Scenari e scelte per l'università italiana

Written by Luciano Modica Friday, 29 February 2008 14:57 Print
Domenica 14 ottobre circa tre milioni e mezzo di italiani si sono recati ai seggi per eleggere il primo segretario nazionale e le assemblee costituenti (la nazionale e le regionali) del Partito Democratico. Il numero dei votanti è straordinario sotto ogni punto di vista. Lo è se confrontato con il numero degli iscritti ai due partiti fondatori, DS e Margherita. Lo è pure rispetto al numero dei votanti alle primarie di altre esperienze straniere. Dunque, a differenza di quanto spesso si sente dire, anche fragorosamente, in Italia esiste una fascia di persone particolarmente ampia che crede nel ruolo dei partiti politici per dare voce e forza alle aspettative e al consenso o dissenso dei cittadini sulle scelte del parlamento e del governo.

Sono fioccati e fioccheranno i sondaggi e le interpretazioni su ciò che gli elettori delle primarie si attendono dal nuovo partito. Pare indubbio che, insieme alla volontà di unire definitivamente forze politiche da tempo alleate, semplificando e stabilizzando il quadro politico, una grande attesa si concentra sulla nettezza delle risposte che il Partito Democratico riuscirà a dare sui grandi temi della società di oggi e di domani. «Un partito unito che sappia scegliere e decidere», questa era la frase più comunemente pronunciata da parte dei cittadini in fila per esprimere il proprio voto e versare il proprio contributo.

Nel Novecento i partiti erano inseriti nella storia, avevano cioè in sé la scelta di un futuro possibile e agognato per cui impegnarsi, mettendo eventualmente in conto tempi lunghi o indefiniti. Con la «fine della storia » sembrava che anche il futuro fosse finito, che la politica non potesse che ridursi alla somma disgiunta di obiettivi di raggio temporale, territoriale e sociale piuttosto corto. Obiettivi espressi da partiti degli interessi più che delle speranze. Quest’analisi si sta rivelando frettolosa: non del tutto falsa, ma nemmeno del tutto vera.

Il nuovo Partito Democratico ha un’occasione imperdibile per risultare davvero un partito nuovo. Deve aprire una stagione in cui aderire ad un partito, da iscritti militanti o da elettori appassionati, significhi partecipare all’elaborazione ragionata e democratica di scenari condivisi sui singoli aspetti della vita sociale. Sulla base di questi scenari condivisi si dovranno impostare concretamente e coerentemente le azioni di governo o di opposizione. Un partito nuovo crea e aggiorna continuamente programmi, più e prima che organigrammi.

Discutiamo dunque di scenari già adesso, senza paure o remore, anche mentre il Partito Democratico prende forma con i suoi statuti e organi. Non sarà tempo perso, ma guadagnato. Permetterà di non disperdere le tante energie che si sono inaspettatamente dispiegate il 14 ottobre, persino tra coloro che non hanno partecipato alla votazione. In questa direzione voglio proporre un contributo per il settore dell’università, cui ho dedicato la mia vita professionale e di cui mi interesso nella mia attività politica. È un settore forse quantitativamente piccolo, ma socialmente e qualitativamente cruciale e delicato, che tutte le analisi del voto mostrano largamente orientato ai partiti e alle coalizioni di centrosinistra.

L’università è cruciale perché interseca in vario modo segmenti molto ampi della società (si pensi agli studenti e alle loro famiglie – quindi milioni di persone – o a chi dà lavoro a centinaia di migliaia di neolaureati ogni anno). È cruciale soprattutto perché si posiziona nello snodo fondamentale di ogni società ed economia della conoscenza, quello tra formazione, ricerca e innovazione, e costituisce quindi uno dei fattori principali della crescita economica, sociale e culturale del paese. Il settore universitario è delicato perché è marcato da forti venaturedi individualismo e insieme di corporativismo.

L’individualismo deriva da un aspetto positivo connaturato all’attività di ricerca; il corporativismo sconfina spesso, anche a sinistra, in forme di conservatorismo. Inoltre, nel momento attuale, il sistema universitario attraversa una pesante crisi di credibilità, che va spesso al di là dei suoi reali demeriti, mentre è percorso da profonde inquietudini, anche nei confronti del governo in carica, per il grave e perdurante sottofinanziamento e per un eterno dibattito senza conclusioni sulle riforme.

Quali scenari delineare per l’università italiana di domani da parte del Partito Democratico? Con quali conseguenze sulle concrete decisioni governative di oggi?

Il punto focale di qualunque scenario non può che essere la fisionomia stessa del sistema delle università. Già da molti anni, diciotto per l’esattezza, si è avviata una transizione dal tradizionale sistema centralista, in cui ogni ateneo è strettamente collegato e simile agli altri per il tramite del ministero normatore e regolatore, ad un sistema formato da università indipendenti le une dalle altre, dotate di forte autonomia e in competizione tra loro, sotto la vigilanza di un ministero orientatore e valutatore.

Si potrebbe dire, con linguaggio mutuato dall’elettrotecnica, che si è avviata una transizione da un modello a stella ad un modello a rete.

Come purtroppo capita spesso nel nostro paese, questa transizione, certamente difficile e da affrontare con gradualità, si è rivelata troppo prolungata. Il percorso intrapreso è stato costellato da successi e insuccessi allo stesso tempo. La direzione è risultata spesso incerta, con frequenti inversioni di marcia. Siamo insomma rimasti in mezzo al guado. In tale situazione è naturale che affiorino spinte perché si torni definitivamente indietro. In fondo, dicono alcuni, il sistema centralista tradizionale garantiva comunque ampi spazi di autogoverno agli atenei e soprattutto garantiva quella omogeneità dei modelli formativi e organizzativi che tende a rassicurare la società in tema di servizi pubblici. D’altra parte, non è nemmeno contestabile che le università e gli universitari abbiano fatto spesso cattivo uso dell’autonomia loro attribuita. Basti pensare alla proliferazione delle sedi universitarie e dei corsi di studio, spesso mossa da microinteressi territoriali e accademici, all’esplosione delle promozioni interne, al controllo delle elezioni delle commissioni di concorso con i connessi fenomeni di nepotismo, alla frammentazione delle corporazioni disciplinari (370 settori scientifico-disciplinari) e degli interessi delle facoltà. Nell’emanare i loro stessi statuti autonomi molte università non hanno colto le possibilità innovative e si sono limitate a codificare l’esistente. Nemmeno il parlamento e il ministero sono esenti da critiche. A contrastare le scivolate dell’autonomia è mancato certamente un sistema efficace di valutazione dei risultati. La legge che istituisce l’Agenzia nazionale di valutazione è stata approvata solo alla fine del 2006 e la sua effettiva operatività dovrà ancora attendere i primi mesi del 2008. È mancata e manca ancora una legge quadro sul governo del sistema e degli atenei in attuazione della Costituzione e della stessa legge sull’autonomia del 1989.

Il risultato è che un ateneo autonomo è oggi gestito con la stessa governance del passato: un consiglio di amministrazione e un senato accademico composti esclusivamente da rappresentanti elettivi delle categorie interne. Cioè una governance che aveva già mostrato i suoi limiti persino quando le università si limitavano ad essere, dal punto di vista normativo e organizzativo, una sorta di poli territoriali di un’unica grande «università nazionale». Pur tenendo in considerazione tutto ciò, sono convinto che sussistano invece ancor più forti ragioni perché si prosegua – rapidamente – nella direzione dell’autonomia delle singole università, uscendo, sì, dal guado, ma dalla parte della nuova riva, non della vecchia. Infatti ritengo illusorio sperare di poter gestire l’università di massa in modo centralistico. La domanda di formazione avanzata che viene da centinaia di migliaia di nuovi studenti ogni anno (oltre il 60% dei diciannovenni italiani è studente universitario) è per sua natura talmente differenziata che la risposta degli atenei non può che essere improntata alla massima flessibilità e rapidità di risposta possibili. Il centralismo è incompatibile con flessibilità e rapidità, tende anzi a creare quella burocratizzazione che è una delle palle al piede dell’Italia. Lo stesso vale per la ricerca, mai come oggi regno della prontezza e della competizione globale. Nessun sistema centralistico, che sia di università o di imprese, può avere successo nella società globale e accelerata in cui viviamo.

In termini di qualità della didattica e della ricerca, sarebbe assai difficile sostenere in modo argomentato che l’omogeneità indistinta promuova la qualità più della libera competizione. Imitazione delle migliori pratiche, reti che mettono a sistema le complementarità, incentivi e sanzioni in base ai risultati sono concetti largamente accettati nella società di oggi ma incompatibili con le organizzazioni centralistiche. Persinogli obiettivi sociali più significativi del sistema universitario, come il diritto allo studio per gli studenti capaci e meritevoli non abbienti o la mobilità sociale correlata ai talenti di ciascuno, appaiono oggi più facilmente raggiungibili in un sistema di università autonome in virtuosa competizione tra loro che non in un sistema centralistico.

Non è da sottovalutare la dimensione europea e internazionale. Già oggi per la ricerca, ma sempre più anche per la formazione, le università italiane sono inserite in un sistema che va ben oltre i confini nazionali in cui si compete continuamente per attrarre gli studenti più bravi, i professori più brillanti, i finanziamenti di ricerca più cospicui. Tirarsene fuori sarebbe delittuoso per il futuro del paese. Ma, a mio parere, la ragione più importante tra tutte a favore di un sistema di università autonome è un’altra. Solo un’autonomia libera e valutata genera una cultura della responsabilità personale e istituzionale, cioè il perfetto contrario di quella sorta di cultura dell’irresponsabilità che caratterizza così profondamente tanti nostri sistemi pubblici. È una ragione importante, perché segnerebbe finalmente un profondo avanzamento della cultura sociale e politica dell’Italia e anche perché un’università autonoma connotata da forti responsabilità trasmetterebbe una nuova cultura della responsabilità ai giovani che vi si formano, accelerando la scomparsa dei vecchi modelli comportamentali.

Tra i due scenari che si prospettano per l’università italiana di domani, al bivio che si intravede già davanti a noi e in cui saremo presto chiamati a scegliere definitivamente la strada da prendere, ho già espresso e motivato la mia scelta personale, anche se molte altre argomentazioni, in un senso o nell’altro, sono state taciute per brevità. Mi auguro che anche il Partito Democratico, discutendo in profondità e valutando tutti i pro e i contro, sia presto in grado di decidere a quale scenario puntare facendo maturare il più vasto consenso possibile all’interno e all’esterno del mondo universitario. La decisione dovrà certamente essere meditata e sicura, ma ciò non esclude che si metta in conto tutta la gradualità possibile nel raggiungere l’obiettivo. Il riformismo serio non ama i salti bruschi ma il passo cadenzato, purché in direzione stabile.

L’effetto più significativo e cogente di una precisa scelta di scenario sarebbe quello di poter orientare da subito le scelte dei singoli passi normativi da compiere e di valutarne l’effettivo avanzamento verso la meta. Se mi si passa la metafora, come una barca a vela in regata che misura la sua velocità non rispetto alla rotta ma rispetto alla boa di traguardo. Per desiderio di concretezza, provo allora a proporre due esempi tratti dalle discussioni attuali su temi di normativa universitaria. Nello scenario centralistico la classe docente universitaria appartiene al sistema ed è naturale che sia reclutata dal sistema e vi si muova liberamente. Nello scenario autonomistico, invece, i docenti di un ateneo ne costituiscono i punti di forza, sono le indispensabili fondamenta della qualità della didattica e della ricerca del «loro» ateneo. È dunque naturale che essi siano reclutati dall’ateneo e ad esso rispondano per le loro attività, entro il quadro dell’irrinunciabile garanzia costituzionale della libertà di insegnamento e di ricerca.

D’altra parte, se gli atenei non avessero la piena responsabilità dell’assunzione di nuovi professori e, al loro interno, non fossero ben individuate le responsabilità personali di chi effettua valutazioni e scelte, come si potrebbero accreditare loro premi per la buona qualità dei risultati o addebitare sanzioni nel caso opposto? Eppure un meccanismo di premi e sanzioni innescherebbe un interesse concreto per reclutamenti di qualità.

È quindi logicamente coerente con lo scenario autonomistico eliminare ogni forma di partecipazione nazionale strutturata alle procedure concorsuali (salvaguardando il precetto costituzionale sull’accesso ai pubblici impieghi) e lasciare piena autonomia e responsabilità a ciascun ateneo.

È una proposta che si sente spesso ripetere e che certamente sarebbe gradita a gran parte del mondo universitario. Se la procedura di selezione fosse ben gestita nel segno della responsabilità e della deontologia professionale, con il ricorso a valutazioni esterne e indipendenti dei curricula dei candidati secondo i migliori modelli stranieri, si contrasterebbe il localismo in modo anche più efficace che con farraginose procedure nazionali e si promuoverebbe la valorizzazione del merito. Inoltre, si attirerebbero maggiormente nel sistema italiano i migliori talenti provenienti dall’estero, aprendo anche l’Italia a quel «mercato internazionale dei cervelli» che vede attivi protagonisti tutti i paesi in forte sviluppo economico e sociale.

L’esperienza pregressa induce però a dubitare che, senza uno sperimentato e ben funzionante sistema di stringente valutazione dei risultati, si realizzerebbe subito un circolo virtuoso che generi scelte dei vincitori guidate solo dal merito dei candidati. In attesa che vada in funzione un tale sistema di valutazione, è giusto mettere in campo soluzioni transitorie, purché gradualmente si avvicinino e non si allontanino dalla meta della piena responsabilità dei singoli atenei. Scelto lo scenario autonomistico, su questa base vanno valutate e realizzate le soluzioni intermedie. Ad esempio, mettere a regime la procedura di reclutamento prevista dalla legge 230/2005 (cioè concorsi nazionali per un numero prefissatodi idoneità con commissioni elette da tutti i professori del settore) o un’altra procedura simile, al di là delle problematiche tecniche e dei dubbi sostanziali che si possono avanzare, sarebbe un passo di allontanamento e non di avvicinamento allo scenario dell’autonomia. Quindi, se il Partito Democratico avesse scelto questo scenario, ne seguirebbe di conseguenza l’atteggiamento politico da tenersi rispetto alle norme sulle procedure concorsuali, pur non potendosi escludere che siano necessarie soluzioni di mediazione nelle fasi transitorie delle regole di reclutamento.

Un secondo esempio viene dall’attuale riprogettazione di tutti i corsi di laurea e di laurea magistrale, alla luce delle modifiche apportate alla riforma dell’autonomia didattica del 1999 dai ministri Moratti e Mussi. La formulazione delle attività formative indispensabili a livello nazionale mediante decine di intricate tabelle illeggibili per il profano appare essere una soluzione transitoria a garanzia del valore legale del titolo di studio (pur fortemente e giustamente affievolito) in un percorso graduale di sempre maggiore autonomia didattica degli atenei. Mi auguro che queste tabelle appaiano tra qualche anno come reperti di archeologia normativa, ma ciò non toglie che esse rappresentino comunque un incremento di autonomia rispetto alle analoghe tabelle del 2000 e quindi nulla tolgano allo scenario autonomistico.

Laddove invece si crea qualche problema è nei requisiti indispensabili, in termine di risorse disponibili, per l’attivazione dei corsi di studio. È indubbio che occorresse mettere un freno immediato, ancor prima dello scatto dei meccanismi valutativi e dei relativi incentivi/sanzioni, alla proliferazione dell’offerta didattica universitaria. Non tanto in relazione ai titoli conferiti perché ben vengano, anche sperimentalmente, nuovi percorsi formativi per nuove professionalità. Quanto piuttosto in relazione all’assicurazione della qualità, ovvero alla garanzia verso gli studenti che il corso di laurea ha almeno un minimo sostegno stabile in termini di docenza strutturata e di infrastrutture. In questo campo si può scegliere tra imporre requisiti quantitativi vincolanti (avere almeno tot professori ecc.), oppure valutare le proposte di nuovi corsi di laurea in base alle norme che gli atenei stessi si sono dati per garantirne la qualità. In fondo, autonomia significa proprio la capacità di darsi le proprie norme.

È chiaro che la verifica di precisi requisiti quantitativi ha caratteri di grande oggettività ed è molto semplice, perché può essere eseguita in gran parte per via automatica. Ma è anche fortemente deresponsabilizzante per gli organi di governo degli atenei, attrae e stabilizza i comportamenti di minimo sforzo al loro interno e, in fondo, connota il ministero più come burocratico regolatore che come intelligente valutatore. Riporta quindi allo scenario centralistico più che a quello autonomistico e, rispetto a quest’ultimo, appare un passo indietro invece che avanti.

Invece, fornire criteri e obiettivi per i regolamenti didattici degli atenei, anche in termini espliciti di garanzie quantitative verso gli studenti che possono però essere differenti tra i diversi atenei e nelle diverse situazioni, avrebbe stimolato la responsabilità della singola università come istituzione unitaria e non come federazione di facoltà o di corsi di studio e quindi avrebbe rappresentato un passo avanti verso lo scenario autonomistico.

Sono solo due esempi, ma spero dimostrino una tesi. Scenari chiari per il futuro e scelte sicure per il presente non sono concetti in antitesi. Sono semplicemente gli strumenti della buona politica.