Occupazione femminile, come accendere il motore

Written by Maurizio Ferrera Thursday, 08 October 2009 18:25 Print

L’esperienza comparata mostra che il lavoro delle donne costituisce un volano di sviluppo: è dunque urgente attiva­re questo volano anche nel nostro paese. In Italia manca però una stabile “coalizione pro-donne”, capace di influire sui processi di formazione delle politiche pubbliche e sull’allocazione delle risorse di bilancio.

Il reddito di un paese e le sue dinamiche di sviluppo sono strettamente collegate al suo tasso di occupazione: quante persone in età lavorativa effettivamente lavorano? Secondo un nuovo filone di studi economici (ormai noto come “womenomics”) ciò che fa differenza è in particolare il lavoro delle donne. Le donne sono diventate il vero motore dell’economia mondiale. Secondo stime riportate dall’”Economist”, nel decennio 1996-2006 l’incremento dell’occupazione femminile nei paesi sviluppati ha contribuito al PIL globale più dell’intera economia cinese. Se il Giappone portasse la propria quota di donne occupate ai livelli americani (ossia dal 58% al 65% circa), la crescita del suo PIL aumenterebbe di 0,3 punti all’anno per almeno venti anni.

L’Italia si trova in una situazione ben peggiore del Giappone: solo il 47% circa delle donne in età attiva ha un’occupazione, uno dei valori più bassi d’Europa. Lo scostamento è particolarmente marcato nelle regioni del Sud. Qui le donne che lavorano sono poco più del 30% (sommerso incluso). Ciò è in contrasto non solo con quanto avviene negli altri paesi UE, ma anche con le aspirazioni femminili: più del 40% delle donne oggi inattive dichiara nei sondaggi che vorrebbe lavorare. Se si riuscisse a dare a queste donne l’opportunità di partecipare al mercato del lavoro l’Italia avrebbe un tasso di occupazione pari al 70%, come accade nel Nord Europa. Senza una svolta decisiva nei flussi di partecipazione femminile al mercato del lavoro, l’economia italiana è destinata a perdere terreno, sprecando prezioso capitale umano.

Come funziona il “motore” dell’occupazione femminile? L’ingresso delle donne nel mercato del lavoro può portare tre enormi vantaggi sotto il profilo economico. Il primo e più ovvio è l’aumento del reddito delle famiglie. Se anche la donna guadagna, il rischio di povertà cala drasticamente, con grossi benefici (e non solo materiali) per i minori. Dai dati Istat emerge chiaramente che le difficoltà a far quadrare i bilanci riguardano soprattutto le famiglie con un solo percettore di reddito (che nella stragrande maggioranza dei casi è uomo): in un sondaggio relativo al 2008 quasi il 40% di queste famiglie ha dichiarato di non essere in grado di affrontare una spesa imprevista, una percentuale doppia rispetto alle famiglie con due percettori. Con un secondo impiego in famiglia diminuisce anche la cosiddetta “vulnerabilità”: non solo per le maggiori entrate, ma anche per la maggiore sicurezza collegata a un doppio aggancio al mercato del lavoro (più conoscenze, più relazioni sociali, meno rischi se uno dei due partner perde il posto). Aumenta l’assunzione di rischi, il dinamismo. Con due redditi, poi, aumentano i consumi. I confronti internazionali non sono sempre affidabili su questo fronte. Le stime di Eurostat segnalano, tuttavia, che l’Italia ha una quota di famiglie monoreddito vistosamente più elevata rispetto agli altri paesi: 57% di contro al 37% della Francia e della Germania e al 25% della Gran Bretagna.

Il secondo enorme vantaggio dell’occupazione femminile è che essa crea lavoro. Sembra un gioco di parole, ma non è così. Le famiglie a doppio reddito consumano molti più servizi delle famiglie monoreddito: perché se lo possono permettere ma anche perché non ne possono fare a meno, vista la minore quantità di tempo a disposizione. Secondo alcune stime, per ogni cento donne che entrano nel mercato del lavoro si creano fino a quindici posti aggiuntivi nel settore dei servizi, grazie all’incremento della domanda: assistenza all’infanzia e agli anziani, prestazioni per i vari bisogni domestici, ricreazione, ristorazione e così via. Sappiamo che nelle società postindustriali le maggiori prospettive di incremento occupazionale si concentrano proprio nei servizi. Grazie alla globalizzazione molti servizi alle imprese (pensiamo ai famosi call center) possono tuttavia essere trasferiti in paesi lontani, dove il lavoro costa meno. I servizi alle famiglie hanno invece il grande vantaggio che devono essere prodotti vicino a chi li consuma. I quindici posti aggiuntivi per ogni cento donne occupate resterebbero, ad esempio, tutti in Italia (tutti al Sud, tutti in Calabria e così via). Dalle statistiche risulta che l’Italia ha un forte deficit di occupati proprio in questo settore: circa 20% in meno rispetto a paesi come gli Stati Uniti, l’Inghilterra, l’Olanda o la Danimarca. L’Italia è come intrappolata in un circolo vizioso: la scarsità di servizi è collegata alla bassa partecipazione femminile, che a sua volta è collegata alla scarsità di servizi.

Il terzo vantaggio dell’occupazione femminile (soprattutto quando le donne arrivano a coprire posizioni dirigenziali) è che essa svolge un ruolo di vero e proprio “moltiplicatore” dei risultati aziendali. Come hanno mostrato, di nuovo, gli studi della “womenomics”, le dirigenti donne sono più brave a interpretare i bisogni e i desideri femminili, e le donne sono oggi le principali protagoniste delle scelte di consumo. Inoltre, rispetto a quella maschile, la leadership femminile è più incline alla delega di funzioni e al lavoro di squadra. E i dati segnalano che le aziende caratterizzate da un mix di stili direttivi diversi (maschili e femminili) funzionano meglio. Infine, fare headhunting all’interno del mondo femminile significa avere maggiori probabilità di imbattersi in talenti non ancora “scoperti” e utilizzati e dunque nominare dirigenti più validi e preparati.

Che fare per accendere il motore dell’occupazione femminile anche in Italia? Sul tema è in corso, come è noto, un ampio dibattito. Le politiche più promettenti su cui puntare sono, ad avviso di chi scrive, due: l’incentivazione mirata di un settore moderno e innovativo di servizi alle famiglie e le politiche di conciliazione.

Per quanto riguarda la prima politica, la strada da seguire potrebbe essere quella francese e, più precisamente, bisognerebbe partire da ciò che i governi di Parigi hanno cominciato a fare dal 2005 per promuovere la formazione di un “buon” mercato dei servizi alle famiglie. Si badi, un mercato in larga parte finanziato dalle stesse famiglie e non dalle finanze pubbliche (come in Scandinavia). Ma un mercato buono, che eviti le degenerazioni del contesto anglosassone sul terreno dei rapporti e delle condizioni di lavoro (salari bassi, precarietà e così via). Gli ingredienti principali della formula francese sono tre. È stato innanzitutto riformato il codice del lavoro per riconoscere una vasta gamma di nuovi impieghi che potremmo definire di “artigianato terziario” rivolto alle famiglie. Non solo i tradizionali servizi di “cura” (per anziani e bambini), ma anche nuovi servizi associati alla promozione del benessere, della salute e della qualità della vita in generale: ad esempio, terapie fisiche e prestazioni estetiche a domicilio, assistenza informatica, servizi personalizzati di trasporto, assistenza amministrativa e piccola assistenza legale, progettazione viaggi, manutenzione di case e giardini, assistenza ai consumatori e così via. Inoltre è stata creata un’Agenzia nazionale per i servizi alla persona, con funzioni di coordinamento e formazione. I nuovi “artigiani terziari” (individui, cooperative, piccole imprese) devono accreditarsi presso l’Agenzia, dimostrando di possedere alcuni requisiti professionali minimi. Consultando un apposito sito internet, le famiglie francesi possono informarsi su chi fornisce servizi accreditati nell’area di residenza, per poi contattare il fornitore direttamente via telefono o via e-mail. Il terzo e fondamentale ingrediente è stata l’introduzione di incentivi fiscali. Le somme pagate per l’acquisto di prestazioni accreditate (poniamo una giovane tecnica informatica che fornisce assistenza su come eliminare un virus dal computer o come installare e utilizzare un nuovo software) possono essere detratte dall’imposta sul reddito nella misura del 50%, e l’IVA sulle somme fatturate è ridotta al 5,5%. Dal gennaio 2006 è stato anche introdotto un nuovo strumento per pagare le transazioni: il cesu (cheque emploi service universel). È un buono che si acquista in banca o in posta e che si può utilizzare per pagare chi fornisce il servizio. Il buono incorpora i contributi sociali ed evita a chi se ne serve qualsiasi obbligo di dichiarazione fiscale, contributiva o burocratica. I dati sull’occupazione segnalano che le riforme introdotte a partire dal 2005 hanno dato notevole impulso all’occupazione, soprattutto femminile.

Per seguire l’esempio francese il nostro paese dovrebbe mettere a disposizione una certa quantità di risorse finanziarie, che potrebbero essere reperite nei fondi UE e in quelli già esistenti per l’imprenditoria femminile e il microcredito. Il contributo economico non sarebbe tuttavia sufficiente: occorrerebbero anche coraggiosi sforzi per deregolamentare, semplificare, accreditare, monitorare e così via, sulla base di un disegno chiaro e articolato.

Agire rapidamente anche sul fronte delle politiche di conciliazione è importantissimo, altrimenti il “motore” dell’occupazione femminile può anche accendersi, ma si rispegne subito. Il nostro paese è caratterizzato da tante distorsioni e manchevolezze in termini di congedi, prestazioni familiari, organizzazione del lavoro, servizi per bambini e anziani, regolazione di orari e tempi (non solo di lavoro ma anche di “vita”) e così via. E vi è anche una scarsa diffusione fra i maschi italiani della cultura della condivisione, cioè di una più equa e simmetrica spartizione di ruoli e compiti “di cura” all’interno della famiglia. Da dove cominciare per superare deficit e ritardi culturali? I vincoli di bilancio consentono oggi solo alcune cose e non altre, impongono di effettuare delle scelte, o almeno di graduare nel tempo l’introduzione di quei programmi che hanno funzionato negli altri paesi e che noi ancora non abbiamo. Il semplice buon senso suggerisce di iniziare da quelle misure (de)regolative che non hanno implicazioni finanziarie dirette ma che possono dare un impulso immediato e tangibile alla conciliazione: organizzazione del lavoro, tempi, orari. Peraltro i sondaggi ISFOL segnalano che fra le donne inattive ben il 70% indica proprio la flessibilità di orari e tempi come precondizione per entrare nel mercato del lavoro. Gli interventi su questo fronte potrebbero avere anche effetti positivi sul piano dell’occupazione. Per quanto riguarda i congedi, una misura non troppo onerosa sul piano finanziario ma molto innovativa sul piano simbolico potrebbe essere l’introduzione del congedo di paternità, per lanciare un segnale non solo in termini di conciliazione ma anche di condivisione. Sul fronte dei servizi sociali, dovendo scegliere o comunque modulare nel tempo l’investimento di risorse pubbliche sembrerebbe opportuno dare la precedenza ai servizi per la prima infanzia, vista la loro triplice ricaduta positiva: nuovi posti di lavoro nei nidi, conciliazione, promozione delle capacità e delle opportunità delle bambine e dei bambini, soprattutto quelli che nascono in famiglie svantaggiate. Anche in questo caso, una scelta che muovesse in questa direzione sarebbe in linea con le preferenze delle donne inattive: in tutte le fasce di età (ma soprattutto fra le donne sotto i 35 anni) la domanda di servizi per l’infanzia si rivela più elevata rispetto a quella di servizi per anziani.

Come passare dai dibattiti e dalle proposte ai fatti concreti? Per una sfortunata coincidenza, la maggiore sensibilità pubblica nei confronti del “fattore D” ha dovuto fare i conti, prima ancora di essere stata metabolizzata dalla classe politica e dall’opinione pubblica, con l’arrivo della crisi economica più severa dell’ultimo mezzo secolo. L’attenzione politica si è così spostata verso obiettivi di natura difensiva: aiutare le imprese, sussidiare i disoccupati. È una reazione comprensibile, ma poco lungimirante.

Vi sono molte misure sul fronte della conciliazione che costano poco o nulla e che si potrebbero varare subito, senza compromettere il raggiungimento di altri obiettivi. Pensiamo a nuove regole sull’organizzazione del lavoro o sui periodi e orari di apertura degli uffici pubblici, degli asili, delle scuole. Come suggerisce un recente rapporto OCSE, si potrebbe avviare anche un nuovo round di liberalizzazioni. Le imprese sarebbero stimolate a valorizzare i talenti “rosa”, con una ricaduta in termini di maggiore occupazione femminile stimabile fra uno e due punti percentuali. Certo, un pacchetto incisivo dovrebbe includere anche misure onerose per la finanza pubblica (fiscalità premiale, asili, congedi parentali). Alcune risorse per muovere in questa direzione potranno arrivare dalla rimodulazione dell’età pensionabile delle dipendenti pubbliche, sulla scia dei recenti provvedimenti governativi.

La vera ragione per cui non si fanno progressi non è, a parere di che scrive, di natura economica, ma politica. Negli altri paesi il motore dell’occupazione femminile si è acceso quando si sono verificate due condizioni: in primo luogo si sono formate “coalizioni pro-donne” in seno alla classe dirigente (imprenditori, leader sindacali, intellettuali) e all’élite politica, spesso con raccordi trasversali rispetto agli allineamenti ideologici e partitici; in secondo luogo sono state esercitate pressioni mirate in tutte le sedi istituzionali rilevanti, a livello locale, nazionale e sovranazionale. Nonostante i meritevoli sforzi di alcune singole personalità e associazioni, nel nostro paese una stabile coalizione pro-donne ancora non c’è. Le cause sono molteplici e affondano le proprie radici nella cultura e nella logica di funzionamento del nostro sistema politico. Vi è però anche un problema di bassa capacità di coordinamento e mobilitazione, un deficit di incisività quando si cerca di influire sui processi decisionali. Continuiamo pure a discutere di “womenomics” nei convegni. Ma ciò che serve davvero è un po’ di “womenolitics”, un serio lavoro politico per le donne, con le donne e in larga misura su iniziativa delle donne.