democratica è quasi un’immagine speculare di quella precedente. Non comprende il profondo Sud, ma ingloba il Nord-Est un tempo repubblicano e l’estremo Ovest, California compresa. Gode anche del sostegno in quel nuovo tipo di complessi urbani-suburbani denominati ideopolis.2 Queste comunità ribaltano la vecchia divisione tra periferia residenziale e città industriale: le aziende si trovano sparse tra il centro storico e la periferia, ma sono in prevalenza imprese che si dedicano alla produzione di servizi e non di oggetti materiali. È questo il caso di Los Angeles, di Boston, dell’area metropolitana della baia di San Francisco, di Chicago, di New York e della conurbazione Raleigh-Durham-Chapel Hill nella Carolina del Nord. In queste aree si trovano invariabilmente università con corsi di studio legati al tipo di produzione che vi si svolge.

Il 10 settembre 2001, questa nuova coalizione sembrava sul punto di prendere il potere. George W. Bush era in gravi difficoltà ed erano i democratici che sempre più orientavano la politica americana. Gli attentati dell’11 settembre, però, hanno interrotto questo movimento verso una maggioranza democratica. L’ascesa è stata bloccata in due modi. Il più evidente è stato un’esibizione di leadership nei mesi immediatamente successivi agli attentati: Bush e i repubblicani hanno riacquistato un vantaggio sul tema della sicurezza nazionale, che era stato così importante per la maggioranza conservatrice. Erano di nuovo il partito al quale gli americani si affidavano per essere difesi dagli attentati terroristici.

Il secondo modo è meno vistoso e più acuto. Il timore primordiale ridestato dagli attentati ha spinto gli americani a richiudersi su se stessi; ha favorito un ottuso nazionalismo, l’ostilità nei confronti degli stranieri e una concezione generale conservatrice nei riguardi della vita e della famiglia. Si riscontra per esempio una maggiore opposizione all’aborto nelle elezioni del 2002 e del 2004, e lo spettro del matrimonio tra omosessuali ha svolto un ruolo importante in quelle del 2004.

I repubblicani hanno sfruttato la propria immagine di difensori della sicurezza nazionale e la ripresa delle tendenze conservatrici per vincere le elezioni del 2002 e del 2004. Ma l’incantesimo gettato sull’elettorato dall’11 settembre ha cominciato a dissolversi dopo le elezioni del 2004. Il pasticcio iracheno, una guerra inizialmente giustificata con il pretesto di difendersi dalle armi di distruzione di massa, ha incrinato l’immagine di campioni della sicurezza nazionale dei repubblicani. Anche il timore di altri attentati imminenti ha cominciato a scemare. L’elettorato è tornato a interessarsi dei temi che lo preoccupavano prima dell’11 settem- bre, ma con una dose di delusione in più nei confronti dei repubblicani.

Certo, l’opposizione all’intervento in Iraq ha svolto un ruolo importante nei successi elettorali dei democratici nel 2006, ma avrebbe solo favorito la rinascita delle precedenti tendenze verso una maggioranza democratica. Nel 2006 tutte le circoscrizioni elettorali che propendevano per il Partito democratico alla fine degli anni Novanta sono tornate all’ovile, insieme a un gran numero di voti della classe lavoratrice bianca. Le donne con istruzione superiore hanno sostenuto i democratici con una percentuale del 57% (contro il 42%), le single con il 66% (contro il 33%). I professionisti che nel 2002 avevano optato per i repubblicani in misura del 51% contro il 45%, sono tornati ai democratici, favorendone i candidati con il 58% dei voti (contro il 41%). Gli elettori ispanici, che già nel 2004 avevano favorito i democratici per il 59% (il 40% aveva invece optato per i repubblicani), hanno accresciuto il loro sostegno votandoli per il 69%. E la percentuale di lavoratori bianchi che hanno votato per i democratici è salita dal 39% nel 2004 al 44% nel 2006.

I democratici hanno avuto anche il sostegno di due nuovi gruppi che potrebbero rivelarsi importanti in futuro: gli elettori «indipendenti» e quelli della classe d’età 19-29 anni. Negli Stati Uniti gli elettori possono registrarsi come «indipendenti», ma in molti casi può ancora essere utile indicare candidati nel Partito democratico o in quello repubblicano: dichiarare che si propende per questo o quel partito. Il profilo politico di questi elettori, però, è molto vicino alla coalizione democratica di centrosinistra. Sono cittadini preoccupati dalla corruzione del governo (ed è per questa ragione che non si identificano con un partito), ma guardano con sospetto anche le grandi imprese private e la destra religiosa.

Nelle elezioni del 2006 questi, che rappresentano circa un terzo dell’elettorato, hanno favorito i democratici per il 57% contro il 39%. Gli elettori più giovani tendono a favorire il partito al potere e in genere gli restano legati. La generazione cresciuta negli anni Ottanta tende a votare repubblicano, ma quella più giovane, che ha cominciato a votare negli anni di Bush, è senza confronto favorevole ai democratici, soprattutto per ripulsa della politica estera e del conservatorismo sociale dei repubblicani. Questo vantaggio dovrebbe mantenersi negli anni a venire.

Mentre i partiti si preparano alle elezioni del 2008, è probabile che, salvo imprevisti (per esempio un altro grave attentato terroristico), i democratici mantengano il vantaggio conquistato nel 2006. Essi godono di un particolare elemento a favore nelle elezioni per il Congresso. I cento senatori sono eletti per un mandato di sei anni, ma non è l’intero Senato che si rinnova a ogni elezione, perché il ricambio riguarda circa un terzo dei seggi ogni due anni. Nel 2008 sono in scadenza trentaquattro seggi, dei quali ventidue appartengono ai repubblicani e dodici ai democratici. Pertanto, ai democratici in teoria basta conservare i propri dodici seggi per preservare la propria maggioranza, mentre i repubblicani devono difenderne ventidue. Per giunta, sono più i senatori repubblicani di quelli democratici che hanno deciso di non ripresentarsi, rendendo i propri seggi più esposti alla conquista di un candidato della parte opposta. I democratici hanno anche un elemento economico a favore nella gara per i seggi alla Camera e al Senato: hanno imparato a utilizzare internet per raccogliere piccoli contributi da sostenitori. Per di più, le aziende preferiscono dare soldi al partito che detiene la maggioranza, senza tenere conto di considerazioni ideologiche. Così i comitati che raccolgono fondi per i democratici la spuntano su quelli dei repubblicani in una proporzione di almeno due a uno. Anche questo può favorire la vittoria in una competizione testa a testa. I democratici hanno anche un margine di vantaggio nella competizione presidenziale, non foss’altro che per l’impopolarità di Bush. Il candidato repubblicano dovrà spiegare se e quanto sia d’accordo o in disaccordo con le scelte politiche del presidente. Se dirà di essere in tutto e per tutto dalla parte di Bush, rischia di inimicarsi il 75% degli americani che non lo sono. Se criticherà il presidente, correrà il pericolo di perdere la stessa base repubblicana, quella che si riconosce con il partito e non molla fino alla fine delle elezioni.

Ma le elezioni presidenziali non seguono necessariamente la stessa logica delle competizioni per il Congresso. Il presidente degli Stati Uniti ha un ruolo che è insieme quello di un primo ministro e di un sovrano, e in questa sua seconda funzione è giudicato per la sua capacita di solidarizzare con i sentimenti del popolo e per la sua statura morale. Nelle elezioni del 2004, per esempio, i democratici sono stati svantaggiati dal fatto che il proprio candidato, John Kerry, non aveva grandi qualità di comunicazione con le masse. A differenza di Bill Clinton, non sapeva convincere chi lo ascoltava di «sentire le loro sofferenze». C’è un’altra ragione per cui una maggioranza emergente non porta necessariamente a una vittoria presidenziale. Alle elezioni per il Congresso i partiti possono rispettare le diversità presenti nella propria coalizione. In uno Stato con molti elettori delle zone rurali, per esempio, i democratici devono presentare un candidato al Senato o alla carica di governatore che si dichiari contrario a qualsiasi limitazione all’uso delle armi. In uno Stato come il New Jersey, dove la maggioranza degli elettori vive in quartieri periferici o nei centri urbani e dove non si va a caccia, i democratici presenteranno un candidato che sarà invariabilmente favorevole alla limitazione delle armi. Invece un candidato alla presidenza deve rappresentare in tutta la sua ampiezza una coalizione di maggioranza. Non deve scontentare quella minoranza di elettori che vuole che si spenda di più nei centri urbani ma anche i professionisti delle aree suburbane che si preoccupano del pareggio del bilancio pubblico; per quanto riguarda i repubblicani, il candidato deve accontentare sia i fondamentalisti protestanti che sono contrari alle ricerche sulle cellule staminali sia i colti uomini d’affari che considerano una sciocchezza ostacolare la ricerca scientifica. Per questo le elezioni presidenziali finiscono per privilegiare il candidato che ha maggiori capacità politiche.

Per sintetizzare, è probabile, anche se niente affatto sicuro, che i democratici conquistino la presidenza nel 2008; ed è molto probabile che mantengano la maggioranza al Congresso. Gli americani potrebbero ritrovarsi con un governo diviso nel 2009. Ma anche un governo siffatto dovrà prevedere scelte politiche diverse da quelle praticate dall’Amministrazione Bush quando deteneva la Casa Bianca e la maggioranza al Congresso. Il cambiamento è all’ordine del giorno, ma per sapere che dimensioni avrà, bisognerà aspettare e vedere.

 

[1] Questo secondo scenario è stato ipotizzato da Ruy Teixeira e dallo stesso autore nel libro The Emerging Democratic Majority, Scribner, New York 2002.

[2] Questo termine è stato coniato dall’autore e da Ruy Texeira.