Quale politica universitaria? Perché il centrosinistra sta perdendo la sfida della riforma

Written by Sergio Fabbrini Friday, 29 February 2008 15:02 Print

Il governo di centrosinistra non ha un’adeguata politica di riforma dell’università italiana. Certamente, esso ha preso decisioni utili per interrompere il degrado più evidente di quest’ultima. È stata fermata la proliferazione delle sedi, è stato contrastato il facile riconoscimento dei titoli accademici, sono state chiuse molte delle cosiddette università telematiche che erano sorte durante la legislatura precedente, sono stati razionalizzati i raggruppamenti disciplinari, sono stati denunciati i casi più eclatanti di clientelismo e nepotismo accademici. Tuttavia, questi provvedimenti, per quanto necessari e lodevoli in sé, non fanno una politica di riforma. Anzi, essi sono stati addirittura motivati da una rinnovata filosofia di centralismo ministeriale, con il ministro che si è incaricato di portare «dall’alto» ordine e innovazione nell’università italiana. Un approccio di rinnovato centralismo ministeriale si è dunque progressivamente affermato.

Basti vedere il regolamento concernente la struttura e il funzionamento dell’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (ANVUR), a cui viene affidato il compito di valutare, in tutti i loro aspetti tecnici, le attività istituzionali delle università e degli enti di ricerca, nonché l’efficienza, l’efficacia e l’economicità dei programmi volti al finanziamento e all’incentivazione delle attività di ricerca e di innovazione (articolo 2.2). Ovvero, tale Agenzia dovrà valutare non solo «la qualità, l’intensità e la continuità della produzione scientifica e della sua diffusione a livello nazionale e internazionale», ma anche «la qualità del reclutamento del personale docente e di ricerca dell’università e degli enti di ricerca» (articolo 4.8.a). Come può, realisticamente, tale Agenzia assolvere compiti così numerosi e diversificati in relazione a un sistema universitario di grandi dimensioni come il nostro?

Per non parlare delle proposte sul sistema di selezione dei professori associati e ordinari, basate sui sorteggi nazionali. Si sta ritornando all’egemonia sul sistema universitario nazionale delle grandi sedi universitarie, inefficienti e ipertrofiche, che però dispongono di centinaia e centinaia di voti per controllare i concorsi (ovvero per avere maggiori possibilità che i loro docenti siano sorteggiati nelle nuove commissioni nazionali) o per farsi ascoltare dalle istituzioni politiche (parlamento e governo). Così, all’esaltazione aprioristica del mercato del precedente governo di centrodestra, l’attuale governo di centrosinistra oppone la celebrazione aprioristica dello Stato, come se fosse possibile derivare dall’uno (il mercato) o dall’altro (lo Stato) la soluzione organica di tutti i problemi dell’università italiana. Entrambe le posizioni sono poco o punto plausibili. Ovvero, sono preminentemente posizioni ideologiche. Sia perché non abbiamo un mercato delle conoscenze che possa davvero farsi carico di un sistema universitario largamente pubblico. E sia perché non disponiamo di uno Stato sufficientemente efficiente per governare un sistema universitario divenuto di massa. Insomma, è difficile riformare l’università italiana se si deve scegliere tra l’una e l’altra posizione, perché in realtà entrambe sono necessarie, se applicate a problemi diversi. Il centralismo statale non potrà risolvere il problema della bassa qualità dei docenti, ma è difficile che il mercato possa fare crescere la qualità della ricerca.

Ecco perché il centrosinistra sta perdendo la sfida della riforma: perché sta opponendo al «fondamentalismo del mercato» il «fondamentalismo dello Stato», il cui effetto è quello di rilegittimare lo sclerotico sistema burocratico-accademico che blocca la nostra università e la nostra ricerca. Quali potrebbero essere, invece, i passaggi di una riforma di queste ultime? In primo luogo, occorre abolire il valore legale del titolo di studio, rendendo evidente a tutti (anche sul piano simbolico) che l’università va valutata per ciò che insegna e produce e non già per il pezzo di carta che fornisce. Occorre poi favorire la più ampia e intensa competizione tra atenei e tra i vari ambiti all’interno dei singoli atenei, lasciando liberi gli uni e gli altri di scegliere in piena autonomia i loro professori, di selezionare i loro studenti e di definire i loro indirizzi di ricerca. Il reclutamento dei docenti è un’attività che perviene alle singole uni- versità (e non già al ministero o alle commissioni nazionali). In assenza del valore legale del titolo di studio, se le università reclutano «al ribasso» ne pagheranno le conseguenze in termini di calo degli iscritti. È necessario inoltre rendere competitiva l’attività di ricerca condotta nei singoli atenei e ambiti dipartimentali, definendo precisi standard di rendimento scientifico, sulla base dei quali verranno poi assegnati i finanziamenti pubblici. In questo ambito l’intervento dello Stato, con la sua Agenzia per la valutazione, si rende necessario. Se i fondi di ricerca non verranno distribuiti a pioggia, se verranno premiati i dipartimenti più produttivi, se si avrà il coraggio di chiudere le strutture di ricerca inefficienti, allora le università saranno molto attente nella loro politica di reclutamento dei ricercatori e dei docenti. Bisogna infine consentire agli atenei e alle loro facoltà di attrezzarsi istituzionalmente per fronteggiare la competizione delle altre università europee e internazionali – rendendo possibile il superamento della ingiustificabile distinzione tra «facoltà» e «dipartimenti» e avviando graduate school integrate che colleghino le lauree magistrali ai dottorati (e non già ai trienni come avviene ora) – e comunque di dotarsi in piena autonomia delle strutture di governance che ritengono più adeguate per gli scopi che vogliono raggiungere.

Le riforme debbono essere chiare e inequivocabili. Debbono essere guidate da criteri pragmatici e non ideologici: il «mercato» può essere utile per orientare le politiche di reclutamento delle università, lo «Stato» per valutare le loro attività di ricerca. E, soprattutto, le riforme debbono colpire gli interessi e le pratiche che hanno portato al declino drammatico del nostro sistema universitario e della ricerca. Per individuare quegli interessi e pratiche è necessario fare un passo indietro, guardando all’esperienza universitaria italiana del periodo repubblicano. Se si comprende che cosa è stata l’università italiana, allora (forse) si può convenire su ciò che occorre fare per riformarla.

Il periodo della continuità (tra il 1948 e il 1989-91) Le caratteristiche della politica universitaria italiana nei primi quarant’anni della Repubblica, almeno ai fini dell’argomento che qui si intende svolgere, sono le seguenti: la persistenza di un modello organizzativo ereditato dal regime fascista, basato sulla centralizzazione dei curricula, sull’unità funzionale e strutturale del sistema universitario; la grande rilevanza data al sistema delle cattedre e alla gestione burocratica della ricerca (con relativo sottodimensionamento delle risorse); e, infine, la mancata regolazione della domanda e l’assenza di qualsiasi programmazione strategica nell’espansione del sistema universitario. Almeno dalla legislazione Gentile del 1929, quella che Mussolini definì la più fascista delle riforme, in Italia si è coltivato un modello di «università uniforme». Ciò ha portato necessariamente a una centralizzazione formale del sistema universitario nazionale, centralizzazione che era già implicita nella legge Casati approvata nel 1859, cioè ancor prima dell’inizio dello Stato unitario. La centralizzazione ha portato a un’inesorabile burocratizzazione del ministero dell’educazione (le sue denominazioni sono cambiate continuamente nel tempo). Con l’esito che l’università è stata generalmente intesa come una mera articolazione dello Stato (ovvero come un suo ente strumentale). Quindi, anche nell’Italia repubblicana, è sopravvissuta, anzi si è consolidata, una cultura universitaria chiaramente antipluralista. Una cultura, per di più, formalistica, preoccupata esclusivamente di enfatizzare il rispetto delle procedure, ma del tutto disinteressata agli obiettivi da raggiungere.

Alla centralizzazione sistemica è quindi corrisposto un riconoscimento e rafforzamento delle corporazioni accademiche, attraverso lo sviluppo di ciò che è stato definito come il «sistema delle cattedre». Con questa espressione si indica un sistema in cui al docente (titolare di una cattedra) viene affidata la proprietà di una risorsa pubblica. E, pertanto, l’uso che di tale proprietà viene fatto non può essere messa in discussione da alcun organo accademico (e ovviamente extra-accademico). Così, se la libertà di insegnamento era stata trasformata in un principio costituzionale per evitare il ripetersi delle infamanti esperienze del regime fascista, essa si era quindi trasformata in un privilegio individuale che sottraeva il titolare (il cattedratico) a ogni obbligo di rendiconto pubblico (accademico o sociale). Così, non è difficile capire perché nell’università italiana postbellica si è venuto a istituzionalizzare un sistema di autorità basato principalmente sul controllo delle cattedre (e, quindi, sui pochi professori ordinari che di esse erano titolari – quasi tutti maschi, peraltro). Naturalmente, tale sistema di autorità poteva funzionare perché godeva di una particolare legittimazione. Ovvero perché si riteneva che esso fosse funzionale alla necessità di produrre un’università di élite. A scapito di altri valori come l’uguaglianza nelle opportunità di ascesa sociale, la formazione professionale e tecnica, l’educazione permanente. È inutile aggiungere che tale sistema di autorità ha finito per giustificarsi più su ragioni di potere accademico che di eccellenza scientifica. Tant’è che (nonostante le importanti eccezioni di alcune discipline più esposte alla ricerca internazionale), l’università italiana postbellica è stata un’università generalmente provinciale, isolazionista, introversa. Tale concezione dell’università e il suo modello organizzativo furono sfidati negli anni Sessanta dallo sviluppo dell’università di massa, esito inevitabile di quella «tirannia dei numeri» in base alla quale erano giunti a maturità i tanti giovani nati subito dopo la guerra (la cosiddetta baby boom generation). Naturalmente, tale fenomeno non era solo italiano. Ciò che fu propriamente italiano fu la passività legislativa con cui quella «tirannia dei numeri» fu affrontata. Nulla venne fatto per adeguare l’università italiana (dalle sue strutture al suo funzionamento) alle condizioni di una società di massa (per di più, democratica). In tale passività si impose invece una forte retorica democraticistica, secondo uno schema comune al comportamento delle nostre classi dirigenti. E cioè si esorcizzò un problema strutturale con facili (nel senso di poco costoso) dichiarazioni di principio. Così, l’università italiana liberalizzò gli accessi (come era necessario che avvenisse), ma non introdusse alcuna riforma della sua struttura e della sua logica di funzionamento. Cioè il legislatore fece entrare un’università di massa all’interno di una struttura (quella elaborata dalla legge Casati del 1859 e poi ridefinita, ma nella sostanziale continuità, dalla legge Gentile del 1929) pensata per pochi studenti (e per ancora meno docenti).

Non è la prima volta che in Italia si cerca di cambiare tutto lasciando le cose come stanno. Il risultato del gattopardismo delle nostre classi dirigenti è stato paradossale: alla retorica egualitarista del diritto allo studio non è corrisposta una riduzione delle disuguaglianze sociali. I dati sono noti. Ci si limita qui a ricordare solamente i più eclatanti. Se alla fine degli anni Novanta il 61% degli studenti iscritti all’università non completava gli studi, negli anni Ottanta più del 70% non arrivava alla laurea. Che è come dire che, a vent’anni dalla liberalizzazione degli accessi, su cento studenti che si iscrivevano all’università solamente trenta (se non di meno) arrivavano alla laurea. Così, l’università veniva sostenuta dagli studenti fuori corso, cioè da coloro che pagavano le tasse universitarie anche se non la frequentavano. E, naturalmente, chi concludeva gli studi, chi si laureava, proveniva principalmente dai ceti medio-alti, i quali evidentemente beneficiavano di una redistribuzione a rovescio. I ceti medio-bassi e bassi pagavano le tasse, ma chi utilizzava l’università erano principalmente i figli dei ceti medio-alti. Come se non bastasse, un’università siffatta non poteva che finire per essere (con le dovute e lodevoli eccezioni disciplinari e territoriali) un’università poco qualificata. Così, se il titolo di studio valeva socialmente poco, ciò che contava, per fare carriera, erano altre risorse (come i rapporti familiari, la professione dei genitori, le dotazioni economiche di partenza). Tale università poco qualificata ha dunque ulteriormente penalizzato quei pochi studenti provenienti dai ceti bassi che riuscivano ad arrivare alla laurea, in quanto avevano conseguito un titolo che non era una garanzia di mobilità sociale verso l’alto.

Anche qui c’è poco da discutere. Disponiamo di serie ripetute di dati che mostrano come, nell’Italia di allora ma anche in quella di oggi, la mobilità sociale verso l’alto non premia l’intelligenza, il merito, la capacità di sacrificio, la vocazione a studiare. La nostra struttura sociale (delle classi, dei ceti, dei gruppi) era e continua a essere congelata, nel senso che le posizioni sociali sono rendite che si trasferiscono generazionalmente. Il figlio dell’avvocato tendeva e tende a fare l’avvocato, il figlio del medico il medico e così via, secondo una logica che conferma «chi è dentro» ed esclude «chi è fuori». Eppure, per tutti gli anni Settanta e Ottanta, questa università venne difesa anche dalle forze dell’opposizione, oltre che dai movimenti studenteschi e giovanili (in cui io stesso mi riconoscevo). La loro legittima preoccupazione che non si ritornasse indietro alla vecchia università di élite finì così per giustificare la preservazione di un’università degradata, perché ritenuta più democratica. Ancora oggi succede di leggere (si pensi agli articoli «furiosi» di Pietro Citati contro la riforma del 3+2 su «La Repubblica») difese acritiche di quella università, quasi fosse stata un modello di organizzazione e funzionamento accademici.

Le implicazioni dell’università centralistica L’università del periodo compreso tra il 1948 e il 1989-91 ha coltivato una concezione particolare (se non particolaristica) dell’autonomia universitaria. Essa è stata fatta coincidere principalmente, se non esclusivamente, con la libertà di insegnamento dei singoli docenti, e non già con l’autonomia dell’istituzione universitaria in quanto tale. Di fatto, tale concezione è stata intimamente corporativa, ovvero antiautonomista (in senso proprio). La visione antiautonomista e centralizzatrice dell’università ha avuto nel valore legale del titolo di studio il suo punto di cristallizzazione. Affermando il valore legale del titolo di studio si giustificava il cen- tralismo (romano), perché solamente attraverso esso si poteva garantire l’uniformità del valore legale del titolo di studio sul territorio nazionale. Certamente il principio del valore legale del titolo di studio non ha avuto un’origine esclusivamente corporativa. Alle origini, quel principio esprimeva anche la necessità di promuovere un sistema universitario di tipo nazionale, garantendo le università più piccole e svantaggiate (in particolare quelle del Mezzogiorno). Nella realtà universitaria italiana di allora, però, quel principio ha finito per proteggere i vecchi corporativismi (e per promuoverne di nuovi). E soprattutto ha finito per alimentare una percezione diffusa del lavoro in università (in particolare dei professori) come di un’attività burocratica, da funzionario pubblico, garantita nella sua stabilità. Così riaffermando ulteriormente il sistema delle cattedre. Un sistema che proteggeva dalla competizione e che si riproduceva attraverso la cooptazione.

Sono stati due i protagonisti di questa università centralista. Essi si sono alleati tra di loro e, più o meno volutamente, hanno favorito l’esito antiegualitario di quell’ircocervo dell’università divenuta di massa ma rimasta di élite. Il primo protagonista è il ceto accademico, in particolare delle grandi università, il quale ha avuto una parte importante nella politica gattopardesca della conservazione attraverso il cambiamento. Anzi, il più delle volte, della conservazione e basta. Basti pensare che una larga maggioranza di esso si era opposta all’introduzione del tempo pieno, alla modifica dello status giuridico dei docenti, all’abolizione delle facoltà e all’introduzione dei dipartimenti, alla riforma dei curricula.

Naturalmente, alcune facoltà universitarie sono state all’avanguardia di tale resistenza più di altre. Generalmente sono state quelle facoltà con una forte impronta professionale (dove cioè i professori continuavano a svolgere anche attività private, come nelle facoltà di medicina o di giurisprudenza). Un fenomeno, va da sé, non esclusivamente italiano, anche perché motivato da ovvie esigenze strutturali (è un bene che a insegnare una disciplina giuridica sia qualcuno che abbia una conoscenza diretta della materia, o che a insegnare chirurgia sia qualcuno con una pratica costante). Tant’è che in altri paesi, da tempo, tali discipline sono state raccolte all’interno di scuole specifiche, dotate di una loro autonomia funzionale e curriculare. Comunque sia, da noi, il ceto accademico ha continuato a opporre la sua resistenza a ogni riforma, oppure l’ha svuotata di significato quando non era più in grado di impedirne l’introduzione. Si parla qui volutamente di ceto accademico e non di professione accademica, perché nell’università postbellica, grazie al loro status giuspubblicistico, gli accademici si sono generalmente percepiti come una corporazione medievale piuttosto che come una componente di un’istituzione pluralistica al suo interno e aperta verso la società esterna.

L’alleato naturale del ceto accademico è stata la burocrazia ministeriale centrale, che ha svolto anch’essa un ruolo molto conservativo. Sin dalla fine dell’Ottocento essa ha creato una fitta rete di rapporti con singoli docenti o con singole corporazioni accademiche, talora con singole università. Utilizzando discrezionalmente sia i regolamenti formali che i rapporti informali, essa ha usato la propria posizione per imporre le proprie preferenze (arrivando a bandire cattedre sulla base di sollecitazioni personali), ovvero per portare avanti la propria politica di sostegno di alcuni e di disinteresse verso altri. Ricorreva alle leggi quando doveva coprire le sue inazioni («non si può fare», «la legge non lo consente»), oppure allo stratagemma dell’ultima ora, quando invece voleva favorire un accademico amico, o una corporazione importante, o un ateneo elettoralmente importante per il ministro in carica. L’alleanza tra il ceto accademico e la burocrazia ministeriale è avvenuta nei fatti perché entrambi erano interessati a difendere (per quanto era possibile) lo statu quo dell’università centralistica. È stata questa alleanza che ha favorito la formazione di un sistema universitario altamente autoreferenziale, culturalmente conformista al suo interno e con uno scarso pluralismo organizzativo. E soprattutto connotato da un principio di irresponsabilità diffusa, sia da parte delle corporazioni accademiche (che non rendevano conto a nessuno delle loro scelte), sia da parte della struttura burocratica centrale che, avendo dei governi sempre deboli, poteva fare il bello e il cattivo tempo.

È stato il modello del «governo burocratico-accademico», connotato da un’ampia autonomia degli accademici e da una loro bassa partecipazione alle attività di governo dell’università, in quanto queste ultime venivano affidate ad una burocrazia ministeriale centrale (e quindi lontana). Un modello tra i più inefficienti e disegualitari tra quelli sperimentati nei regimi democratici consolidati.

Il periodo della discontinuità (successivo al 1989-91) Dunque, sempre per l’economia del discorso, si può dire che le ragioni del fallimento dell’università italiana postbellica siano dovuti ad alcuni fattori precisi. Innanzitutto, alla sua natura indifferenziata e, in secondo luogo, al vincolo burocratico-accademico che ne ha impedito lo sviluppo. Certamente, anche la scarsità delle risorse messe a disposizione del l’università ha avuto la sua parte. Tuttavia, con tale struttura istituzionale, una maggiore disponibilità di fondi non avrebbe garantito una maggiore qualificazione dell’università e della ricerca. La conclusione è stata che essa non ha garantito né l’educazione di massa né la formazione delle élite, ma anzi è stata un fattore che ha favorito la disuguaglianza sociale. Finalmente con gli inizi degli anni Novanta, quel fallimento viene riconosciuto sia dal governo che dal parlamento. Finalmente, arrivano le riforme. Inizia, allora, un periodo di innovazioni che ha sollevato molte speranze di un cambiamento sostanziale dell’università italiana. Anzi, si potrebbe dire che, se nel periodo precedente si è fatto nulla o poco, ora si è cercato di mettere in discussione sia l’idea indifferenziata dell’università sia i poteri delle corporazioni accademiche e della burocrazia centrale. Così, con gli anni Novanta, si è avviata una fase di adeguamento del nostro sistema universitario a quello di altri paesi europei e soprattutto si è cercato di rendere le singole università più responsabili nelle loro scelte di reclutamento e nella loro gestione delle risorse. Un effetto, quest’ultimo, del riordino del bilancio pubblico indotto dal Patto di stabilità, adottato dal Consiglio europeo di Amsterdam nel 1997. Nel corso degli anni Novanta si è così avviato un processo di decentramento del sistema universitario italiano, attraverso il riconoscimento dell’autonomia delle singole università. Autonomia a cui è corrisposta una corresponsabilità nella gestione delle risorse pubbliche: la cosiddetta strategia dell’autoregolazione. Tuttavia, tale strategia ha dovuto sin da subito fare i conti con severi condizionamenti, sia perché i finanziamenti pubblici all’università continuavano a essere scarsi, sia perché lo stato giuridico dei docenti rimaneva ancora intoccabile, sia perché il valore legale del titolo di studio non è stato messo in discussione. Insomma, il governo nazionale ha riconosciuto, da un lato, l’autonomia delle singole università ma, dall’altro lato, non ha creato le condizioni di un vero e proprio sistema competitivo. Inevitabilmente, tali vincoli hanno influito sul modo in cui sono stati accolti (all’interno delle singole università) i vari provvedimenti di riforma, nel senso che il loro evidente carattere contraddittorio ha finito per giustificare un’opposizione alla logica stessa della riforma.

Nonostante le buone intenzioni di chi ha promosso le riforme, tra il 1996 e il 2006 esse sono state condotte in modo alquanto incoerente. Naturalmente ciò è inevitabile (almeno in parte) in una democrazia elettorale. Il ministro, il governo e il parlamento sono sottoposti a pressioni, sono preoccupati della loro rielezione, sono sensibili ad alcuni gruppi o lobby e non ad altri. Per di più, la tanto agognata alternanza al governo (tra coalizioni alternative) ha finito per generare una situazione bizzarra, con un governo che disfaceva (almeno in parte) ciò che aveva fatto quello precedente. La politica universitaria dovrebbe essere una di quelle politiche che (come la politica estera) hanno un carattere bipartisan, ma la realtà italiana è stata assai diversa. Tuttavia, tale confusione è stata dovuta anche (se non soprattutto) all’assenza di un’idea «forte» di università e ricerca, in particolare nel centrosinistra. Nel centrosinistra si è infatti continuato a pensare all’università come a un’articolazione amministrativa dello stato nazionale, come a un insieme di corporazioni da proteggere perché utili elettoralmente, come a un’istituzione impegnata a garantire un generico diritto allo studio. Così i veri nodi da sciogliere sono stati trascurati. Basti pensare che l’abolizione del valore legale del titolo di studio non è mai stata presa in considerazione nella discussione del centrosinistra.

È possibile fare alcuni esempi dell’incoerenza delle riforme adottate. Quella dei curricula (secondo il cosiddetto modello laurea triennale, biennio specialistico e dottorato triennale, cioè 3+2+3) avrebbe potuto mettere in discussione l’idea della singola università come articolazione dello Stato centrale, collegandola invece alle esigenze sia del suo territorio che del sistema economico e sociale del paese. In realtà, però, quella riforma è stata ampiamente digerita dalla grande pancia del conservatorismo accademico. La laurea magistrale (o biennio specialistico) è stata interpretata come un prolungamento della laurea triennale, e non già (come avviene in tutti i paesi più avanzati) come il primo passo dell’educazione postgraduate. Così, in molte facoltà, in particolare umanistiche, si è passati dalle vecchie lauree di quattro anni a quelle attuali di cinque anni (3+2). Anzi, le facoltà di giurisprudenza, come sempre molto innovative, hanno addirittura formalizzato questa realtà riformando la riforma, con il cosiddetto sistema dell’1+4 (formula del tutto incomprensibile, anche se utile per prolungare di un anno la vecchia laurea quadriennale, con le inevitabili positive ricadute sui posti da bandire).

Lo stesso dottorato è stato quindi generalmente deglutito come un tutorato, cioè interpretato come incontro periodico tra un docente e uno studente (quando va bene). Così, se nei paesi più avanzati in Europa vi sono scuole di dottorato strutturate, organizzate secondo una didattica continuativa e avanzata, in Italia, in molte università, i dottorandi sono lasciati a se stessi, quando non vengono utilizzati per sostenere le attività didattiche (e talora anche amministrative) delle varie cattedre a cui i poveretti sono costretti a «collegarsi».

Un altro esempio è dato dagli interessi delle corporazioni accademiche, che potevano essere seriamente intaccati dal sistema dei concorsi locali per la selezione dei docenti, ma che sono stati preservati attraverso l’assenza di qualsivoglia meccanismo competitivo tra le varie università e al loro interno. Così, quel sistema ha favorito le corporazioni localistiche, mentre quello precedente aveva favorito le corporazioni centralistiche. Ma sempre di corporazioni si è trattato. I sistemi locali di selezione hanno un senso laddove non vi è alcun meccanismo di protezione legale per le scelte eventualmente scellerate che vengono fatte dalle singole università. Ma se si mantiene il valore legale del titolo di studio, a prescindere dalla qualificazione dell’università che lo fornisce, perché mai un’università dovrebbe essere incentivata a scegliere il candidato migliore al posto del candidato amico?

Nessun ministro del centrosinistra ha mai avuto il coraggio di mettere in discussione l’assurda organizzazione universitaria basata sulle facoltà e i dipartimenti. Assurda, tant’è che in nessun paese avanzato si tiene distinta l’organizzazione della didattica e quella della ricerca, affidando i compiti di organizzazione della prima alle facoltà e l’organizzazione della seconda ai dipartimenti. Basti pensare alle conseguenze che ha tutto ciò sui dottorati di ricerca, affidati ai dipartimenti, a cui però non compete l’organizzazione della didattica. Come ci si può stupire che l’Italia abbia un sistema dei dottorati tra i meno qualificati e competitivi in Europa? Come stupirsi che i nostri studenti migliori vadano a fare il dottorato all’estero e nessuno degli studenti migliori dell’estero venga a farlo in Italia?

A solo titolo di esempio, presso l’Università degli studi di Trento è stata costituita, nel 2001, una graduate school integrata in studi internazionali, che collega la laurea specialistica, un master di secondo livello e un dottorato di ricerca, tutti in lingua inglese. La scuola riceve centinaia di application tutti gli anni, da decine e decine di paesi, in particolare per il programma di dottorato. Eppure, né il governo né il parlamento hanno mai seriamente discusso del problema di integrare l’alta istruzione e la ricerca avanzata, né hanno mai deciso di lasciare le università pienamente libere di trovare le loro soluzioni istituzionali. Il risultato è che quella scuola, così come tante altre esperienze innovative, è costretta a operare in un vuoto normativo che inevitabilmente favorisce le resistenze di chi non vuole innovare (che poi vuol dire adeguare il nostro sistema universitario a quello dei paesi più avanzati).

Senza competizione non c’è riforma Eppure le cose potrebbero andare diversamente. Per la prima volta nella storia dell’università italiana, la riforma dei curricula e l’autonomia degli atenei hanno creato le condizioni per avviare o per riconoscere una differenziazione strutturale e funzionale dell’università, da tempo presente (peraltro) nei fatti. L’università italiana, attraverso l’introduzione del triennio, biennio e dottorato di ricerca ha riconosciuto di non essere più un’istituzione indifferenziata, come l’aveva pensata la riforma Gentile e ancora prima la riforma Casati. Con la riforma dei curricula, la stessa distinzione tra research university (cioè un’università dedicata interamente alla ricerca e organizzata didatticamente intorno ai programmi di dottorato) e teaching university (cioè un’università preoccupata di fornire un’educazione di massa al numero maggiore di studenti) è diventata meno rilevante che in passato (nel senso che si può fare l’una cosa e l’altra). Tuttavia, queste opportunità di riforma non hanno potuto svilupparsi pienamente, proprio per la difficoltà a portare la riforma alle sue logiche conseguenze. E non si potrà mai riformare l’università se non si elimina il valore legale del titolo di studio. Anche se tale eliminazione ha un valore preminentemente simbolico, tuttavia essa costituisce la premessa di ogni discorso riformista. Su questa base, poi, occorre lasciare le università libere di reclutare i propri docenti, di pagarli come vogliono, di definire i propri corsi di laurea, di stabilire la loro politica delle iscrizioni (definendo in piena autonomia le tasse per gli studenti), di organizzare autonomamente le loro strutture di governance. Saranno gli studenti e le loro famiglie (il «mercato») a stabilire, con le loro decisioni di iscriversi o meno, se le scelte delle varie università siano buone o cattive. Contemporaneamente, lo Stato, con la sua Agenzia di valutazione, deve intervenire nella ricerca, premiando o punendo, con la distribuzione dei fondi, le strutture a esse preposte.

Insomma, non si vede via d’uscita, a meno che non si assuma una prospettiva più articolata dell’università, una prospettiva che ne riconosca la sua ormai avvenuta differenziazione strutturale, funzionale e territoriale. L’università democratica e di massa ha missioni differenziate da perseguire in un contesto competitivo che incentivi la loro prestazione e il loro rendimento. L’università deve perseguire obiettivi diversi, garantendo il rispetto degli standard scientifici, ma anche la differenziazione delle proprie vocazioni interne. Per dirla con la nota formula del rettore dell’università della California di Berkeley degli anni Sessanta, Clark Kerr, essa deve passare dall’essere una university all’essere una multiversity. Che è come dire che ci sono molte università dentro l’università, e che ci sono differenziate università dentro il sistema universitario nazionale, che debbono essere riconosciute e debbono poter emergere liberamente. C’è l’università del trasferimento tecnologico e c’è l’università della ricerca scientifica pura, c’è l’università che risponde al territorio in termini di servizi sociali e c’è l’università che risponde alla comunità scientifica internazionale.

Già oggi l’università è una multiversity e non più un’istituzione omogenea (ammesso che lo sia mai stata). Tuttavia, la sua differenziazione interna non può emergere per via dei vincoli centralistici entro cui è costretta ancora a operare. L’alleanza tra la burocrazia centrale e le corporazioni accademiche è stata scossa, ma non è stata messa in discussione, dalle riforme degli ultimi quindici anni. Anzi, come in molte altre parti del sistema istituzionale italiano, quell’alleanza si sta ricostituendo più vociferante che mai. Come è avvenuto con la riforma elettorale, avviene con la riforma dell’università. Si fa una legge elettorale per favorire il bipolarismo che però non è sufficientemente coerente con quest’ultimo, poi si constata che il bipolarismo non funziona e, quindi, si rivendica la necessità di ritornare ai bei tempi antichi del centrismo proporzionalista. La stessa cosa è avvenuta con la riforma dell’università. Si dà l’autonomia, ma poi la si ridimensiona. Si decentra il sistema del reclutamento, ma poi non si dà a quest’ultimo l’incentivo per funzionare virtuosamente. Eppure, come nella riforma elettorale, anche nella riforma universitaria non si può stare a metà, o peggio ancora fermi. Perché altrimenti si va indietro. Per questo motivo occorre abolire il valore legale del titolo di studio e riconoscere piena responsabilizzazione operativa e finanziaria alle università, perché se le università reclutano docenti non qualificati e gestiscono in modo clientelare il loro budget ne pagheranno presto le conseguenze in termini di calo degli iscritti e di riduzione degli investimenti (per via della loro bassa produttività scientifica). Sarà il mercato (cioè gli studenti e loro famiglie) a metterle fuori gioco sul piano della didattica, e sarà lo Stato a chiuderle finanziariamente sul piano delle ricerca. Ci sono due modi per far funzionare l’università: o si dispone di uno Stato efficiente o si ricorre a un mercato competitivo. Se non si dispone né dell’uno e né dell’altro, occorre trovare un’adeguata combinazione dei due.

Conclusioni Deve essere chiaro, però, qual è lo scopo della riforma dell’università: favorire il merito. Senza il pieno riconoscimento dell’importanza strategica del merito individuale (dello studente, del docente, dell’amministratore), l’università e la ricerca non hanno futuro. Solamente la meritocrazia può scardinare gli interessi costituiti, le posizioni di rendita, le corporazioni che non si aprono. La strategia meritocratica dovrebbe essere fatta propria dal centrosinistra senza indugi, seppure implementandola attraverso un’adeguata regolazione. Sul versante degli studenti, introducendo meccanismi di selezione per le iscrizioni accompagnati da una politica di borse di studio per gli studenti meritevoli e con scarsi mezzi familiari. L’iscrizione all’università non può essere più considerata automatica. Sul versante dei docenti e degli amministratori, introducendo stipendi differenziati sulla base del rendimento e possibilità di downgrading in caso di assenteismo e improduttività, insieme a regole precise per evitare l’arbitrarietà di chi dovrà prendere queste decisioni. Ma la meritocrazia potrà emergere solamente in un sistema competitivo e decentrato, che riconosce alle singole università la responsabilità delle scelte che vengono fatte. Se il centrosinistra non ha un’idea «forte» di università e di ricerca, non potrà fare molta strada in questa direzione. E la sua idea «forte» dovrebbe essere evidente: l’università deve garantire la mobilità sociale e l’apertura economica e culturale del paese. Se il compito di un governo di centrosinistra è quello di promuovere un paese più moderno e meno ingiusto, allora esso non può proteggere un’università dequalificata, perché essa non solo non aiuta il paese a crescere e ad aprirsi, ma non consente al figlio dell’operaio (anche se bravo, meritevole e disposto al sacrificio) di diventare domani il dirigente dell’impresa in cui lavorava suo padre. Non è ora di aprire una discussione sull’idea di università che il centrosinistra deve promuovere?