La crisi del comunismo internazionale. Storia e globalizzazione

Written by Giuseppe Vacca Friday, 29 February 2008 11:30 Print

Col passare del tempo e il proliferare degli studi sul tema, appare sempre più chiaramente il ruolo avuto da Togliatti nel comunismo internazionale del dopoguerra e, più in generale, nelle vicende verificatesi all’interno del “sistema” sovietico nella seconda metà degli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta. Le riflessioni dell’ultimo Togliatti, in particolare quelle contenute nel Memoriale di Yalta, rivelano la profonda consapevolezza che il leader del PCI aveva dei radicali mutamenti in atto nella situazione mondiale di quegli anni e delle sfide che quei mutamenti costituivano per il movimento comunista.

Il comunismo sovietico è finito con la dissoluzione dell’URSS nel 1991. Caso forse unico nella storia, lo Stato sovietico non si è smembrato per aver subito una sconfitta militare, ma principalmente a causa di dinamiche interne, tanto che comunemente si usa dire che l’URSS sia implosa. Questo vuol dire anche che al fenomeno non si possono applicare le categorie che di solito si usano nella storia internazionale: non vi sono stati vincitori e vinti chiaramente identificabili. Il paragone più ovvio è con la seconda guerra mondiale: essa si concluse con vincitori e vinti ben individuati, tanto che i vincitori poterono dettare un nuovo ordine mondiale durato cinquant’anni. Non è stato così nel 1991 e, infatti, a nessuna mente sobria e informata verrebbe di dire che la struttura del mondo originata dalla fine del bipolarismo possa considerarsi un nuovo ordine mondiale. Se l’URSS è implosa per cause endogene, la sua fine deve considerarsi la conclusione d’un lungo processo di crisi che ha motivazioni sia interne, sia internazionali. Quali sono queste motivazioni? E a quando si possono far risalire? Sebbene le motivazioni interne e quelle internazionali siano strettamente intrecciate, è soprattutto sulle seconde che ci soffermeremo prendendo spunto dal recente libro di Carlo Spagnolo.1

La scelta è dettata dall’intento di continuare a riflettere sulla storia del PCI, che finisce anch’essa insieme al- l’URSS, mettendo a fuoco la figura di Togliatti, e dal convincimento che la fine dell’Unione Sovietica sia stata il punto d’arrivo del disfacimento del sistema del comunismo internazionale costruito da Stalin, che si alimentava la proiezione di potenza mondiale dell’URSS. Col passare del tempo appare sempre più evidente che, oltre ad essere il principale anello di congiunzione fra storia del PCI e storia del comunismo internazionale, la figura di Togliatti è significativa anche per ripensare la crisi del comunismo internazionale stesso. Da questo convincimento muove il libro di Spagnolo, che costituisce l’unica ricerca storica di cui disponiamo sull’ultimo Togliatti.

La storia del PCI è singolare proprio perché è stato l’unico partito comunista europeo che abbia continuato a essere la principale forza della sinistra nel proprio paese fino alla fine del comunismo sovietico. Per capire la ragione di ciò, è indispensabile rianalizzare il modo in cui questo partito ha fronteggiato la lunga crisi del comunismo internazionale. Togliatti, del resto, fra il 1956 e il 1964, ne aveva anche riformulato il programma. In questo scritto, ci occuperemo del rapporto tra PCI e crisi del comunismo internazionale.

Spagnolo considera giustamente il Memoriale di Yalta la punta di un iceberg che pesca nei fondali del rapporto fra il PCI e il PCUS durante l’intero periodo preso in esame. Dalla sua ricostruzione emergono molti aspetti della figura di Togliatti di solito trascurati. Merita particolare attenzione un fatto: l’orizzonte della sua ricerca è stato un orizzonte precipuamente internazionale. Infatti, tanto il modo in cui egli percepì la crisi del movimento comunista, quanto lo sforzo che fece per cercarne le soluzioni ci pongono dinanzi a una figura di cui non solo va compreso il ruolo internazionale, ma va indagata anche l’ambizione teorica. Insomma, non si può leggere il Memoriale di Yalta se non come l’abbozzo di una proposta di revisione radicale del comunismo sovietico sia come sistema politico ed economico, sia come sistema internazionale. Ciò implicava una revisione altrettanto profonda dei fondamenti teorici su cui esso era stato costruito.

La storiografia casereccia prediletta dai nostri media dipinge il Memoriale di Yalta come un documento del “complotto” che pochi mesi dopo la morte di Togliatti portò alla destituzione di Krusciov. Pur non potendo ricorrere a prove documentali, perché non ve ne sono, quelle narrazioni affermano che Togliatti vi avrebbe preso parte per lavare l’onta della destalinizzazione, da lui mai condivisa. A sostegno di tale congettura si adducono, di solito, la critica del modo in cui venne condotta da Krusciov la destalinizzazione – ad essa Togliatti dedicò testi di grande impegno, a cominciare dall’intervista a “Nuovi Argomenti” della primavera del 1956 – e il suo sostegno alla repressione della rivolta di Budapest dei primi di novembre del 1956. Anzi, grazie al suo prestigio internazionale, la pressione di Togliatti avrebbe avuto addirittura un peso determinante nella decisione dell’intervento sovietico facendo di lui un sabotatore ante litteram del riformismo kruscioviano.

Gli autori di tali congetture non si trattengono neppure di fronte alla banale considerazione che a preme- re per l’intervento in Ungheria furono Mao e Tito, personalità sicuramente più influenti di Togliatti nel campo del comunismo internazionale. Quei commentatori si basano su un documento ritrovato alcuni anni fa negli archivi di Mosca: il telegramma che Togliatti inviò all’Ufficio politico del PCUS il 30 ottobre 1956. Che Togliatti fosse favorevole all’intervento era noto dal 23 ottobre, allorché egli aveva pubblicato un editoriale su “l’Unità” per sostenere che l’insurrezione di Budapest aveva preso una piega tale che bisognava fermarla ad ogni costo. Che il telegramma del 30 ottobre abbia potuto avere un ruolo determinante nel far pendere la decisione sovietica a favore dell’intervento risulta invece una congettura infondata. Il processo decisionale del Politburo sovietico è oggi ricostruibile su documenti d’archivio accessibili.

Tra i contributi più significativi al convegno su “Togliatti nel suo tempo”, del quale abbiamo parlato nei due articoli precedenti, vi è quello di Jonathan Haslam, intitolato “I dilemmi della destalinizzazione: Togliatti, il XX Congresso del PCUS e le sue conseguenze (1956)”, che quel processo ha ricostruito puntualmente.2

Fra i molti meriti del lavoro di Haslam vi è anche quello di aver dimostrato che, quando il telegramma di Togliatti arrivò nelle mani dei membri della direzione del PCUS, la mattina del 31, la decisione di intervenire era stata già presa dal Politburo: fino a ventiquattro ore prima il vertice sovietico era orientato ad accogliere le richieste del governo di Imre Nagy e ad impegnarsi persino a ritirare le truppe sovietiche di stanza in Ungheria; la decisione fu capovolta nelle ore successive perché, di fronte all’aggressione anglofrancese all’Egitto, la leadership sovietica temette erroneamente che gli Stati Uniti la sostenessero; e che potessero aver deciso di sostenere anche l’insurrezione ungherese, sconvolgendo l’ordine europeo di Yalta. Evidentemente questa preoccupazione era condivisa da Togliatti; tuttavia il suo telegramma arrivò troppo tardi per influire su una decisione già presa.

Ma se, com’è giusto, si fa risalire al 1956 l’inizio della crisi del comunismo sovietico, il focus va spostato dall’Europa all’Asia. Non perché la crisi non abbia avuto un teatro significativo anche in Europa: l’origine della guerra fredda era stata qui, e, per quanto riguarda la storia del PCI, le contraddizioni e i “rigori” che ne erano scaturiti riguardavano soprattutto lo scacchiere europeo. Ma, in prospettiva storica, la crisi del comunismo sovietico come “sistema” internazionale ha avuto il suo epicentro nei rapporti fra l’URSS e la Cina. Essi cominciarono a incrinarsi apertamente nel 1956, a seguito del XX Congresso del PCUS, per giungere ad una grave rottura già nel 1959, con il ritiro dei consiglieri militari sovietici dalla Cina. Merito del libro di Spagnolo è aver riportato questo problema al centro della riflessione dell’ultimo Togliatti e averne ricostruito il percorso tenendo ben presente che, per un leader comunista internazionale della sua statura, quel conflitto costituiva la crisi più grande del comunismo, poiché colpiva al cuore l’universalismo della classe operaia, su cui poggiavano la sua legittimazione ideologica e la sua autorappresentazione. Per contro, in Europa la crisi del 1956 si chiuse in attivo per l’URSS: l’atteggiamento passivo degli Stati Uniti nei confronti della rivolta ungherese confermò il predominio incontrastato dell’Unione Sovietica nella propria sfera d’influenza; e la stabilizzazione del bipolarismo che ne seguì era il miglior risultato a cui la leadership kruscioviana potesse ambire. Ciò rinviava sine die la prospettiva socialista nell’Europa occidentale e creava problemi a un partito che aveva una rilevante influenza nazionale come il PCI: non meno cruciali quelli che ne derivavano a Togliatti.

Il tema che ci preme qui affrontare, invece, è se, nell’ottica di Togliatti, il XX Congresso del PCUS originasse la crisi del comunismo sovietico o operasse piuttosto come rivelatore di tendenze di crisi che lo percorrevano già da tempo, e in questo caso, se contenesse delle indicazioni valide per affrontarle. L’interrogativo sorgeva dalla contraddizione stridente fra la denuncia del culto della personalità e dei crimini di Stalin, su cui la nuova leadership sovietica basava la propria legittimazione, e la strategia della coesistenza pacifica, con cui essa dichiarava di voler inaugurare una nuova stagione del comunismo internazionale. Sebbene quest’ultima aprisse nuove prospettive ai partiti comunisti europei, Togliatti avvertì subito il rischio che la denuncia dei crimini di Stalin avrebbe potuto avere effetti dirompenti nelle democrazie popolari. D’altro canto, criminalizzando la storia precedente del comunismo sovietico, il Rapporto segreto delegittimava anche il PCI, che su quella storia era riuscito a costruire una politica nazionale capace di garantirne il profondo radicamento. Gli anni di Krusciov non mutarono, in realtà, né il sistema interno dell’URSS, né la sua logica internazionale, per cui è molto forte nella storiografia la propensione a considerare il Rapporto segreto l’atto storicamente più rilevante del XX Congresso, attribuendo un’importanza marginale alla politica di coesistenza. Ma per quanto attiene agli sviluppi dell’azione politica e della riflessione strategica di Togliatti questa interpretazione non appare convincente, ed è da condividere, quindi, l’impostazione di Spagnolo, che ricostruisce con cura il modo in cui Togliatti accolse la strategia della coesistenza pacifica e cercò di darne una propria interpretazione.

Per Togliatti il XX Congresso del PCUS era «il più importante del Partito comunista dell’Unione Sovietica dopo la morte di Lenin»3 e costituiva «una svolta rinnovatrice», alla quale non vi era «una parte del movimento [comunista] che [potesse] non partecipare ».4 Le principali novità che egli registrava erano: l’affermazione della «non inevitabilità della guerra» e la legittimazione di nuove «vie nazionali » al socialismo. I punti più importanti della sua interpretazione a noi paiono i seguenti: nei postulati del XX Congresso la «non inevitabilità della guerra» discendeva da un’analisi del- la situazione mondiale secondo la quale un raccordo fra il «sistema degli Stati socialisti», i paesi ex coloniali – raggruppati, insieme alla Cina e alla Jugoslavia, nel movimento dei non allineati – e l’azione della classe operaia e delle masse popolari dei paesi capitalistici costituivano un campo di forze capaci di impedire alle potenze imperialistiche di provocare una nuova guerra mondiale.5 Strettamente legata a questa tesi era l’ammissione di nuove vie al socialismo, rese possibili, appunto, dal mutamento dei rapporti di forza mondiali. Se la guerra non era inevitabile, non si poteva più assumere l’esperimento russo come modello perché non si prevedeva, né si auspicava, un nuovo 1914.

L’esempio più significativo in tal senso era già fornito dall’esperienza della rivoluzione cinese, ma quello su cui si vuole qui attirare l’attenzione sono le innovazioni teoriche e strategiche che Togliatti faceva scaturire da quell’analisi. La prima era l’affermazione della impossibilità, per il movimento comunista internazionale, di mantenere un’unità intesa come uniformità, cementata dalla necessità di difendere l’esistenza dell’URSS e quindi centralizzata dalla sua direzione. Com’è noto, Togliatti fece sua una tesi di cui pure s’era discusso a Mosca in occasione del XX Congresso, cioè che il movimento comunista dovesse assumere una configurazione policentrica. Poiché questa formula fu lasciata rapidamente cadere dalla leadership sovietica, Togliatti ripiegò sulla tesi di una unità da perseguire «nella diversità e nell’autonomia» dei partiti comunisti, sulla base di relazioni bilaterali o multilaterali comunque paritarie. Tuttavia, nella sua interpretazione l’unità nella diversità e nell’autonomia non rinnegava il convincimento che, nell’azione, si realizzasse comunque una qualche forma di policentrismo. Infatti, per Togliatti contava il valore analitico della formula: «Il mondo è diventato policentrico» affermò nella relazione all’VIII Congresso del PCI e dunque a una situazione così profondamente mutata doveva corrispondere un mutamento strategico e del modus operandi del movimento comunista internazionale.6

Ancora più importante era l’altro concetto-chiave che, sotto il profilo analitico, faceva coppia con quello di policentrismo: l’interdipendenza. Togliatti lo enunciò esplicitamente per la prima volta nel 1959, nel saggio sulla storia del Comintern, e il fatto che quella categoria affiorasse in una riflessione sui caratteri della storia mondiale del Novecento la rende ancora più significativa. Infatti, tratteggiando il processo da cui aveva avuto origine l’idea stessa della Terza internazionale, egli scriveva: «Il legame tra ciò che avviene in una parte del mondo e nelle altre diven- ta uno stretto legame di interdipendenza, mentre i motivi dei contrasti sociali e politici e gli obiettivi di lotta delle diverse parti acquistano, in tutto il mondo, una impressionante analogia».7

Interdipendenza e policentrismo contraddicevano la stabilizzazione bipolare delle relazioni internazionali che costituiva invece l’obiettivo della politica sovietica. Per ora Togliatti non esplicitava questo aspetto della sua posizione politica; ma, come vedremo, venne indotto ben presto a farlo. L’altra innovazione ch’egli enucleava dalla politica di coesistenza riguardava la soggettività politica. Infatti, la conseguenza più rilevante dei mutamenti della struttura del mondo dianzi accennati era, secondo lui, la spinta tumultuosa e molteplice ai grandi cambiamenti politici e sociali che si sviluppavano in ogni parte del mondo. Ma la molteplicità delle situazioni e dei processi faceva emergere forze politiche e movimenti sociali che concepivano il socialismo in modi non riconducibili né al modello sovietico né alla guida dei partiti comunisti: «Possiamo trovare una spinta verso il socialismo e un orientamento più o meno chiaro verso forme e trasformazioni economiche di tipo socialista, anche in paesi dove i partiti comunisti non soltanto non partecipano al potere ma alle volte non sono nemmeno delle grandi forze (…). Questa situazione si presenta oggi e assume particolare rilievo in zone del mondo da poco tempo liberate dal colonialismo. Anche in paesi di capitalismo molto avanzato, però, può accadere che la classe operaia nella sua maggioranza segua un partito non comunista, e non possiamo escludere che, anche in questi paesi, partiti non comunisti, ma fondati sulla classe operaia, possano esprimere la spinta che viene dalla classe operaia all’avanzata verso il socialismo».8

L’ultima affermazione implicava un riorientamento radicale del movimento comunista nei confronti della socialdemocrazia e una ricollocazione del PCI nel socialismo europeo, sulla quale il libro di Spagnolo offre utili indicazioni. Ad ogni modo, pare evidente che, in base alle analisi fin qui richiamate, Togliatti attribuisse davvero al XX Congresso del PCUS l’importanza che dichiarava di attribuirgli e si proponesse di contribuire agli sviluppi della politica di coesistenza in modo utile a rafforzare il riformismo kruscioviano e a influenzarlo.

Fra l’altro era l’unico modo in cui poteva pensare di governare, all’interno del suo partito, le contraddizioni laceranti generate dal Rapporto segreto, in attesa che maturasse una situazione meno drammatica di quella creata dalle crisi polacca e ungherese. Tuttavia non crediamo gli mancasse la consapevolezza che tanto le innovazioni enunciate da Krusciov, quanto la delegittimazione del comunismo sovietico originata dal Rapporto segreto, riflettessero una crisi del movimento comunista così come si era configurato dalla vittoria su Hitler alla morte di Stalin. Dall’avvento di Stalin in poi nel comunismo sovietico l’inevitabilità della guerra era strettamente collegata a una visione dicotomica della struttura del mondo scandita dalla contrapposizione fra il capitalismo e il socialismo. Le parentesi segnate dall’adesione di Stalin all’antifascismo – la partecipazione dell’URSS alla politica di sicurezza collettiva negli anni Trenta e alla guerra antifascista nel 1941-45 – non avevano mai sottoposto a revisione quei concetti, fondativi della ragione d’essere del comunismo internazionale. Né l’avevano fatto gli alfieri dell’antifascismo comunista. Per limitarci a Togliatti, nell’immediato dopoguerra la sua scommessa sulla tenuta della grande alleanza antifascista poggiava sul convincimento che essa avrebbe consentito di conciliare la sicurezza dell’URSS e la lotta per il potere dei partiti comunisti dentro e fuori la sua sfera d’influenza, mentre la contrapposizione frontale fra il campo socialista e quello imperialista le penalizzava. Ma su scala mondiale, alla base dell’avanzata dei partiti comunisti rimaneva la potenza sovietica, che poteva giocare ruoli diversi secondo che la sua politica estera seguisse l’opzione antifascista o quella anticapitalista.

Nella interpretazione di Togliatti la politica di coesistenza e la dichiarazione della non inevitabilità della guerra non eliminavano quell’ambivalenza. Infatti, sebbene fosse del tutto consapevole che quelle posizioni implicavano una revisione dei fondamenti teorici del bolscevismo, inizialmente Togliatti si limitò a puntare le sue carte sull’ipotesi che la politica di coesistenza fosse condivisa da tutto il movimento comunista internazionale, che questo consentisse di sviluppare un’alleanza sempre più solida con il movimento dei non allineati e che, grazie ai nuovi rapporti di forza che si delineavano a scala mondiale, l’Unione Sovietica fosse in grado di avviare una riforma del suo modello economico e di favorire la sperimentazione di nuove vie di avanzata al socialismo. Tutto ciò aveva un particolare rilievo in Europa, dove le fratture della guerra fredda e quelle ancora più remote del movimento operaio avevano congelato le prospettive del socialismo e condannato i partiti comunisti all’irrilevanza e all’isolamento. Malgrado gli effetti dirompenti del XX Congresso nelle democrazie popolari, Togliatti ritenne che la sua interpretazione della politica di coesistenza potesse avere un futuro. Infatti, nella conferenza di Mosca dei 64 partiti comunisti del novembre 1957, l’unità del campo socialista sulla base della politica di coesistenza parve consolidarsi grazie alla sanzione di «un condominio cino-sovietico alla guida del movimento» basato sul trasferimento alla Cina di tecnologie nucleari che ne garantivano la sicurezza e l’autonomia.9 Ma in realtà l’opzione principale di Krusciov non era questa. Dal 1953 anche l’URSS deteneva la bomba all’idrogeno, nel 1955 aveva consolidato il suo predominio sull’Europa centrorientale con la creazione del Patto di Varsavia, l’atteggiamento americano di fronte alle crisi polacca e ungherese del 1956 l’aveva rassicurata circa la stabilità della sua sfera d’influenza in Europa e il lancio dello Sputnik, nel 1957, persuase la leadership kruscioviana della possibilità di raggiungere in breve tempo le condizioni per sfidare gli Stati Uniti e il mondo occidentale ad una coesistenza competitiva. Gli Stati Uniti si mostravano interessati a una stabilizzazione del sistema delle relazioni internazionali attraverso un rafforzamento del bipolarismo e la leadership kruscioviana vedeva in questo un’opportunità per impostare in termini di potenza i rapporti con la Cina di Mao, con cui non voleva certo condividere alcuna leadership.

I rapporti fra Mosca e Pechino peggiorarono rapidamente allorché, come prova dell’affidabilità dell’URSS, dopo l’incontro con Eisenhower del settembre 1959, Krusciov comunicò ai cinesi la sospensione delle forniture tecnologiche nucleari promesse nel 1957. La politica di coesistenza assumeva definitivamente il carattere di una stabilizzazione bipolare del sistema delle relazioni internazionali10 e l’interpretazione su cui Togliatti aveva puntato veniva duramente smentita sui due temi fondamentali dell’unità del movimento comunista internazionale e delle prospettive del socialismo in Europa. I rapporti cino- sovietici sarebbero arrivati rapidamente alla rottura: nell’interpretazione di Krusciov, la coesistenza pacifica non contemplava il riconoscimento alla Cina del ruolo di grande potenza. Quando, nel luglio 1963, l’URSS siglò con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna il trattato per la moratoria delle esplosioni nucleari di superficie, «i cinesi lo percepirono come un impedimento definitivo a un proprio programma nucleare» e la rottura divenne totale.11 D’altronde, la stabilizzazione bipolare dell’assetto europeo non garantiva solo l’URSS, ma anche gli Stati Uniti, perché comportava l’impegno sovietico ad ostacolare o quanto meno a non favorire mutamenti radicali degli equilibri politici e sociali in Europa occidentale. Gli sviluppi della politica di coesistenza originavano quindi un contrasto anche fra Mosca e il PCI; contrasto che segnò gli ultimi anni della ricerca politica di Togliatti.

Malgrado il prezzo che il PCI dovette pagare per i contraccolpi della repressione sovietica in Ungheria, la politica di coesistenza offriva a Togliatti nuove possibilità di sviluppo della politica nazionale. Occupandoci del modo in cui egli affrontò la crisi del comunismo internazionale, ne toccheremo solo gli aspetti riguardanti le innovazioni strategiche contenute nella via italiana e le revisioni dottrinali che essa comportava. Per quanto concerne il «vincolo esterno», Spagnolo segnala limpidamente come dall’VIII Congresso ebbe inizio l’avvicinamento del PCI all’integrazione europea. Esso però presentava più di un’aporia: la sottovalutazione del fatto che il processo avviato con i Trattati di Roma muoveva in direzione di un’affermazione dell’Europa occidentale come attore della politica internazionale e la difficoltà di conciliare un orientamento favorevole al MEC con l’aperta ostilità sovietica verso esso. Entrambe le difficoltà erano accresciute dall’incomprensione del carattere intrinsecamente progressivo della sovranazionalità, di cui Togliatti diffida- va, e dalla sottovalutazione delle opportunità offerte dal capitalismo democratico via via che il movimento operaio diveniva un attore fondamentale della politica nazionale in tutto l’Occidente. Questo spingeva Togliatti a vedere nelle istituzioni comunitarie soprattutto un’arena dalla quale i partiti comunisti europei non si dovevano estraniare per promuovere la distensione. Solo con il precipitare della crisi del movimento comunista Togliatti si spinse oltre e vedremo come il problema venne affrontato nel Memoriale di Yalta.

Sul piano della politica nazionale, il riorientamento europeo del PCI implicò un’affermazione definitiva della strategia democratica, sancita dalla assunzione solenne della Costituzione repubblicana come programma fondamentale del partito. L’accelerazione dell’evoluzione riformistica del PCI comportava una fondamentale revisione del finalismo socialista, mentre la sua interpretazione della coesistenza pacifica implicava una revisione altrettanto profonda della concezione delle relazioni internazionali. Nell’uno e nell’altro campo le proposizioni più nette vennero formulate negli ultimi due anni della vita di Togliatti, incalzato dalla crisi sempre più acuta del comunismo internazionale e da un crescente pessimismo sulle possibilità di governarla. Ma Togliatti aveva innanzitutto una grande responsabilità politica nazionale e a questo proposito dobbiamo soffermarci brevemente sul modo in cui egli affrontò il centrosinistra. Ci limiteremo ad un solo aspetto di una questione assai complessa perché strettamente legata ai mutamenti profondi della società italiana e del quadro internazionale, e per altro verso densa, fra il 1958 e il 1964, di sviluppi e di alternative.

Com’è noto, alla politica italiana nel Memoriale di Yalta si fa solo un cenno. Pensiamo che abbia ragione Spagnolo nel ritenere che Togliatti si riservava di parlarne a voce con Krusciov, sia perché i temi che più gli interessava fissare sulla carta riguardavano la politica internazionale, sia perché la situazione italiana non sarebbe stata agevolmente riassumibile in un breve paragrafo. Ma le questioni che egli si riprometteva di sottoporre a Krusciov avevano implicazioni decisive per la situazione italiana e soprattutto per la posizione del PCI. Come Carlo Spagnolo e, ancor più puntualmente, Ermanno Taviani12 argomentano, la posizione di Togliatti di fronte al centrosinistra era contrassegnata da notevoli oscillazioni, da flessibilità tattica, ma anche da alcuni punti fermi. Questi ultimi si possono riassumere nella valutazione che il centrosinistra rappresentava un evidente progresso della situazione politica italiana («un terreno di lotta più avanzato» per il PCI), ma poteva costituire tanto l’inizio di una stagione di riforme, alle quali il PCI intendeva prendere parte anche dall’opposizione, quanto invece una manovra trasformistica, che si sarebbe risolta nella sua emarginazione. Per questo, pur nel variare del quadro politico di centrosinistra, il PCI cercò di sviluppare tutte le convergenze possibili con il partito socialista, la sinistra democristiana e le terze forze, con l’obiettivo di mettere in crisi la centralità della DC, eventualmente di dividerla e di creare un’alternativa riformistica basata sullo schieramento che nel 1946-47 aveva prodotto la Costituzione repubblicana e fra il 1958 e il 1962 – dal convegno delle riviste del Teatro Eliseo, al congresso di Napoli della DC – aveva dato segni di nuove convergenze programmatiche. Il fallimento del primo centrosinistra, l’avanzata del PCI e la sconfitta della DC e dei socialisti alle elezioni del 1963, e la crisi del governo Moro dell’estate 1964 offrivano al PCI ampi margini di manovra che ne avrebbero potuto accrescere l’influenza sul governo. Al tempo stesso, il blocco del processo riformatore presentava il pericolo che si uscisse dall’impasse con un suo totale isolamento. Si riproponeva l’interrogativo circa la possibilità di un riformismo borghese in Italia, ovvero circa la disponibilità della borghesia italiana a riconoscere la legittimazione del movimento operaio a governare in presenza d’una situazione in cui la sua maggiore espressione politica era un partito comunista, sia pure atipico.

Non possiamo soffermarci sulle ragioni del fallimento del centrosinistra.13 Abbiamo richiamato in modo sommario il problema perché l’atteggiamento dell’URSS verso la linea del PCI sul centrosinistra aveva un notevole rilievo: come suggerisce Spagnolo, si trattava di capire se un ingresso del PCI nel campo delle forze governative – l’obiettivo enunciato da Togliatti subito dopo le elezioni politiche del 1963 – era gradito a Mosca oppure no. Il crescente revisionismo del PCI, la sua opposizione alla proposta sovietica di una nuova conferenza internazionale mirante a “scomunicare” i comunisti cinesi, e l’appeal che il comunismo italiano aveva presso le correnti riformistiche dei partiti comunisti dell’Europa centrorientale, suscitavano a Mosca il timore che l’ingresso del PCI nell’area di governo avesse un impatto destabilizzante sulle democrazie popolari.

D’altro canto, il PCI aveva manifestato una opposizione sempre più netta alla politica di coesistenza pacifica intesa come stabilizzazione bipolare degli equilibri mondiali14 e anche per questo il suo ingresso nell’area di governo poteva non essere gradito a Mosca. Ma su ciò non possiamo dire altro, poiché il tema non è stato sviluppato nel Memoriale. È opportuno, invece, soffermarci brevemente sul revisionismo ideologico che caratterizzò l’evoluzione politica del PCI via via che la crisi del comunismo internazionale si aggravava. Fin dall’immediato dopoguerra Togliatti aveva impostato la politica nazionale del PCI in modi non definibili se non con il termine riformistici.15 Nel 1956, per caratterizzare la via italiana, aveva fatto più di un cenno alla neces- sità di una revisione del leninismo. Ma fu nel Rapporto al X Congresso ch’egli affrontò di petto il problema. La crisi del movimento comunista rendeva sempre più pressante l’esigenza di differenziare la posizione del PCI anche sul piano ideologico. La determinazione reciproca fra democrazia e socialismo, orizzonte teorico della via italiana fin dal 1945, poneva l’esigenza di ridefinire il «finalismo socialista». D’altro canto, la proiezione sempre più europea della politica del PCI imponeva al suo leader di chiarirne i fondamenti concettuali in rapporto alle socialdemocrazie, la più importante delle quali, l’SPD, nel Congresso di Bad Godesberg del 1959 aveva superato definitivamente il finalismo. Dopo aver ribadito che le forme politiche e statali entro le quali il PCI collocava la sua prospettiva erano quelle previste dalla Costituzione repubblicana, Togliatti affrontava il tema del finalismo: «È evidente – egli affermò – che nell’accettare questa prospettiva, che è quella di una avanzata verso il socialismo nella democrazia e nella pace, noi introduciamo il concetto di uno sviluppo graduale, nel quale è assai difficile dire quando, precisamente, abbia luogo il mutamento di qualità. Ciò che prevediamo è, in paesi di capitalismo sviluppato e di radicata organizzazione democratica, una lotta, che può estendersi per un lungo periodo di tempo e nella quale le classi lavoratrici combattono per diventare le classi dirigenti e quindi aprirsi la strada al rinnovamento di tutta la struttura sociale».16 Non meno significativo è che Togliatti facesse risalire l’inizio di questa politica alla concezione della «democrazia progressiva» del 1944-47, affermandone la continuità.17 Egli calava così la via italiana nelle coordinate concettuali del riformismo classico – quello enunciato da Bernstein a fine Ottocento – lasciando cadere tanto il finalismo, quanto il concetto di transizione.

Nella teoria delle relazioni internazionali la revisione fu ancora più audace. Nel comunismo sovietico la politica di coesistenza pacifica continuava a essere basata sulla proiezione della lotta di classe nelle relazioni internazionali; pertanto, la non inevitabilità della guerra non comportava il superamento della concezione classica della guerra come continuazione della politica con altri mezzi (il teorema di Clausewitz che affermava l’equazione, in ultima istanza, fra la politica e la guerra). Togliatti aveva cominciato a mettere in discussione questo paradigma sin dal 1954, per affermare che il punto di riferimento storico e ideale del socialismo era il genere umano e non la classe (l’unità del genere umano come risultato del suo autonomo sviluppo). Carlo Spagnolo ricorda, in proposito, l’amaro sarcasmo con cui Pietro Secchia aveva commentato l’appello di Togliatti ai cattolici per salvare l’umanità dall’autodistruzione nucleare lanciato nel Comitato centrale del 12 aprile 1954.18 Secondo la testimonianza di Giorgio Amendola, ricordando la propria avversione alla politica nazionale inaugurata da Togliatti nel 1944, Sec- chia avrebbe commentato: «Prima parlavamo di classe, poi di patria, adesso siamo arrivati ad umanità (…). Dove andremo a finire?».19

Come Spagnolo dimostra puntualmente, la sostituzione dell’interesse del genere umano a quello della classe operaia nella visione delle relazioni internazionali ebbe uno sviluppo parallelo all’aggravarsi della rottura fra la Cina e l’URSS. L’occasione in cui Togliatti ne fornì l’elaborazione più avanzata fu, com’è noto, il discorso pronunciato a Bergamo il 20 marzo 1963, pubblicato non a caso con il titolo “Il destino dell’uomo”. Il passo saliente riguardava il mutamento della correlazione fra la politica e la guerra, originato dagli sviluppi della condizione atomica. Togliatti partiva dalla percezione realistica della possibilità che in un conflitto termonucleare il genere umano si «suicidasse», per trarne tutte le conseguenze sul terreno teorico e storico-politico: «La guerra diventa cosa diversa da ciò che mai sia stata (…) e la pace, a cui sempre si è pensato come a un bene, diventa qualcosa di più e di diverso: divenuta una necessità se l’uomo non vuole annientare se stesso. Ma riconoscere questa necessità, non può non significare una revisione totale di indirizzi politici, di morale pubblica e anche di morale privata. Di fronte alla minaccia concreta della comune distruzione la coscienza della comune natura umana emerge con forza nuova».20

Crediamo che Spagnolo abbia ragione nell’individuare nel Comitato centrale del novembre 1961 il passaggio che indusse Togliatti ad affrontare decisamente la crisi del comunismo internazionale messa a tema, infine, nel Memoriale di Yalta: fu una riunione tempestosa, di cui oggi conosciamo tutti i documenti.21 Il documento finale registrava il fallimento della politica di Krusciov, la crisi del movimento comunista internazionale e i loro riflessi sulla situazione del PCI. Il revisionismo dell’ultimo Togliatti appare così il riverbero d’un drammatico isolamento del PCI che non poteva risolversi con le pur ardite innovazioni teoriche a cui abbiamo accennato. Nel Memoriale di Yalta i punti salienti del revisionismo togliattiano vengono riproposti come temi riguardanti non solo il PCI, ma l’intero movimento comunista internazionale.

In merito alla storia del comunismo, la ricerca di Spagnolo costituisce un approfondimento dell’innovazione metodologica affermatasi negli studi dell’ultimo quindicennio. Nel convegno sulla storia del PCI nell’Italia repubblicana, promosso dalla Fondazione Istituto Gramsci nel 2000, era stato superato il falso dilemma fra autonomia ed eteronomia, sostituite dal paradigma dell’interdipendenza fra storia del PCI e storia del comunismo sovietico.22 Ricollegandosi a quella linea di ricerca, Spagnolo mostra come, almeno per gli ultimi an- ni della direzione di Togliatti, sia necessario dare maggiore peso alle dimensioni teoriche della sua ricerca proprio perché, affrontando i problemi del suo partito, Togliatti non poteva prescindere da quelli del comunismo internazionale; e questi ne manifestavano la crisi sempre più grave, fissandone il punto focale nella rottura fra URSS e Cina.

Spagnolo indica una prospettiva interessante per ripensare anche il rapporto fra la storia del comunismo e la storia mondiale nella seconda metà del Novecento. Nella tematizzazione del Memoriale di Yalta appare con evidenza come Togliatti collegasse la crisi del comunismo internazionale ai mutamenti della struttura del mondo intervenuti nell’ultimo ventennio. Inoltre, la ricostruzione di Spagnolo ci aiuta a comprendere meglio come, per la sua «costituzione materiale », il movimento comunista avesse pochissime probabilità di poterla superare. Come già accennato, negli ultimi due anni della vita di Togliatti il PCI aveva contrastato la proposta sovietica di convocare una nuova conferenza internazionale dei partiti comunisti per condannare le posizioni dei comunisti cinesi. L’opposizione di Togliatti e del PCI alla loro scomunica nasceva dalla consapevolezza che la rottura fra Cina e Unione Sovietica avrebbe inabissato definitivamente le ambizioni universalistiche del comunismo. Essa generava una crisi lacerante anche nel PCI, poiché venivano meno le ragioni della sua appartenenza al movimento comunista internazionale. Anche per questo Togliatti non poteva limitarsi a difendere le ragioni della via italiana e si spinse fino a proporre a Krusciov una revisione delle basi ideologiche del comunismo internazionale. È quindi opportuno rileggere il Memoriale in quest’ottica. In esso riaffiora con forza il policentrismo come criterio interpretativo dei mutamenti della struttura del mondo. Al tempo stesso, la proposta dell’«unità nella diversità e nell’autonomia» come unico criterio valido per ricomporre il comunismo internazionale rende esplicita la necessità di una rifondazione teorica del comunismo sovietico. Infatti, nel Memoriale ritornano sinteticamente i temi più significativi della ricerca del PCI dal 1956 in poi. La giustificazione teorica della evitabilità della guerra postulava una strategia internazionale molto più ambiziosa della stabilizzazione bipolare delle relazioni internazionali. Dire poi che nei confronti dei comunisti cinesi doveva essere sviluppata una lotta politica incessante per sconfiggere la loro ideologia dell’inevitabilità della guerra, ma non si doveva giungere a una rottura, aveva diverse implicazioni.

L’unità del movimento comunista nelle differenze e nell’autonomia dei paesi socialisti e dei partiti comunisti escludeva la ricostruzione di un unico centro di direzione del movimento comunista internazionale, ma al tempo stesso richiedeva una guida capace d’egemonia nel campo comunista e nella politica mondiale. Questa funzione avrebbe dovuto essere esercitata dell’URSS. Ma l’Unione Sovietica avrebbe potuto assolverla solo se fosse stata capace di unificare realtà e interessi sempre più divaricati e plurali, e quindi proporre una strategia internazionale in grado innanzitutto di riconoscere e far riconoscere il diritto della Cina ad esercitare un ruolo di grande potenza, di sostenere la lotta dei non allineati per un nuovo ordine mondiale favorevole alla decolonizzazione e allo sviluppo dei paesi di nuo- va indipendenza, di favorire la ricomposizione dell’Europa. Nel Memoriale Togliatti poneva apertamente questi problemi e indicava le revisioni fondamentali che l’URSS avrebbe dovuto compiere per poterli affrontare: la revisione della «dottrina della guerra» e quella della concezione dello Stato e della democrazia. Per quanto riguarda in particolare l’Europa, principale teatro d’azione del PCI, Togliatti rilevava i segni di una incipiente autonomia della Comunità europea dagli Stati Uniti e, cogliendone il valore progressivo, superava le preoccupazioni manifestate fino a poco tempo prima per la sicurezza dell’URSS. Anzi, reclamava per i paesi di democrazia popolare riforme democratiche radicali e una loro integrazione economica aperta al mercato mondiale. Non ci potevano essere dubbi, dunque, sul modo in cui la sicurezza dell’URSS e la sua funzione mondiale andavano ripensate. Il paradigma analitico del policentrismo suggeriva una strategia internazionale ispirata al principio d’interdipendenza e alla cooperazione fra Stati e sistemi economici diversi, nella reciprocità.

Com’è noto, Togliatti era un politico realista, guidato da una disciplinata prudenza e da una straordinaria capacità di “navigare” prima fra le tragedie e poi fra i dilemmi del comunismo internazionale. È difficile immaginare quale grado di probabilità attribuisse alle proposte annotate nel Memoriale. Certo, se si era indotto al tentativo di esplorare le possibilità d’una revisione così profonda del comunismo sovietico, il suo pessimismo sulla crisi del movimento comunista internazionale doveva essere ancora più grande di quanto egli non fosse disposto ad ammettere. Ma non siamo propensi a credere che intendesse limitarsi a una testimonianza. La sua morte non ci consente di formulare ipotesi sulle conseguenze che avrebbe potuto trarre dal colloquio con Krusciov, se fosse riuscito ad averlo. Tuttavia, in prospettiva storica, l’importanza del Memoriale sta soprattutto nell’istruttoria della crisi del comunismo internazionale che ricapitolava l’elaborazione del PCI degli ultimi anni. Il Memoriale di Yalta è più importante per le considerazioni che contiene sulla crisi del comunismo sovietico che per il tentativo di indicarne le soluzioni. In estrema sintesi, esso descrive una situazione mondiale in grande sviluppo, un insieme delle relazioni internazionali sempre più complesso, interdipendente e plurale, tanto da renderne insostenibile la riduzione ad una regolazione bipolare fondata sul predominio delle due maggiori potenze. Inoltre, la coesistenza competitiva appare palesemente implausibile: non solo l’URSS non era in grado di competere quasi in nessun campo – economico, politico o militare – con gli Stati Uniti, ma si rivelava incapace di fronteggiare le divaricazioni generate dalla stabilizzazione bipolare nel suo stesso campo di forze, la cui unità avrebbe potuto costituire, invece, la leva delle sue ambizioni egemoniche. Ma, se questo era vero, la politica di coesistenza rappresentava davvero un’ipotesi di sviluppo della sfida mondiale storicamente rappresentata dal comunismo internazionale, come Togliatti aveva pensato inizialmente, o non era piuttosto il segno della sua impossibilità e d’un ripiegamento? Se nella politica interna il XX Congresso del PCUS portava alla luce l’insostenibilità dell’economia di comando e del dispotismo terroristico staliniano, sul piano della politica internazionale la coesistenza competitiva era una via di fuga propagandistica che cercava di nascondere l’impossibilità del campo socialista di mantenere la sua unità sulle basi costruite da Stalin in Europa e in Asia. Ma, se è questo il significato della crisi del comunismo internazionale, la riflessione dell’ultimo Togliatti illumina retrospettivamente tutto lo spettro della storia mondiale a datare dalla seconda metà del Novecento.

Il comunismo sovietico entrava in crisi – e non era una crisi di crescenza – perché non era in grado di vincere una sfida mondiale in termini di egemonia. Ma era in grado di vincerla il suo avversario? La crisi del comunismo internazionale era il segno della insostenibilità oggettiva di una politica internazionale che, a fronte della impetuosa globalizzazione dell’economia e della politica mondiale, restava anacronisticamente ancorata al paradigma della potenza. Se questo era vero per il comunismo sovietico, lo stesso criterio vale anche per i suoi avversari, che con l’opzione della guerra fredda certamente non avevano saputo introdurre un altro paradigma. La crisi del comunismo sovietico testimonia dunque le grandi difficoltà di tutti i partner della politica internazionale nel far fronte alle sfide della globalizzazione ponendo le basi d’un nuovo ordine mondiale. Al tempo stesso, la ricostruzione della sua genesi può contribuire ad elaborare una visione storico-politica dei processi di globalizzazione, superando la polisemia confusionale con cui essi vengono solitamente descritti.

[1] C. Spagnolo, Sul Memoriale di Yalta. Togliatti e la crisi del movimento comunista internazionale (1956-64), Carocci editore, Roma 2007.

[2] In R. Gualtieri, C. Spagnolo, E. Taviani (a cura di), Togliatti nel suo tempo, Annali della Fondazione Istituto Gramsci, XV, Carocci editore, Roma 2007, pp. 215-38.

[3] P. Togliatti, Il XX Congresso del PCUS, Relazione informativa al Comitato Centrale del PCI del 13 febbraio 1956, in Id., Problemi del movimento operaio internazionale 1956-1961, Editori Riuniti, Roma 1962, p. 28.

[4] Togliatti, Rinnovare e rafforzare, Rapporto all’VIII Congresso del PCI, 8 dicembre 1956, in Id., Nella democrazia e nella pace verso il socialismo, II, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 12.

[5] Togliatti, Il XX Congresso del PCUS cit., pp. 48-52.

[6] Togliatti, L’Intervista a “Nuovi Argomenti”, in Id., Problemi del Movimento operaio internazionale cit., p. 116: «Vi sono paesi dove ci si vuole avviare al socialismo senza che i comunisti siano il partito dirigente. In altri paesi ancora, la marcia verso il socialismo è un obiettivo per il quale si concentrano sforzi che partono da movimenti diversi, che però spesso non hanno ancora raggiunto né un accordo né una comprensione reciproca. Il complesso del sistema diventa policentrico e nello stesso movimento comunista non si può parlare di una guida unica, bensì di un progresso che si compie seguendo strade spesso diverse». Marco Galeazzi ha sottolineato giustamente come la tesi del policentrismo desse conto della rilevanza assunta in quegli anni dal movimento dei non allineati e mirasse a valorizzarlo. Cfr. M. Galeazzi, Togliatti e Tito. Tra identità nazionale e internazionalismo, Carocci editore, Roma 2005.

[7] Togliatti, Alcuni problemi di storia dell’Internazionale comunista, in Id., Problemi del Movimento operaio internazionale cit., p. 302.

[8] Togliatti, La via italiana al socialismo, Rapporto al Comitato Centrale del PCI del 24 giugno 1956, Ivi, pp. 134-35.

[9] Spagnolo, op. cit., pp. 176-77.

[10] Ivi, pp. 190-91.

[11] Ivi, p. 248.

[12] Taviani, Di fronte al centro-sinistra, in Gualtieri, Spagnolo, Taviani (a cura di), op. cit., pp. 394-422.

[13] Rinviamo alla interpretazione di Voulgaris, che ci pare la più persuasiva. Cfr. Y. Voulgaris, L’Italia del centro-sinistra, 1960-1968, Carocci editore, Roma 1998.

[14] Nella Relazione del X congresso del PCI del dicembre 1962 Togliatti aveva affermato: «Definire la coesistenza come un compromesso è giusto, ma è una verità soltanto parziale (…). Sarebbe infatti errato considerare che la pacifica coesistenza si possa ridurre al semplice riconoscimento e mantenimento dello status quo, cioè della immutabilità della situazione attuale, cui corrisponderebbe una divisione di sfere di influenza e così via. Nella situazione attuale sono infatti acuti molti problemi non risolti, vi sono punti di contrasto e conflitti, e l’esistente equilibrio riposa sulla esistenza e contrapposizione di due grandi blocchi militari. Questa è la situazione che bisogna modificare se si vogliono creare le condizioni in cui si possa costruire un mondo senza guerra». Togliatti, Per andare verso il socialismo nella democrazia e nella pace, in Id., Nella democrazia e nella pace verso il socialismo cit., p. 197.

[15] G. Vacca, Gramsci e Togliatti, Editori Riuniti, Roma 1991.

[16] Togliatti, Problemi del Movimento operaio internazionale cit., p. 228

[17] Ivi, pp. 186-89.

[18] Togliatti, Per un accordo tra comunisti e cattolici per salvare la civiltà umana, in Id. (a cura di L. Gruppi), Opere, V, 1944-45, Editori Riuniti, Roma 1984, pp. 832-44.

[19] Spagnolo, op. cit., p. 146.

[20] Togliatti (a cura di L. Gruppi), Opere, VI, 1956-64, Editori Riuniti, Roma 1984, p. 699.

[21] M. L. Righi (a cura di), Il Pci e lo stalinismo, Editori Riuniti, Roma 2007.

[22] R. Gualtieri (a cura di), Il Pci nell’Italia repubblicana (1943-1991), Carocci editore, Roma 2001.